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28 novembre 2020
TANZANIA: RESA DEI CONTI CONTRO I PARTITI DELL’OPPOSIZIONE DOPO LE ELEZIONI
Uccisioni, torture e detenzioni arbitrarie di membri dell’opposizione all’indomani delle elezioni.
“Omicidi, torture e detenzioni arbitrarie di membri dell’opposizione all’indomani delle elezioni”, denuncia Amnesty International. Succede questo in Tanzania dopo il voto del 28 ottobre
scorso che ha confermato il secondo mandato a John Magufuli.
Quello di Magufuli è una sorta di resa dei conti, un ulteriore giro di vite sui diritti umani e i diritti civili. Appena giunta conferma del secondo mandato alla presidenza del Paese, Magufuli
vuole mostrare che non gradisce nessun tipo di protesta, di critica e di opposizione. Come, d’altronde, aveva fatto nei precedenti cinque anni.
L’Ong per i diritti umani denuncia la gravissima situazione dell’ex colonia britannica andata peggiorando dal primo mandato presidenziale di Magufuli, nel 2015. “Le autorità tanzaniane devono
avviare un’indagine rapida, approfondita e indipendente su queste accuse”, sostiene Amnesty.
“Abbiamo assistito a un’escalation delle violazioni dei diritti umani. – ha affermato Deprose Muchena, direttore di Amnesty per l’Africa orientale e meridionale– Questo succede
all’indomani delle elezioni del mese scorso. Quello che abbiamo visto in Tanzania, dopo il voto, era reprimere il dissenso. Criticare lo svolgimento di un’elezione non è un crimine. Tutti coloro
che sono ancora detenuti arbitrariamente dovrebbero essere rilasciati immediatamente e incondizionatamente“.
Amnesty conferma che membri della società civile e gruppi di opposizione hanno accusato le Forze di sicurezza di usare una forza eccessiva in modo indiscriminato. In manifestazioni pacifiche i
militari hanno utilizzato anche armi con munizioni vere uccidendo almeno 22 persone.
I legali delle vittime hanno raccontato ad Amnesty di aver parlato con le famiglie dei manifestanti morti. Alcuni hanno potuto vedere lo stato dei corpi dei loro congiunti uccisi, altri hanno
avuto solo le fotografie dei morti.
Dal giorno delle elezioni, secondo gli avvocati dei partiti di opposizione, i militari hanno arrestato arbitrariamente e almeno 77 leader e sostenitori dei partiti critici con il governo. Una
delle situazioni peggiori e quella dell’isola di Zanzibar: arrestate 33 persone alcune delle quali accusate di terrorismo. Gli avvocati dei detenuti hanno riferito che la maggior parte dei messi
dietro le sbarre non è stata formalmente accusata. Ma neanche quelli in cella per terrorismo hanno avuto prove a sostegno delle imputazioni che sembravano inventate.
“Tra gli arrestati poi rilasciati – sostiene Amnesty – ci sono il candidato presidenziale dell’opposizione Tundu Lissu. Poi il quello antigovernativo a Zanzibar, Seif Sharif Hamad, e
altri leader schierati contro il governo. Tra questi Zitto Kabwe, Freeman Mbowe, Godbless Lema, Lazaro Nyalandu, Isaya Mwita, Boniface Jacob, Nassor Mazrui e Ayoub Bakari. Tundu Lissu e Godbless
Lema sono tra i quei politici fuggiti dal Paese”.
By Africa Express
14 novembre 2020
INCHIESTA DEL NEW YORK TIMES
Il numero 2 di Al Qaeda assassinato a Teheran da agenti israeliani.
Il numero 2 di Al Qaeda, accusato di essere una delle menti principali degli attacchi mortali del 1998 alle ambasciate americane in Africa, è stato ucciso in Iran tre mesi fa. Lo hanno confermano
al New York Times i servizi segreti. Il quotidiano americano pubblica con ampio rilievo questa mattina un articolo investigativo al quale hanno lavorato ben sei giornalisti: Adam Goldman ed Eric
Schmitt da Washington, Farnaz Fassihi da New York e Ronen Bergman da Tel Aviv. Inoltre Hwaida Saad ha contribuito con un reportage da Beirut e Julian E. Barnes da Washington.
Il New York Times racconta che Abdullah Ahmed Abdullah, che si faceva chiamare con il nome di battaglia di Abu Muhammad al-Masri, è stato ucciso a colpi
di arma da fuoco per le strade di Teheran da due assassini che a bordo su una motocicletta il 7 agosto, anniversario degli attentati alle ambasciate di Nairobi e di Dar es Salaam, hanno
affiancato la sua automobile. È stato ucciso insieme a sua figlia, Miriam, la vedova del figlio di Osama bin Laden, Hamza bin Laden.
Quattro fonti diverse hanno spiegato al Times che l’attacco è stato compiuto da agenti israeliani su ordine di Washington.. Non è chiaro quale ruolo abbiano avuto gli Stati Uniti, che per anni
hanno seguito i movimenti di al-Masri e di altri agenti di Qaeda in Iran.
L’omicidio è avvenuto in un mondo talmente nascosto e segreto fatto di intrighi geopolitici e di spionaggio antiterrorismo; la morte di al-Masri (che in arabo significa “L’Egiziano”) era stata
annunciata, ma mai confermata fino ad ora. Per ragioni ancora oscure, Al Qaeda non ha comunicato la morte di uno dei suoi massimi dirigenti, i funzionari iraniani l’hanno insabbiata e nessun
Paese ne ha rivendicato pubblicamente la responsabilità.
Al-Masri, che aveva circa 58 anni, era uno dei padri fondatori di Al Qaeda e si pensa fosse il secondo in comando a guidare l’organizzazione terroristica internazionale dopo il suo attuale
leader, Ayman al-Zawahri.
A lungo inserito nella lista dei terroristi più ricercati dell’FBI, era stato incriminato negli Stati Uniti per crimini legati agli attentati dinamitardi delle ambasciate statunitensi in Kenya e
Tanzania, nei quali rimasero uccise 224 persone e ferite centinaia. L’FBI ha offerto una ricompensa di 10 milioni di dollari per le informazioni su di lui. Fino a ieri la sua foto campeggiava
ancora nella lista dei ricercati. nel sito dell’FBI.
Il fatto che Al-Masri abbia scelto come suo rifugio l’Iran ha sorpreso un po’ tutti, dato che l’Iran e Al Qaeda sono acerrimi nemici. L’Iran, una teocrazia musulmana sciita, e Al Qaeda, un gruppo
jihadista musulmano sunnita, si sono combattuti sui campi di battaglia un po’ ovunque a cominciare dall’Iraq.
I funzionari dei servizi segreti americani sostengono che Al-Masri era in “custodia” dell’Iran dal 2003, ma che dal 2015 viveva liberamente nel distretto dei Pasdaran, un sobborgo di lusso di
Teheran.
Ed ecco la ricostruzione ricca di particolari pubblicata dal New York Times. Verso le 21:00, in una calda notte d’estate, il capo terrorista stava guidando la sua Renault L90 bianca vicino a casa
sua. Seduta accanto a lui la figlia Mariam. Due uomini armati su una moto gli si sono avvicinati e da una pistola dotata di silenziatore hanno sparato cinque colpi. Quattro proiettili sono
entrati nell’auto attraverso il lato del guidatore e il quinto ha colpito un’auto vicina.
Quando è arrivata la notizia della sparatoria, i media ufficiali iraniani hanno identificato le vittime come Habib Daoud, un professore di storia libanese, e sua figlia ventisettenne Maryam. Il
canale di notizie libanese MTV e i social media affiliati al Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane hanno riferito che Daoud era un membro di Hezbollah, l’organizzazione militante
sostenuta dall’Iran in Libano. La storia è sembrata plausibile.
L’attacco è avvenuto in un’estate di frequenti esplosioni in Iran, con crescenti tensioni con gli Stati Uniti, pochi giorni dopo l’enorme esplosione nel porto di Beirut e una settimana prima che
il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prendesse in considerazione la possibilità di estendere un embargo sulle armi contro l’Iran. E’ stata avanzata l’ipotesi che l’omicidio potesse
essere stata una provocazione occidentale volta a indurre una violenta reazione iraniana prima del voto del Consiglio di Sicurezza.
E l’uccisione mirata di due uomini armati su una motocicletta corrisponde al modus operandi dei precedenti omicidi israeliani di scienziati nucleari iraniani. Che Israele avrebbe ucciso un
funzionario di Hezbollah, che è impegnato a combattere Israele, sembrava avere senso, tranne per il fatto che Israele da tempo aveva consapevolmente evitato di uccidere gli operativi di Hezbollah
per non provocare una guerra.
In realtà, non esiste nessun Habib Daoud.
Diversi libanesi con stretti legami con l’Iran hanno sostenuto di non aver sentito parlare di lui e del suo omicidio. Sui media libanesi l’estate scorsa non è stata pubblicata nessuna notizia su
un professore di storia libanese ucciso in Iran. E un ricercatore nel campo dell’educazione con accesso alle liste di tutti i professori di storia del Paese ha detto che non c’è traccia di un
Habib Daoud.
Uno dei funzionari dell’intelligence ha raccontato che Habib Daoud era uno pseudonimo che i funzionari iraniani hanno dato al signor al-Masri e che il lavoro di insegnante di storia era una
copertura. In ottobre, l’ex leader della Jihad islamica egiziana, Nabil Naeem, che ha definito Al-Masri un amico di lunga data, ha spiegato la stessa cosa al canale di notizie saudita Al
Arabiya.
Forse l’Iran aveva buoni motivi per voler nascondere il fatto che stava dando rifugio a un nemico dichiarato, ma è meno chiaro il motivo per cui i funzionari iraniani avrebbero accettato di
offrire rifugio al leader di Qaeda.
Secondo alcuni esperti di terrorismo il soggiorno di funzionari di Al Qaeda a Teheran potrebbe aver fornito l’assicurazione che il gruppo non avrebbe condotto operazioni all’interno dell’Iran. I
funzionari americani dell’antiterrorismo ritengono invece che il regime degli ayatollah possa aver permesso loro di rimanere per condurre operazioni contro gli Stati Uniti, un avversario
comune.
Non sarebbe la prima volta, infatti, che l’Iran ha unito le forze con i militanti sunniti: ha sostenuto infatti Hamas, la Jihad islamica palestinese e i Talebani. “L’Iran usa il settarismo
come un pugno di ferro quando fa comodo al regime, ma è anche disposto a trascurare la divisione tra sunniti e sciiti quando fa comodo agli interessi iraniani”, ha spiegato Colin P. Clarke,
analista dell’antiterrorismo al Soufan Center.
L’Iran ha costantemente negato di aver dato asilo a operativi di Al Qaeda. Nel 2018, il portavoce del Ministero degli Esteri Bahram Ghasemi ha detto che a causa del lungo e poroso confine
dell’Iran con l’Afghanistan, alcuni membri della Qaeda sono entrati in Iran, ma erano stati arrestati e deputati nei loro Paesi d’origine. Tuttavia, i funzionari dei servizi segreti occidentali
hanno racontato che i leader di Qaeda sono stati tenuti agli arresti domiciliari dal governo iraniano, che ha poi fatto almeno due accordi con Al Qaeda per liberare alcuni di loro nel 2011 e nel
2015.
Anche se negli ultimi anni Al Qaeda è stata messa in ombra dall’ascesa dello Stato Islamico, rimane comunque radicata con affiliati attivi in tutto il mondo, come è scritto in un rapporto
antiterrorismo dell’ONU pubblicato a luglio.
I funzionari iraniani non hanno risposto a una richiesta di commento su questo articolo. I portavoce dell’ufficio del primo ministro israeliano e del Consiglio di sicurezza nazionale
dell’amministrazione Trump si sono rifiutati di commentare.
Al-Masri è stato a lungo membro del consiglio di gestione altamente segreto di Al Qaeda, insieme a Saif al-Adl, che a un certo punto si è anche stabilito in Iran. La coppia, insieme a Hamza bin
Laden, che stava per prendere il controllo dell’organizzazione, faceva parte di un gruppo di alti dirigenti di Al Qaeda che hanno cercato rifugio in Iran dopo che gli attacchi dell’11 settembre
contro gli Stati Uniti li hanno costretti a fuggire dall’Afghanistan.
Secondo un documento top secret prodotto dal National Counterterrorism Center statunitense nel 2008, Al-Masri era il “pianificatore operativo più esperto e capace non sotto la custodia degli
Stati Uniti o degli alleati”. Il documento lo descriveva come “l’ex capo dell’addestramento” che “lavorava a stretto contatto” con Al-Adl. In Iran, secondo gli esperti di
terrorismo, Al-Masri è stato il mentore di Hamza bin Laden. Hamza bin Laden ha poi sposato Miriam, la figlia di Al-Masri.
“Il matrimonio di Hamza bin Laden non è stato l’unico legame dinastico che Abu Muhammad ha creato in cattività”, ha scritto l’ex agente dell’FBI ed esperto di Qaeda Ali Soufan in un
articolo del 2019 per il Centro di lotta al terrorismo di West Point. Un’altra delle figlie di Al-Masri ha sposato Abu al-Khayr al-Masri, nessuna parentela con i nostro, membro del consiglio
supremo. Gli è stato permesso di lasciare l’Iran nel 2015 ed è stato ucciso da un attacco di droni statunitensi in Siria nel 2017. All’epoca era il secondo ufficiale di Qaeda, dopo Zawahri.
Hamza e altri membri della famiglia Bin Laden sono stati liberati dall’Iran nel 2011 in cambio di un diplomatico iraniano rapito in Pakistan. L’anno scorso, la Casa Bianca ha dichiarato che Hamza
bin Laden è stato ucciso in un’operazione antiterrorismo in una regione tra l’Afghanistan e il Pakistan.
Abu Muhammad Al-Masri era nato nel 1963 nel distretto di Al Rarbiya, nell’Egitto settentrionale. In gioventù, secondo le dichiarazioni giurate depositate nelle cause legali negli Stati Uniti, è
stato un calciatore professionista nella massima lega egiziana. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, si è unito al movimento jihadista contro gli stranieri.
Dopo che il ritiro dei sovietici, 10 anni più tardi, l’Egitto rifiutò di permettere il ritorno di Al-Masri. Rimase in Afghanistan, dove alla fine si unì a Bin Laden nel gruppo che sarebbe poi
diventato il nucleo fondatore di Al Qaeda. Nell’elenco dei 170 fondatori figura al settimo posto.
All’inizio degli anni Novanta, viaggiò con Bin Laden a Khartoum, in Sudan, dove iniziò a formare cellule militari. Si recò anche in Somalia per aiutare la milizia fedele al signore della guerra
somalo Mohamed Farah Aidid. Lì ha preparato i guerriglieri somali all’uso di lanciarazzi a spalla contro gli elicotteri. I suoi insegnamenti hanno permesso ai militanti di abbattere un paio di
elicotteri americani nella battaglia di Mogadiscio del 1993, in quello che oggi è conosciuto come l’attacco Black Hawk Down.
“Quando Al Qaeda ha iniziato a svolgere attività terroristiche alla fine degli anni ’90, Al-Masri era uno dei tre compagni più stretti di Bin Laden, in qualità di capo della sezione operativa
dell’organizzazione – ha commentato Yoram Schweitzer, capo del Progetto Terrorismo dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv - Ha portato con sé know-how e
determinazione e da allora è stato coinvolto in gran parte delle operazioni dell’organizzazione, con particolare attenzione all’Africa”.
Poco dopo la battaglia di Mogadiscio, Bin Laden ha incaricato Al-Masri di pianificare le operazioni contro gli obiettivi americani in Africa. Avrebbe dovuto organizzare un’operazione drammatica e
ambiziosa che, come gli attacchi dell’11 settembre, avrebbe attirato l’attenzione internazionale. Al-Masri decise di attaccare contemporaneamente due obiettivi relativamente ben difesi in Paesi
diversi.
Poco dopo le 10:30 del 7 agosto 1998, due camion carichi di esplosivo si sono fermati davanti alle ambasciate americane di Nairobi, in Kenya, e Dar es Salaam, in Tanzania. Le esplosioni hanno
incenerito le persone nelle vicinanze, fatto saltare i muri degli edifici e frantumato il vetro per i blocchi circostanti. Nel 2000, Al-Masri è diventato uno dei nove membri del consiglio
direttivo di Al Qaeda e ha diretto l’addestramento militare dell’organizzazione.
Ha anche continuato a supervisionare le operazioni in Africa, secondo un ex funzionario dei servizi segreti israeliani, e ha ordinato l’attacco a Mombasa, in Kenya, nel 2002, che ha ucciso 13
kenioti e tre turisti israeliani. Nel 2003, Al-Masri era tra i numerosi leader di Qaeda fuggiti in Iran che, sebbene ostili al gruppo, sembravano fuori dalla portata americana. “Credevano che
sarebbe stato molto complicato e difficile per gli americani agire contro di loro - ha detto Schweitzer - Anche perché credevano che le possibilità che il regime iraniano facesse un
accordo di scambio con gli americani che includesse le loro teste fossero molto scarse”.
Al-Masri era uno dei pochi membri di alto rango dell’organizzazione a sopravvivere alla caccia americana agli autori dell’11 settembre e di altri attacchi. Quando lui e altri leader della Qaeda
fuggirono in Iran, inizialmente furono tenuti dalle autorità agli arresti domiciliari.
Nel 2015, l’Iran ha annunciato un accordo con Al Qaeda in cui ha rilasciato cinque dei leader dell’organizzazione, tra cui Al-Masri, in cambio di un diplomatico iraniano che era stato rapito
nello Yemen. In quel momento le tracce di Abdullah sono svanite, ma secondo uno dei funzionari dell’intelligence ha continuato a vivere a Teheran, sotto la protezione delle Guardie rivoluzionarie
e successivamente del Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza. Gli fu permesso però di viaggiare all’estero e lo fece, soprattutto in Afghanistan, Pakistan e Siria.
Alcuni analisti americani ritengono che la morte di al-Masri abbia reciso i legami tra uno degli ultimi leader originari di Al Qaeda e l’attuale generazione di militanti islamisti, cresciuti dopo
la morte di Bin Laden nel 2011. “Se è vero, questo taglia ulteriormente i legami tra la vecchia scuola di Al Qaeda e la moderna jihad – ha commentato Nicholas J. Rasmussen, un ex
direttore del National Counterterrorism Center - Non fa che contribuire ulteriormente alla frammentazione e al decentramento del movimento di Al Qaeda”.
By Africa Express
10 novembre 2020
MOZAMBICO: MMACELLERIA JIADISTA
Decapitate 53 persone, anche minori e una donna incinta.
È successo tra il 31 ottobre e il 4 novembre nel distretto di Muidumbe, 100 km a sudovest di Mocimboa da Praia, a Cabo Delgado, estremo nord del Paese. Stavano facendo il rito di iniziazione
maschile ed erano tutti adolescenti, la maggior parte erano stati circoncisi di recente in occasione della cerimonia.
Erano 15, accompagnati da cinque adulti. I loro corpi sono stati trovati nella boscaglia: tutti decapitati, gli adulti fatti a pezzi a colpi di machete. Era un rito tribale importante quanto la
cresima della religione cattolica. Con questo rito gli adolescenti acquisiscono il diritto di passare dal mondo dell’adolescenza alla realtà del mondo degli adulti. Ma la rabbia jihadista non
rispetta la sacralità degli “altri”, considerati infedeli, e ha portato solo morte.
La conferma dell’eccidio arriva da Pinnacle News, la Rete di comunicazione comunitaria di Cabo Delgado che purtroppo ha dovuto aggiornare le prime informazioni sul massacro. Non sono 20 ma 53 le
persone trucidate dai tagliagole, includendo anche un feto.
I terroristi sono entrati nel villaggio “24 de Março” per ammazzare. Dopo la strage sono entrati in un villaggio vicino dove si teneva un’altra cerimonia di iniziazione. Anche lì hanno decapitato
24 bambini e sei anziani. La popolazione è però riuscita a catturare tre jihadisti che hanno decapitato facendogli subire la stessa sorte delle loro vittime. Ma, per l’ennesima volta, i villaggi
sono stati distrutti.
Ma ci sono altre decapitazioni. Un insegnante, Damião Males Tangasse, era riuscito a scappare nella boscaglia con la moglie, i due figli e la cognata incinta. La moglie, salva per miracolo, ha
raccontato di aver visto i terroristi decapitare il marito. Poi dopo aver picchiato selvaggiamente la sorella incinta, le hanno tagliato la pancia e decapitata e hanno rapito i suoi
bambini.
Secondo la popolazione, l’obiettivo dei jihadisti era una vendetta: la decapitazione di 270 persone, il numero di terroristi uccisi dagli ex combattenti nello stesso distretto. Il ministro
mozambicano degli Interni, Amade Miquidade, ha confermato che tra il 26 e il 29 ottobre sono stati uccisi 130 insorti. Gli al Shabaab, così vengono chiamati dalla popolazione, dal 15 agosto hanno
ancora il controllo di Mocimboa da Praia. Hanno anche occupato il porto e dell’aeroporto della città che le Forze governative non riescono a liberare.
Dal 5 ottobre 2017, inizio degli attacchi, i morti sono oltre 2.000 e i profughi in fuga a Cabo Delgado sono diventati 435 mila. Nelle ultime due settimane, a causa della terribile situazione
igienico-sanitaria è riesplosa l’epidemia di colera nell’isola di Ibo. Oggi si contano già 60 morti.
By Africa Express
20 ottobre 2020
MOZAMBICO: ECCO CHI SONO I CAPI DEI TAGLIAGOLE
I tre capi jihadisti conoscono troppo bene il territorio. “Likonga beve sangue umano. Vendono polmoni, cuore, reni e genitali umani delle vittime”, affermano fonti
CJI.
Il Centro del Giornalismo Investigativo del Mozambico (CJI Moz) ha tracciato i profili dei tre capi jihadisti che stanno trucidando le popolazioni di Cabo Delgado. L’estremo nord
del Mozambico è sotto attacco dal 5 ottobre 2017: distruzione dei villaggi, uccisioni, decapitazioni, rapimenti soprattutto di donne diventate schiave sessuali. La violenza e la distruzione degli
islamisti radicali è andata aumentando come è cresciuto il livello delle armi usate: dai machete ai kalashnikov e lanciagranate. Oltre al livello di crudeltà dei tagliagole.
Come scritto nella prima parte del reportage, sono Bonomado Machude Omar, alias Ibn Omar; Abdala Likongo, alias Alberto Shaki; e André Idrissa, alias
Amir. Questi tre, e non solo loro, sono responsabili, fino ad oggi, della morte di almeno 2.000 persone e di aver causato 300 mila sfollati. Ma vediamo cosa ha scoperto il CJI.
Ibn Omar, il cervello degli attacchi a Cabo Delgado.
Bonomado Machude Omar, 1,90 di altezza, è riconoscibile non solo per la statura. Veste di nero, il colore dell'ISIS, e fascia nera sulla testa con scritto in arabo “La Ilaha Illallahi” (Non ci
sono altri dei oltre Allah). È protagonista di un video mentre parla ai jihadisti che nel marzo scorso è diventato virale. “Ibn Omar è stato descritto come il cervello dietro gli attacchi dei
ribelli a Cabo Delgado. Si dice che definisca tutti gli obiettivi e la logistica operativa necessaria”, scrive CJI. È chiamato “Re della foresta”.
Figlio di un insegnante e politico locale, è nato nel distretto di Palma. È l’area dei giacimenti di gas naturale (LNG/GNL) dove operano ENI, ExxonMobil e Total, difesa da almeno 300 militari.
Ibn Omar ha trascorso parte della sua infanzia a Mocimboa da Praia dove ha frequentato le scuole fino alle superiori. Ha studiato l’Islam in vari paesi per tornare in Mozambico dove ha trovato
lavoro presso l’Africa Muslim Agency, a Pemba, capitale di Cabo Delgado.
“C’era qualcosa di strano in lui", ha raccontato una fonte a CJI. "Si poteva sospettare del suo coinvolgimento negli attacchi a causa della discordia seminata da alcuni dei giovani a
cui insegnava. Diceva che ciò che hanno fatto è ciò che Allah vuole e ha giustificato il loro estremismo perché è ciò che fanno i musulmani puri”.
Alberto Shaki, il macellaio vampiro che seziona e vende organi umani.
Abdala Likonga, è stato addestrato in Kenya e Congo. Si fa chiamare il “Fantasma della selva” perché, dopo l’attacco del 5 ottobre 2017, ha fatto credere di essere morto. Uno stratagemma che ha
ingannato le autorità mozambicane al punto che lo hanno arrestato senza sapere che era lui. Ed è stato rilasciato dopo una settimana.
“Gli hanno insegnato a bere il sangue umano per eliminare il rimorso", affermano fonti CJI. "Ha imparato, e insegna agli altri, ad asportare reni, polmoni, cuore, genitali maschili e
gola (esofago, ndr) che poi vende. Sa essere un assassino a sangue freddo usando il nome Allah e sa portare disaccordo tra noi seguaci della religione islamica”. Ha una moglie e
quattro figli che spariscono qualche giorno prima degli attacchi e riappaiono qualche giorno dopo.
Amir, arrestato e ucciso in Niassa.
Anche André Idrissa, 34 anni, è tra i terroristi che hanno partecipato al primo attacco jihadista, di Mocimboa da Praia. Figlio di un notabile musulmano di corrente filosofica/moderata
sufi “tradizionalista africana” ha una scolarizzazione equivalente alla nostra seconda media inferiore. Tre mogli e quattro figli, parlava makua, mwani, swahili (lingue locali) e
portoghese. Conosciuto come commerciante, aveva iniziato con la vendita di beni di prima necessità e poi con pezzi di ricambio per moto che acquistava in Tanzania.
Proprio in Tanzania era entrato in contatto con alcuni sceicchi che seguono l’islam radicale. Si era radicalizzato a Macomia, una delle cittadine di Cabo Delgado, centro di numerosi attacchi
jihadisti. Ha rinnegato l’islam del padre, che considerava infedele, e aderito al gruppo Ahlu Sunnah wa’Jamaà (seguaci della tradizione del profeta), di tendenza wahabita. Poi è passato,
al gruppo che viene chiamato localmente Al-Shabaab. Dopo l’attacco a Mocimboa da Praia era riuscito a fuggire nella provincia di Nampula. Le ultime notizie lo danno per morto – nella provincia
del Niassa – dopo essere stato catturato dalle autorità mozambicane.
I tre conoscono bene il territorio, ora si capisce meglio perché Mocimboa da Praia è il centro degli attacchi a Cabo Delgado.
By Africa Express
8 ottobre 2020
MALI: LIBERATI PADRE MACCALLI E NICOLA CHIACCHIO
Padre Pierluigi Maccalli della Società delle Missioni Africane (Sma), rapito in Niger la sera del 17 settembre 2018, al confine con il Burkina Faso e Nicola Chiacchio, un altro nostro
connazionale, un ciclista, sequestrato dai jihadisti nel Sahel, sono stati liberati in Mali.
Insieme a loro, come è stato preannunciato ieri, sono stati rimessi in libertà anche la cooperante francese, Sophie Pétronin, rapita a Goa alla viglia di Natale del 2016 e Soumaïla Cissé, leader
del maggiore partito all'opposizione dell’ex governo di Ibrahim Boubacar Keïta, rapito nel mese di marzo vicino a Timbuktu.
Gli ostaggi sono stati rilasciati dopo la scarcerazione di un gran numero di terroristi o presunti tali e delicate trattative tra jihadisti e mediatori.
By Africa Express
24 settembre 2020
BOTSWANA E ZIMBABWE: STRAGE DI ELEFANTI
Tossine di cianobatteri sono responsabili della moria di elefanti nel parco del Delta dell’Okavango in Botswana. Lo hanno fatto sapere le autorità durante una conferenza stampa tenutasi nella
capitale Gabarone pochi giorni fa.
Ma già a fine luglio i responsabili avevano lasciato intendere che i misteriosi decessi potrebbero essere dovuti a tossine naturali. La strana malattia aveva colpito tutti gli elefanti: maschi,
femmine, esemplari vecchi e di pochi mesi; il bracconaggio era stato escluso a priori, in quanto le carcasse dei pachidermi avevano ancora le zanne.
Cyril Taole, vice direttore del Dipartimento della fauna e dei parchi nazionali del Botswana ha detto che le carcasse ritrovate sono aumentate. “A tutt’oggi sono ben 330, e, quel che sappiamo
finora, è che la strage di elefanti è stata causata da tossine prodotte da cianobatteri, ma il tipo di microrganismo non è stato ancora determinato”.
La presenza dei cianobatteri, detti anche impropriamente detti “alghe blu-verdi”, è favorita, nelle acque stagnanti e sulla terra ferma, dall'aumento delle temperature a livello mondiale. Taole
ha detto che le indagini sono ancora in corso e un controllo sulle pozze d’acqua è già stato programmato.
Mmadi Reuben, veterinario capo dello stesso Dipartimento e presente alla conferenza stampa, ha confermato che dagli ultimi test effettuati sulle carcasse sono state effettivamente trovate tossine
da cianobatteri. “Eppure – ha aggiunto Reuben – molte domande restano ancora aperte: il 70 per cento degli elefanti morti sono stati trovati nelle vicinanze di pozze d’acqua
contenenti alghe, ma perché sono morti solo questi pachidermi e non altri animali?”
Il veterinario ha precisato che campioni d’acqua sono stati inviati in diversi laboratori (Botswana, Sudafrica e USA).
Recentemente sono state trovati anche una ventina di elefanti morti nel vicino Zimbabwe, anche in questo caso le autorità hanno escluso il bracconaggio e l’avvelenamento doloso. “Pensiamo che
possa trattarsi di cianobatteri, ma finora non abbiamo conferme, siamo in attesa dei risultati inviati in un laboratorio in Gran Bretagna”, ha detto Chris Foggin, responsabile veterinario di
Victoria Falls Wildlife Trust.
Nel 1990 la presenza dei pachidermi nel Paese era nettamente inferiore. Allora se ne contavano solamente poco più di 90.000 esemplari. Il presidente del Botswana, Mokgweetsi Masisi, in carica dal
1° aprile 2018, ha riaperto la caccia agli elefanti che 5 anni prima era stata vietata dal suo predecessore Ian Khama. Masisi è convinto che la proliferazione incontrollata dei giganti
dell’Africa minacci i mezzi di sostentamento, cioè i raccolti agricoli, della popolazione in alcune zone rurali.
Nel 1965 una parte del territorio del Delta dell’Okavango stato dichiarato riserva naturale, col nome di Riserva faunistica Moremi (circa 3.000 chilometri quadrati), gestita dalla Fauna
Conservation Society di Ngamiland.
By Africa Express
21 settembre 2020
NIGERIA: VIETATO IL MATRIMONIO PER I DISCENDENTI DEGLI SCHIAVI
Due fidanzati si sono suicidati un paio di settimana fa in Nigeria perché i genitori avevano posto il veto sul matrimonio, in quanto uno di loro era discendente di schiavi.
Il dramma si è consumato a Okija, Anambra state, nel sud-est della ex colonia britannica.
Nel 1900 la Gran Bretagna aveva abolito la schiavitù in tutto il Paese, eppure presso l’etnia igbo i pronipoti degli ex schiavi portano ancora “il marchio” dei loro avi e la
cultura locale vieta loro di sposarsi con coloro nati liberi.
Gli Igbo costituiscono un importante gruppo etnico africano. In Nigeria rappresentano circa il 17 per cento della popolazione e sono presenti soprattutto negli stati Anambra, Abia, Imo, Ebonyi,
Enugu, Delta, Rivers. Questa etnia ha praticato la schiavitù ben prima della colonizzazione; la richiesta di schiavi è comunque aumentata nel sedicesimo secolo con la tratta atlantica e la
società degli igbo era divisa in tre categorie di persone: diala, ohu e osu.
I diala erano i cosiddetti “nati liberi“ e godevano di tutti privilegi, erano considerati “veri esseri umani“.
Gli ohu, erano prigionieri, catturati in altre zone, oppure erano persone ridotte in schiavitù perchè nell’impossibilità di onorare debiti o come punizione per crimini commessi. I
diala li tenevano in casa come servi, oppure li vendevano a mercanti bianchi, occasionalmente erano le vittime di omicidi rituali durante cerimonie religiose oppure venivano sotterrati
vivi insieme al padrone durante l’onoranza funebre.
Gli osu, invece, erano proprietà di divinità tradizionali. Se un diala implorava una grazia, come la nascita di un figlio maschio o protezione da un’epidemia, l’auspicio di un
buon raccolto, offriva uno schiavo o un membro della famiglia a un dio. Anche un criminale, per scappare da una pesante condanna, poteva rifugiarsi in uno di questi luoghi di culto e offrire se
stesso a una divinità, diventando così un osu. Questa casta era costretta a vivere in disparte e a occuparsi della manutenzione del santuario. I contatti con le comunità vicine erano
rare, erano condannati a essere un tabù per l’eternità e così i loro figli.
I discendenti degli ohu e osu spesso non possono nemmeno aprire bocca ancora oggi durante assemblee comunitarie, tanto meno sposarsi con un diala. A poco è servita
l’entrata in vigore di una legge nel lontano 1956, volta a abolire le caste. E Anthony Obinna, arcivescovo cattolico di Owerri, capoluogo dell’Imo state, che combatte da anni questo sistema, ha
precisato: “Normative e leggi non sono sufficienti per abolire consuetudini primordiali”.
Il sistema delle caste è ancora presente in tutto il sud-est del Paese, specie nei piccoli centri, dove le discendenze dei componenti delle comunità locali vengono tramandate di padre in figlio.
Molti pronipoti di ex schiavi hanno studiato e, a volte con fatica, hanno conquistato posizioni di rilievo anche nell'apparato statale o all'estero, hanno raggiunto stabilità e benessere
economico, eppure nel loro villaggio di origine sono rimasti osu o ohu.
Si stima che oggi un 10 – 20 per cento degli igbo (alcuni milioni di nigeriani) subiscano ancora discriminazioni riconducibili al passato dei loro avi. Oge Maduagwu, fondatrice della ONG
Ifetacsious (acronimo inglese per Initiative for the Eradication of Traditional and Cultural Stigmatisation in our Society) e attivista in prima linea per sradicare le ingiustizie ancestrali, ha
viaggiato per diversi anni nel Igboland, cercando di spiegare e convincere i membri delle comunità locali di estendere gli stessi diritti a tutta la popolazione.
Oggi i pronipoti degli schiavi chiedono con insistenza la parità dei diritti nel loro Paese. E la Madagwu ha sottolineato a questo proposito: “Le sofferenze e le discriminazioni degli
afroamericani sono le stesse che subiscono i discendenti degli schiavi in una parte della Nigeria. Se non si capisce questo, è inutile che i diala alzino la voce contro gli statunitensi bianchi,
unendosi al coro di “Black Lives Matter”.
By Africa Express
17 settembre 2020
MOZAMBICO: TRAGICA FINE DI UNA DONNA BASTONATA E POI AMMAZZATA
Prima bastonata e poi ammazzata a colpi di Kalashnikov dalle Forze Armate Mozambicane (FADM). È la tragica fine di una donna, anonima, incrociata da uomini in uniforme sulla strada R698 a Cabo
Delgado, provincia settentrionale del Mozambico.
Due minuti di video che fanno inorridire!
Il video testimonia la terribile morte in diretta della povera donna. Meno di due minuti – brutali – che fanno inorridire. Esempio di una violenza gratuita e una ferocia inimmaginabile e
inaccettabile. È la fotografia di ciò che sta succedendo a Cabo Delgado.
Alcuni uomini i uniforme e mitra vedono la donna nuda. È sola. Le urlano contro e uno di loro le impone di fermarsi. Lei ha paura – chi non l’avrebbe? – è confusa. Allunga il passo lungo il bordo
di una strada. Probabilmente è in fuga dagli scontri tra jihadisti e Forze armate mozambicane. Uno dei militari con uno zaino rosso e un bastone corre verso di lei e la raggiunge dandole una
bastonata.
La donna cerca disperatamente di proteggersi con le braccia ma arrivano altri colpi sul viso, sulla testa, sulla pancia, dappertutto. Lei si sposta dal selciato per allontanarsi dal “branco” ma
il militare continua a bastonarla mentre altri uomini si avvicinano urlandole contro. Se ne contano quattro e un quinto filma. Uno dice: “È una di al-Shabaab”, riferendosi ai jihadisti
che infuriano a Cabo Delgado.
Poi uno sparo a distanza ravvicinata di Kalashnikov. Gli altri, come esaltati da chi ha sparato per primo, lo imitano. La vittima cade senza vita sul selciato. Scaricando i mitra Kalashnikov
MK-47 e MPK sul suo povero corpo esanime. Per 36 volte. Uno dei militari urla: “È una puttana”. Si sente dire: “Basta”, ma gli spari continuano. Un altro dice: “Fatto.
Abbiamo ammazzato una di al-Shabaab”. E mentre tornano indietro il filmato mostra almeno una dozzina di militari. Uno di questi, in primo piano, fa la “V” di “vittoria” con le dita. Come se
si possa chiamare così un vile atto di questo genere.
Il video sta circolando sui social mozambicani destando orrore, disgusto, rabbia, turbamento, tra l’opinione pubblica e la società civile. Il Ministero della Difesa mozambicano ha definito
“orribili” le immagini del filmato e ha smentito che possano essere militari delle Forze armate.
Le indagini di Amnesty confermano: Sono militari FADM
Secondo l’inchiesta i soldati indossavano l’uniforme delle FADM. La relazione dell’ ONG conferma che un militare ha la caratteristica mostrina gialla e nera sulla spalla, come si vede
nell'immagine di Amnesty. Inoltre, la maggior parte dei soldati indossa l’uniforme completa, escluso l’artigliere con il PKM con la maglietta rossa al posto di quella mimetica standard.
I soldati parlano tutti portoghese, lingua ufficiale del Mozambico e quindi delle sue Forze armate. Grazie all'analisi del filmato, Amnesty ha individuato anche il luogo dell’esecuzione della
donna: Awassa, Cabo Delgado Poco distante da Mocimboa da Praia, luogo eletto dell’occupazione jihadista. E ne mostra anche una mappa satellitare.
Il video è apparso per la prima volta sui social media il 14 settembre. Ma secondo fonti di Amnesty International, “è stato condiviso dagli smartphone il 7 settembre, il giorno in cui è stato
probabilmente girato”. Data che coincide con l’operazione militare del governo per “ripulire” le aree di Awasse e Diaca dai jihadisti. Quindi conferma la presenza dei militari FADM sul posto in
quel momento.
La settimana scorsa Amnesty aveva pubblicato un rapporto sulla situazione nella provincia di Cabo Delgado, negato dal governo di Maputo. Nella relazione ha denunciato il tentativo di
decapitazione, tortura e altri maltrattamenti di prigionieri e lo smembramento di presunti combattenti dell’opposizione. Ma anche maltrattamenti alla popolazione che spesso viene considerata
fiancheggiatrice dei jihadisti.
La violenza jihadista di al Sunna wa-Jama – chiamati dalla popolazione al-Shabaab – è iniziata nell'ottobre 2017. Secondo ACLED i jihadisti hanno ucciso oltre 1.300 persone e causato tra 250 mila
e 368 mila sfollati. A Cabo Delgado ormai si tratta di guerra. Una guerra che le Forze armate mozambicane non riescono a fermare nemmeno con l’appoggio aereo dei mercenari del Dyck Advisory
Group.
Intanto, il giovane militare che fa la “V”di “vittoria” con la mano dopo l’omicidio della donna è deceduto. Si chiamava Ramiro Moises Machatine ed è lui l’autore del video che ha messo sotto
accusa le Forze Armate e il Ministero della Difesa del Mozambico. I media mozambicani parlano di omicidio. Ne riparleremo.
By Africa Express
7 settembre 2020
I CRIMINI NEL CONGO BELGA NARRATI DA ARTHUR CONAN DOYLE
È un peccato abbia suscitato finora una scarsa attenzione la pubblicazione in Italia, dopo oltre cento anni dalla sua uscita in Inghilterra, avvenuta nel 1909, di un saggio scritto dal “padre” di
Sherlock Holmes, Sir Arthur Conan Doyle, intitolato senza molti giri di parole “The crime of Congo” (Arthur Conan Doyle, Il crimine del Congo, a cura di Giuseppe Motta, ed. Bordeaux
2020, pp. 165 euro 14).
I fatti che il saggio descrive con la precisione di una moderna inchiesta giornalistica ed uno stile inconfondibile meritano invece di essere oggetto di una più estesa riflessione, offerta dalla
densa prefazione dallo storico Giuseppe Motta. Si tratta di scoprire, più che riscoprire, uno dei casi più inquietanti di un “Olocausto” strisciante e dimenticato: soprattutto perché
“africano”, ma anche per sminuire le responsabilità di quel monarca europeo che, secondo Conan Doyle, è, senza mezzi termini, l’autore del crimine: Leopoldo II, re del Belgio.
Leggi:
"Olocausto africano"
"Colonialismo in Africa"
"Le stragi del colonialismo
in Africa"
"Lo sterminio dei Mau Mau"
Il Congo Belga
Forse pochi oggi ricordano che la Repubblica Democratica del Congo – il cosiddetto Congo “belga”, indipendente dal 1960, denominato Zaire per volere del dittatore Mobutu dal 1971 al 1997, con un
territorio estesissimo e ricco di materie prime – ha le sue strane radici fondative nelle concessioni che vennero fatte a favore di Leopoldo II del Belgio alla Conferenza di Berlino la quale, tra
il 1884 ed il 1885, fu organizzata da Bismarck per definire principi e regole spartitorie del colonialismo europeo di fine Ottocento sul continente africano.
Mentre i pionieri dell’esplorazione dell’Africa (il "paraculo" Henry Morton Stanley *** in primo luogo) tracciavano il solco
di territori interni carichi di ricchezze naturali da raccogliere con alle spalle mecenati interessati nei Governi degli Stati che preparavano le rispettive zone di influenza, Leopoldo II del
Belgio (il più attivo tra essi nel finanziare le missioni di Stanley), si pose alla ribalta della conferenza, propugnando quella che sembrava una posizione originale e per i tempi assai
“liberale”: fare dei territori interni a cavallo del fiume Congo, nel suo ampio tratto navigabile risalendo dall'Atlantico fino all'odierna Kisangani, la Stanleyville di allora, un “possedimento”
fiduciario della corona, che garantisse però la libertà del commercio e nella quale l’apparato amministrativo avesse come obiettivo primario quello di soddisfare le istanze di civilizzazione e
progresso dei popoli africani.
Questo spot di un Re filantropo e di un nascente mercato “buono” era avvalorato dalle origini “commerciali” e non militari della presenza belga in Africa se si pensa che Stanley su incarico del
sovrano aveva percorso il fiume e stipulato oltre trecento “contratti” con capitribù locali per la costruzione di un sistema di stazioni lungo il fiume che facessero da collettori delle ricchezze
della foresta.
________________________________
*** Henry Morton Stanley, in realtà il suo vero nome era John Rowlands. Sua
madre lo abbandonò all'età di sei anni e non rivelò mai al figlio chi fosse suo padre, che forse poteva essere John Rowlands, un beone ben conosciuto a Denbigh nel Galles nord-orientale.
John finì in una casa di correzione dove si "commetteva ogni sorta di abuso", diretta da un alcolizzato "che si prendeva tutte le libertà sugli occupanti". I bambini dividevano i letti con gli
adulti che davano sfogo alle loro pulsioni con i più piccoli. John Rowlands venne perseguitato tutta la vita dalla fobia per la sessualità e la vicinanza corporale.
Celebre è la frase da "ebetoide" che gli viene attribuita al momento dell'incontro con Livingstone il 10 novembre 1871, a Ujiji, vicino al lago Tanganica, in quella che oggi è la Tanzania,
"Dr. Livingstone, I presume?" ("Dottor Livingstone, suppongo"). Non fu detta infatti in modo ironico o per creare un effetto di comicità, bensì l'atteggiamento inespressivo del volto e
lo sguardo attonito di John rivelano nel soggetto la deficienza mentale!
Va detto che ancor oggi ben pochi fanno cenno alle nefandezze compiute in Congo da questo misantropo al soldo di Leopoldo II.
Un genocidio condiviso con Stanley (John Rowlands) quello commesso con inaudita crudeltà nello Stato Libero del Congo?
Sconcertante: Re Leopoldo II del Belgio non mise mai piede in Congo in vita propria. Il "rotto in culo" di Stanley sì!
Il petrolio congolese: il caucciù
Nasceva così, all'insegna di una smaccata ipocrisia giuridico-internazionale, lo “Stato libero del Congo”. Conan Doyle individua subito infatti in questa retorica patrocinata da Leopoldo II la
ragione più forte del suo successo e denuncia quello che in realtà, sotto la facciata, divenne un “domaine privée” in ogni senso del monarca. Leopoldo II ottenne infatti una delega in bianco per
realizzare il frazionamento del territorio attraverso gigantesche concessioni commerciali a società prevalentemente belghe volte a “prendere” dal Congo il petrolio dell’epoca: la gomma naturale,
quella che chiamammo in Italia il caucciù.
L’enorme richiesta di questa materia prima, con l’incipiente motorizzazione globale, vede competere dal 1890 in poi fameliche società commerciali a prevalenza belga che diventano di fatto la vera
amministrazione coloniale, con esonero di responsabilità giuridica per lo Stato belga, mentre i singoli organi del fantomatico Stato “libero” erano in realtà funzionari che rispondevano
direttamente al Re, il cui unico scopo sul posto era di imporre percentuali milionarie sui profitti del commercio.
Curiosamente – lo ricorda Marco Boccitto sul Manifesto del 12 luglio scorso – gli Stati Uniti, unici invitati non europei alla Conferenza di Berlino, furono i primi “ad aprire ufficialmente alla
bizzarria dello Stato libero del Congo”, illusi o attratti da quell'idea del libero commercio antesignana della moderna globalizzazione, nonostante le riserve di altri Stati europei dal piglio
coloniale attentamente statuale come l’Inghilterra.
Colonialismo predatorio
Certo, gli inglesi, superpotenza mondiale di quegli anni, non avevano forse le carte in regola per impartire lezioni di politica coloniale ad altri, ma Sir Arthur Conan Doyle mette in conto
queste critiche, le affronta esplicitamente una per una, smontando quello che proprio lo indigna di più: “L’odioso pretesto di filantropia” posto a copertura di un colonialismo predatorio con
pochi eguali.
Il saggio è un campionario angosciante di resoconti (diplomatici, missionari, viaggiatori) con fonti quindi variegate ed indipendenti che compongono il quadro stringente di una trama che l’autore
di tanti gialli sta attento a separare dalle proprie caustiche opinioni. Il lettore ne resta inorridito.
Giuridicamente le uniche terre che restavano alle popolazioni locali erano quelle attigue ai villaggi, la foresta con gli alberi della gomma era territorio “vacante”, riserva delle compagnie, il
lavoro forzato è imposto collettivamente e non è chiamato schiavitù perché presentato all'esterno come una “tassa” sulla civilizzazione ed ogni tanto compensato da una caraffa di sale.
Politica del terrore: massacri e mani mozzate
Ma non vi è alcun contratto di lavoro. Se non viene portata abbastanza gomma tutti gli abitanti del villaggio per una sistematica politica di terrore vengono massacrati e i vigilanti devono
portare alla base, in mancanza di ceste sufficienti, le mani mozzate dai cadaveri, affumicate perché si conservino meglio.
Un’altra forma di punizione per chi non riusciva a portare le quantità volute di caucciù era la distruzione dei raccolti o addirittura dei villaggi. E portare la preziosa resina nelle quantità
volute diventava sempre più difficile, perché le piante adatte, visto lo sfruttamento intensivo, si trovavano sempre più lontano dal fiume e molti villaggi non riuscivano a onorare le richieste.
Ai lavoratori vicini ai centri di smistamento sul fiume, il lavoro forzato e l’obbedienza sono imposte con punizioni corporali spaventose, frustate con un nerbo di pelle di ippopotamo (la
chicotte) simile negli effetti al flagellum romano.
Come in un racconto di Hemingway, nulla dell’inchiesta di Conan Doyle è lasciato alla suggestione emotiva e tutto pesa sulla nuda forza dei fatti. Come quando lo scrittore segnala i ricavi
astronomici delle società coloniali del Belgio legate a Leopoldo II e, come sottolinea Motta nella sua introduzione, la stretta relazione che era venuta a crearsi tra la produzione e il numero di
cartucce utilizzate, testimoniata da varie corrispondenze tra l’Europa e le società del posto.
Gli italiani non ci stanno
Come la storia spesso ci mostra, anche allora non mancarono i giusti, i testimoni che non accettarono il ruolo di “utili idioti” del presunto progresso di Leopoldo II. E se molte sono le
citazioni di diplomatici e viaggiatori britannici, ve ne è una che ci riguarda da vicino e ci sorprende. Ed è la scelta dell’Italia, che pure aveva inviato in Congo alcuni ufficiali in appoggio
alla “missione” di Re Leopoldo, accarezzando l’idea di creare un avamposto commerciale e che riceve da un suo ufficiale notizie raggelanti sulla realtà dello sfruttamento dei popoli indigeni.
Annota Conan Doyle che dinanzi al Parlamento italiano il 4 febbraio 1907 l’avvocato Augusto Santini si rallegrava che l’Italia non avesse messo i suoi soldati “…agli ordini di una associazione di
schiavisti e barbari”.
Ma per l’Italia e per gli "Italiani, brava gente!" (sic!), "primi ed unici" ad usare armi chimiche in Africa, leggi: "Un triste primato tutto
italiano", la guerra d’Etiopia fu la vergognosa guerra del gas, la guerra del colonialismo più becero e dei crimini più efferati.
Un passato che chiama pesantemente in causa l’Italia. Altro che “italiani brava gente”.
Ci son voluti anni di ricerche storiche per dimostrare i crimini di guerra e contro l’umanità che le truppe italiane commisero in Libia, Etiopia, Eritrea… Somalia. Atrocità e torture
impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e torturate, teste mozzate portate in giro come trofei, torture anche su bambini
e vecchi. Racconti documentati di massacri di massa, di uso sistematico dei gas (la strage di Zeret) contro la popolazione civile, di lager che nulla
avevano da “invidiare” a quelli nazisti. Il colonialismo italiano è stato brutale, selvaggio, e dietro di sé ha lasciato solo rovine e una memoria che il tempo, non solo in
Libia, non ha cancellato.
L’Italia ha tutto distrutto e nulla realizzato. A differenza di Francia e Gran Bretagna, che nei domini coloniali hanno formato una classe dirigente autoctona, l’Italia neanche
questo ha fatto, impedendo anche l’istruzione, percepita come una minaccia.
L’Italia non è stata la sola a praticare il terrorismo di Stato in Africa. Vi sono pagine di vergogna, impastata di sangue, scritte da regni e democrazie europei che hanno depredato Paesi interi,
massacrato popolazioni indigene, depredato le ricchezze naturali, sfruttato a livello di schiavitù anche i bambini.
È la storia, come si sta dicendo, del colonialismo belga nel Congo, di quello portoghese in Mozambico e Angola e poi della Francia, della Gran Bretagna, della Germania. Queste ferite sono ancora
aperte perché hanno significato la morte di decine di milioni di persone, la negazione dei più elementari diritti umani, la schiavitù sessuale, le fosse comuni. Crimini che oggi la “civile”
Europa non vuol riconoscere o imputa ad altri.
Senza memoria, non c’è futuro. E coltivare la memoria di un colonialismo “terrorista” significa non solo mantenere viva una verità storica, ma anche ragionare su scelte del presente rivelatesi
scellerate. L’Italia sembra aver rimosso non solo il passato con tutta la brutalità che l’ha caratterizzato, ma anche le politiche del presente rivelano un atteggiamento complice che l’Italia
condivide con l’Europa.
Ambiguità della Chiesa
Addolora poi, e su esso si sofferma brevemente Conan Doyle, anche il silenzio “istituzionale” della Chiesa cattolica, pur impegnata con tanti missionari ad arginare sul campo, dove possibile,
atrocità e soprusi, ma incapace di alzare la sua voce sugli affari di re e governi. Non è una novità, avverrà anche per il fascismo ed il nazismo. Furono soprattutto i missionari protestanti i
più attivi a denunciare le atrocità commesse, ma senza successo, anche perché invisi al cattolicesimo belga e rappresentati quali interessati “competitors”. Ma non sono mancate alcune fulgide
eccezioni all'interno della Chiesa, segnalate dall'autore, come l’opera di denuncia “La question congolaise” del padre gesuita Vermeersch, pubblicata con grande clamore a Bruxelles nel
1906.
Lo scopo dello scrittore inglese era eminentemente pratico, come dichiara espressamente. Conclude il libro con un appello a sostenere la campagna di opinione e denuncia. E non senza risultati. La
Congo Reform Association (della quale fecero parte anche Mark Twain e Joseph Conrad che aveva scritto nel 1899 dopo un viaggio sul fiume Congo il celebre “Cuore di Tenebra”) riuscì a
creare un movimento di opinione “globale” di tale forza, ricorda Motta, da costringere Leopoldo II ad istituire nel 1906 una commissione d’inchiesta la quale, per quanto “addomesticata” con
funzionari di fiducia del Re, non poté esimersi dal confermare diversi episodi di atrocità.
Villaggi visitati negli anni precedenti e densamente popolati vengono trovati ridotti a poche ombre macilente di esseri umani impauriti dal solo apparire di un uomo bianco. Si affretta così la
nazionalizzazione da parte del Belgio nel 1908 di questa ibrida entità coloniale, mezzo pubblica e mezzo privata, gabbia giuridica di due decenni di orrore. Ovviamente poco cambiò almeno
inizialmente, ma si avviò un processo che pose termine a quel diffuso indiscriminato strumento di terrore alla base del lavoro forzato.
Il giudizio finale del saggio («il più grande crimine di tutta la storia, ancora più grave per essere stato commesso sotto un odioso pretesto di filantropia), leggendo il libro, non appare
esagerato.
Una missionaria e fotografa inglese dell’epoca, Alice Seeley Harris, ci ha lasciato con numerose fotografie una testimonianza vivida di quello che avvenne, più forte di qualunque racconto. Una di
esse del 1904 ritrae un uomo seduto all'ingresso della missione che fissa vicino due oggetti messi uno accanto all'altro su una stuoia: facendo attenzione, appaiono essere il piede e la mano di
un bambino, tagliati. L’uomo nell'immagine, Nsala era arrivato alla missione della Harris portando un involto con i resti di sua figlia, una bambina di cinque anni. Era stata uccisa e smembrata
come punizione, poiché il suo villaggio non era stato in grado di produrre la quantità di gomma richiesta dalle società di re Leopoldo.
Nell'inviare al presidente del Congo-K i suoi saluti per le celebrazioni dei sessant'anni dell’indipendenza, nel giugno scorso, re Filippo del Belgio, ha espresso per la prima volta “rammarico”
per gli “atti di violenza e crudeltà” e le “sofferenze” inflitte al Congo, definendoli come atti che “pesano ancora sulla nostra memoria collettiva”. Meglio tardi che mai.
Il discendente di Leopoldo II ha posto le premesse per rendere a quella bambina ed a milioni di persone un minimo di postuma giustizia, quella che il Congo di oggi, gigante in ginocchio, continua
ad attendere. Purché non resti anche questa retorica.
By Africa Express
Commenti By Kenya Vacanze
25 giugno 2020
TANZANIA. MINATORE ESTRAE 15 KG DI TANZANITE
Sono le due pietre di tanzanite più grandi di sempre. Le ha trovate un papà di 30 figli nel Nord del Paese africano, unico luogo al mondo dove si trova questo prezioso
minerale.
Saniniu Kurian Laizer ha realizzato il sogno di centinaia di migliaia di africani che quotidianamente rischiano la propria vita. Ha trovato l'oro. Meglio, ha estratto le pietre
di tanzanite più grandi che si siano mai viste e le ha vendute al suo governo per la considerevole cifra di 3,4 milioni di dollari, battendo in un solo colpo i giganti delle multinazionali del
settore minerario come Anglo Gold Ashanti e Barrick Gold, da sempre operativi in Tanzania.
La tanzanite, dal colore blu intenso, ma non solo, è un prezioso minerale che si trova solo nel Nord del Paese dell'Africa orientale. La sua rarità ne fa una delle gemme più care del mondo.
Geologi africani sono dell'avviso che nell'arco di 20 anni non ce ne saranno più.
Laizer è un piccolo minatore artigianale che fa parte della comunità masai di Lake Manyara, distretto di Simanjiro. Ha 52 anni, 4 mogli, 30 figli e duemila mucche. "Oggi si festeggia.
Ucciderò una mucca", ha detto alla Bbc. E se un masai uccide una mucca è davvero un'occasione molto speciale.
Le due pietre pesano 9,2 e 5,8 chili. Finora la più grande mai trovata pesava 3,3 chili, scrive la Bbc. L'evento eccezionale è stato molto bene accolto dal presidente populista, il "bulldozer"
John Magufuli che governa il Paese da 5 anni con il pugno di ferro, soprattutto per tutto ciò che ha a che fare col settore minerario che è in mano alle multinazionali. Da quando è stato eletto
ha sempre promesso di salvaguardare gli interessi della nazione e aumentarne le entrate: "Siamo circondati dalla ricchezza, dobbiamo proteggerla, non è possibile che gli stranieri vengano e
ne beneficino truffandoci". E infatti ha cambiato la legislazione aumentando le royalties dal 4 al 6%. Oro, diamanti, tanzanite e uranio, di questo è ricca la Tanzania.
Il fortunato minatore ha intenzione di reinvestire questi soldi nella sua comunità: "Voglio costruire un centro commerciale e una scuola - ha detto alla Bbc - C'è tanta gente povera
qui intorno che non si può permettere di portare i figli a scuola. Io non ho studiato ma voglio fare le cose in modo professionale. La stessa cosa la desidero per i miei figli".
Il governo di Dodoma (la capitale amministrativa) rilascia licenze esplorative anche a minatori artigianali per arginare l’estrazione illegale.
Nel 2017 il presidente John Magufuli ha fatto costruire un muro lungo 24 chilometri volto a proteggere il sito minerario di Merelani, ai piedi dell’omonimo monte, nella regione del Manyara,
l’unico luogo al mondo dove si trova la tanzanite.
Il minerale è stato scoperto nel 1967 nel nord Tanzania ai piedi dei monti Merelani nei pressi della città di Arusha. La tanzanite è una gemma rara, apprezzata grazie alle sue caratteristiche
cristalline ed al pleocroismo (il colore che va dal blu al viola cambiando a seconda dell’orientamento della luce e che viene appunto definito blu-viola). Il suo nome è stato coniato dalla famosa
gioielleria Tiffany con sede a New York in onore dello Stato in cui la gemma è stata scoperta.
22 maggio 2020
MOZAMBICO. UCCISI 50 JIADISTI
La conferma dell’uccisione di decine di jihadisti è stata data dal ministro dell’Interno mozambicano, Amade Miquidade.
“Le Forze di difesa e sicurezza (FDS) hanno ucciso 50 terroristi in due azioni militari. L’obiettivo di questi gruppi è rendere impossibile la vita dei mozambicani, attraverso il terrore e la
paura. Il terrorismo impedisce di costruire una nazione prospera sulla base delle ricche risorse che abbondano in quella parte del paese” – ha dichiarato il ministro.
Le azioni militari delle Forze armate mozambicane sono avvenute tra il 13 e il 14 maggio. La prima, nel distretto di Mocimboa da Praia, l’area maggiormente colpita dai jihadisti 170 km a sud di
Palma, dove operano ENI, ExxonMobil e Total. I militari mozambicani hanno sorpreso in gruppo di terroristi con tre auto, tre moto e un camion cisterna. Nello scontro sono morti 42 ribelli.
Il secondo scontro tra FDS e jihadisti è avvenuto nel distretto di Quissanga, un centinaio di km a nord di Pemba, capoluogo della provincia. Il gruppo di terroristi si stava dirigendo nuovamente
nel distretto di Quissanga per invadere la cittadina. Nello scontro a fuoco sono morti otto jihadisti e altri sono rimasti feriti.
Il 23 marzo scorso un gruppo di terroristi islamisti, dopo aver invaso Quissanga, aveva issato la bandiera dello Stato islamico nella stazione di polizia locale e facendosi fotografare (vedi
articolo del 24 aprile 2020).
Solo nel mese di maggio, fra il 3 e il 13, le autorità mozambicane hanno registrato la distruzione di 11 villaggi da parte dei gruppi armati. Sono state rapite 16 persone e 14 sono disperse; è
stato distrutto un ospedale di nuova costruzione e vandalizzate le linee di telefonia mobile. Il terrorismo a Cabo Delgado, dal 2017 ad oggi ha causato 550 morti, oltre 160 mila profughi e
un’epidemia di colera con almeno 20 morti.
Queste le informazioni ufficiali diramate dal governo mozambicano, impossibili da verificare dai media sul campo. Infatti, dall'ottobre 2017, quando sono iniziate le azioni jihadiste a Cabo
Delgado, l’area pare essere off-limits per i giornalisti.
Amade Abubacar, giornalista di Radio e Televisao Comunitaria Nacedje de Macomia è stato arrestato nel gennaio 2019. Abubacar, che è anche attivista per i diritti umani, è stato fermato mentre
intervistava persone sfollate a causa degli attentati jihadisti contro i civili. Poi è stato incarcerato senza capi d’accusa per 90 giorni ed è in attesa del processo.
Lo scorso 7 aprile è sparito un altro giornalista: Ibraimo Abú Mbaruco che lavora per la Stazione Radio Comunitaria di Palma. Human Rights Watch e Amnesty International hanno denunciato che,
prima di essere dichiarato scomparso, via SMS diceva che vicino a casa sua c’erano dei militari. Un messaggio che fa pensare a una scomparsa forzata.
E mentre a Cabo Delgado spariscono giornalisti, oltre al terrorismo jihadista, si fanno i conti anche con il Coronavirus. Il tutta l’ex colonia portoghese al momento in cui scriviamo, delle dieci
le province, quelle contagiate sono quattro Cabo Delgado, Inhambane, Sofala e Maputo. La provincia dell’estremo nord del Mozambico è la più colpita dal virus: su 146 contagi, 85 provengono da
Cabo Delgado. Il maggior focolaio dell’infezione pare essere la penisola di Afungi, a Palma, sede della multinazionale petrolifera Total. Qui è stato diagnosticato il contagio da Covid-19 al 79°
lavoratore di Total.
By Africa Express
29 aprile 2020
AFRICA. SENZA PRESERVATIVI A CAUSA DEL COVID-19
La mancanza di preservativi è l’ultima disgrazia che colpisce l’Africa. Un altro tsunami attacca il grande continente che segue all'invasione delle locuste e al contagio del Coronavirus. Una
situazione che potrebbe far sorridere se non fosse tragica. La mancanza del prezioso strumento di lattice significa – oltre alle gravidanze indesiderate – soprattutto un aumento dei casi di HIV e
delle malattie sessualmente trasmissibili.
Le aziende che producono profilattici sono ferme
Perché i preservativi sono spariti dal continente africano? Semplice. In questo mondo iperglobalizzato che ha permesso la diffusione esponenziale del Covid-19, le maggiori aziende che li
producono sono ferme. Soprattutto in Malesia il maggior produttore al mondo dell’anticoncezionale più usato nel pianeta.
Il governo malese, a causa della pandemia ha imposto la chiusura della Karex Bhd di proprietà di Goh Miah Kiat. I suoi tre stabilimenti, che fabbricano un quinto dei preservativi prodotti a
livello globale, lavorano a produzione ridotta. La più grande azienda di profilattici della Terra produce oltre tre miliardi di pezzi all'anno con il 75 per cento della produzione per conto
terzi.
Preoccupazione per i programmi umanitari
Kiat ha dichiarato all'agenzia Reuters che farà fatica a tenere il passo con la domanda a metà della sua capacità. Ha anche espresso la sua preoccupazione per i programmi umanitari in Africa.
Secondo la Karex, per diversi mesi nel Continente nero potrebbe esserci una carenza di quel prezioso strumento di protezione.
L’Africa importa anche preservativi cinesi, anche se si sono dimostrati di bassa qualità e addirittura troppo piccoli. In Zimbabwe, nel 2018, l’allora ministro della Salute aveva chiesto ai
cinesi di spedire profilattici più grandi perché non adatti alle misure zimbabwiane. Nel 2013 invece in Ghana sono stati sequestrati 110 milioni di preservativi perché erano bucati.
Nel 2018 morte di AIDS 240 mila persone
In tutto il continente africano, secondo dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS-WHO), ci sono 25,7 milioni di persone colpite da HIV. Un milione e 100 mila hanno contratto
l’infezione 2018 e, nello stesso anno, 470 mila persone sono morte a causa di malattie collegate all'AIDS.
C’è chi si arrangia
Intanto, vista la crisi, c’è chi si arrangia. Una di queste è una prostituta congolese della regione di Goma, ad est della Repubblica Democratica del Congo (Congo-K). Intervistata dal canale
Youtube, VPRO Metropolis si chiama Danielle e ha spiegato che preferisce usare sacchetti di plastica.
Anche perché non si fida del preservativo. D'altronde, dopo le fregature cinesi in Zimbabwe e Ghana, chi lo farebbe?
By Africa Express
29 aprile 2020
BENIN. IL CORONAVIRUS SI SCACCIA CON IL VODOO
Nel Benin, dove il vodoo è la religione di Stato, gli adepti sono convinti che la pandemia sia una vendetta degli dei, una punizione contro coloro che hanno voluto sfidare la
natura.
Nella culla del voodismo, questa visione si è diffusa più velocemente del Coronavirus stesso e per combatterlo ognuno deve compiere un rituale particolare.
L’essenza propria del vodoo è quella di adorare gli spiriti del mondo invisibile e di conciliare la loro potenza e la benevolenza. Il ruolo del culto è stabilire una relazione tra l’uomo e queste
forze occulte.
Lo storico e specialista del vodoo, Gabin Djimass, è convinto che quando si provoca la natura, talvolta questa reagisce in modo violento. Djimass ha spiegato: “Il coronavirus è una punizione
contro quelli che l’hanno distrutta o manipolata geneticamente, pensando solamente al profitto o alle proprie ambizioni. L’uomo è egoista, pensa solo a se stesso, mentre la natura gli dona
tutto”.
Finora il Paese è stato poco toccato dalla pandemia; infatti sono stati registrati solamente 64 contagi, 33 dei quali dichiarati guariti e un solo decesso su una popolazione di 11,5 milioni di
abitanti.
Patrice Tallon, presidente della ex colonia francese non ha imposto il lockdown, la popolazione è troppo povera per poter sopportare un tale peso. Il governo ha comunque messo in atto altre
raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), come l’obbligo di portare le mascherine, chiusura delle frontiere, limitazione negli spostamenti all'interno del territorio
nazionale e quant'altro.
Poco più di un anno fa le antiche famiglie reali di Abomey, ex capitale dell’antico regno di Dahomey, hanno nominato un nuovo re, Dada Sagbadjou Glèlè, dopo la morte del suo predecessore. I
monarchi di Dahomey sono tutti “grandi sacerdoti” del culto tradizionale vodoo. L’attuale sovrano Glèlè, e, secondo l’ordine genealogico è il solo capo della collettività ad essere un discendente
diretto (pare sia l’unico pronipote ancora vivente) del re Glèlè, padre di Béhanzin, grande figura della resistenza africana, che si era opposta all'imperialismo europeo. Ma oggi le cose
sono cambiate. La ex colonia francese è una Repubblica e gli antichi sovrani di Abomey sono stati “declassati” a leader religiosi.
Ma è ugualmente un ruolo da non sottovalutare, in quanto non solo tutti dignitari vodoo riconoscono l’autorità del sovrano di Abomey e sono suoi fedelissimi, ma anche i politici lo considerano
uno dei grandi elettori e alla vigilia di ogni tornata elettorale si recano alla sua corte.
Nel 1685 Abomey, fondata dalla popolazione fon, è diventata la capitale del Dahomey, era uno dei regni più importanti dell’Africa occidentale. Dal diciassettesimo fino al diciannovesimo secolo i
dodici re che si sono susseguiti fino al 1900, hanno fatto costruire palazzi, realizzati in materiale tradizionale, su una superficie di quarantasette ettari. Nel 1985 sono stati dichiarati
dall'UNESCO patrimonio dell’umanità. Anticamente la città era circondata anche da un muro costruito di fango.
Non bisogna dimenticare che i fon sono stati anche grandi commercianti di uomini; la ricchezza e il potere di Abomey era dovuta sopratutto alla tratta degli schiavi che praticavano in cambio di
armi. Infatti Dahomey sorge proprio sul luogo tristemente chiamato “Costa degli Schiavi”.
Nel 1892 la città è stata parzialmente distrutta da un terribile incendio, appiccato da Behanzin, l’ultimo sovrano del regno, prima di cedere la città ai francesi. Behanzin era stato incoronato
nel 1890, anno che coincide con l’espansione coloniale francese nel Dahomey. Per contrastare l’invasore, il re aveva formato un esercito di venticinquemila uomini e truppe speciali, composte da
cinquemila donne, le Amazzoni. Erano
intoccabili e vergini giurate. Si identificavano con il nome di “N’Nonmiton”, tradotto in italiano “nostre madri”. Erano armate di moschetto olandese e di machete e decapitavano velocemente le
loro vittime. Venivano reclutate ancora bambine, tra gli otto-nove anni. Se un francese tentava di avvicinare una delle amazzoni, il giorno dopo lo si trovava morto nel suo letto.
By Africa Express
24 aprile 2020
MOZAMBICO. JIHADISTI MASSACRANO 52 GIOVANI CHE RIFIUTANO DI ARRUOLARSI CON LORO
Una violenza jihadista senza limiti quella presente a Cabo Delgado, estremo settentrione del Mozambico, 2.700 km a nord della capitale, Maputo. Cinquantadue giovani ai quali era stato intimato di
arruolarsi nella guerriglia sono stati barbaramente assassinati.
Il peggior massacro da quando 30 mesi fa è iniziata la violenza jihadista a Cabo Delgado. È successo nel villaggio di Xitaxi, nel distretto di Muidumbe, lo scorso 8 aprile. La tragedia è stata
confermata dal portavoce della Polizia (PRM) Orlando Modumane, ma solo ora ci sono i dettagli della tragedia.
Modumane ha dichiarato all'agenzia portoghese LUSA che giovani hanno opposto resistenza provocando l’ira dei criminali. Come reazione al rifiuto, hanno sparato in modo indiscriminato e poi li
hanno decapitati. L’orribile fatto di sangue è avvenuto il giorno successivo a due attacchi, a poche ore di distanza, nei villaggi di Tinga e di Litingina, poco distante da Xitaxi.
Lo scorso 23 marzo, un gruppo di jihadisti, via mare, ha attaccato nuovamente Mocímboa da Praia e Quissanga impedendo alla popolazione di fuggire. Si sono poi fatti fotografare davanti alla
caserma occupata della polizia di Quissanga con la bandiera nera dello Stato islamico. Sull'attacco sta circolando un video, ripreso anche dall'emittente in lingua portoghese JP. Si vedono almeno
una quindicina di uomini in uniforme militare con il viso coperto dalla kefiah. Alcuni imbracciano kalashnikov (AK47) e uno di loro ha un lanciagranate (RPG), carico, in spalla. Altri filmano con
gli smartphone.
Secondo lo speaker dell’emittente i tagliagole hanno parlato di fronte alla popolazione in lingua locale. Hanno detto di essere in guerra contro l’esercito mozambicane e contro alcuni dirigenti
del Paese. Affermano che stanno difendendo l’islam, vogliono un governo islamico e non un governo di miscredenti.
Cinque attacchi in tre settimane – tre in due giorni – issando la bandiera dell’ISIS su edifici delle istituzioni, sono dimostrativi e simbolici. Azioni che intendono mostrare l’arroganza verso
il potere centrale di Maputo e il tentativo di fare di Cabo Delgado un’area controllata dal terrorismo islamista.
Il triangolo d’oro del contrabbando jihadista.
Gli jiadisti in questa zona si identificano come Ahlu Sunnah Wa-Jammá, ma chiamati al Shabaab dalla popolazione, hanno un giro d'affari da 30 milioni di dollari all'anno a causa del contrabbando
di rubini, avorio e legname pregiato.
Dal primo attacco jihadista dell’ottobre 2017, la situazione del prezioso triangolo Montepuez (rubini) - Niassa (avorio e legname) - Palma (giacimenti di gas) è peggiorata. A Cabo
Delgado i gruppi islamisti sembrano meglio organizzati e più aggressivi della polizia e dell'esercito che non riescono ad arginarli. Perfino i contractor russi hanno rinunciato dopo aver subito
perdite.
Intanto ExxonMobil ha deciso di tagliare del 30 per cento il budget del 2020 del progetto del gas naturale (LNG) al largo di Palma. Mentre, a febbraio scorso, ExxonMobil e Total oltre ai 500
presenti, hanno chiesto altri 300 militari a protezione del sito. Le due multinazionali petrolifere operano insieme a ENI nel mega impianto di Palma e hanno pianificato l’inizio della produzione
off-shore del Bacino del Rovuma per il 2022.
By Africa Express
9 aprile 2020
L’AFRICA IN GUERRA: IL COVID-19 E L’INVASIONE DI CAVALLETTE
Mentre il pianeta è nella morsa della pandemia da Covid-19, dopo Asia, Europa, Americhe e Australia, l’Africa sta iniziando ad affrontare il Coronavirus. Ma si trova in maggiore svantaggio
rispetto ai Paesi che stanno contrastando l’infezione o, come la Cina, ne sono quasi usciti.
In Africa ci sono 7.671 casi confermati di Coronavirus. Il Sudafrica è la nazione maggiormente colpita con 1.749 contagi e 13 decessi.
Non solo strutture sanitarie moderne inesistenti e metropoli sovrappopolate, mancanza di informazioni su come difendersi, carenza di acqua pulita e povertà estrema. Il grande Continente nero deve
lottare, ancora, contro gli eserciti di locuste del deserto. A febbraio erano oltre 100 miliardi le cavallette che stavano divorando l’Africa orientale e tra insetticidi e fine
del loro ciclo vitale, c’era speranza di una tregua.
Secondo dati dell’Organizzazione ONU per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), aggiornati al 4 aprile, c’è stato un peggioramento di una situazione già tragica. La causa sono state le piogge
abbondanti cadute a fine marzo sul Corno d’Africa. Hanno permesso la schiusa delle uova e l’abbondante nutrimento delle ninfe con vegetali freschi che ha fatto crescere rapidamente gli
ortotteri.
Tra poco un’altra generazione di cavallette sarà pronta per una nuova pesante fase aggressiva. Durante i prossimi mesi è previsto un drammatico aumento del numero delle locuste in Africa
orientale, Yemen orientale e Iran meridionale.
La FAO definisce la situazione nell'Africa orientale “estremamente allarmante”. Si stanno formando bande di cavallette e un numero crescente di nuovi sciami in Kenya, Etiopia
meridionale e Somalia. In questi tre Paesi ci sono almeno 12 milioni di persone a rischio fame. E altrettante, con problemi di sottonutrizione, in quelli confinanti toccati dalle fameliche
invasioni degli ortotteri nei mesi scorsi.
“Una minaccia senza precedenti per la sicurezza alimentare e i mezzi di sussistenza”, afferma la FAO. Coincide con l’inizio delle lunghe piogge e la stagione della
semina. Sebbene siano in corso operazioni di controllo a terra e aeree, permetteranno ai nuovi sciami di rimanere, maturare e deporre uova. Alcuni sciami potrebbero spostarsi dal Kenya
all'Uganda, al Sud Sudan e all'Etiopia.
Ma, purtroppo, il peggio deve ancora arrivare. “Nel mese di maggio, le uova si schiuderanno”, dice la FAO. Queste formeranno nuovi sciami a fine giugno e luglio, periodo
che coincide con l’inizio dei raccolti. E questi verranno divorati da miliardi di cavallette togliendo il cibo alle comunità umane.
By Africa Express
24 marzo 2020
GABON. CHIUSI PARCHI NAZIONALI PER PROTEGGERE GORILLA E SCIMPANZÉ DAL COVID-19
Il Covid-19 potrebbe contagiare le grandi scimmie dell’Africa equatoriale, come successo nel 1995 con il virus Ebola.
Il Covid-19 minaccia anche gorilla e scimpanzé quindi è meglio chiudere al turismo.
“I virus che attaccano il sistema respiratorio degli esseri umani sono facilmente trasmessi alle grandi scimmie a causa della vicinanza tra queste specie”. Queste le
parole di Christian Tchemambela, dell’Agenzia nazionale per i parchi nazionali del Paese (ANPN), rilasciate all’AFP.
Dichiarazioni che giustificano la chiusura, da parte del governo di Libreville, di tutti i parchi nazionali, areali di gorilla e scimpanzé, per proteggerli dal contagio da Coronavirus. Una misura
indispensabile per ridurre al minimo il rischio di contaminazione tra uomo e animale che nel 1995 ha quasi sterminato la popolazione di primati.
Il virus ebola 25 anni fa, in Gabon, fece un salto di specie passando dagli esseri umani alle grandi scimmie. La malattia ha decimato il 90 per cento la popolazione di gorilla, cosa che oggi il
Paese africano vuole evitare. Il turismo ecologico, che vede la protezione dei gorilla e scimpanzé e del loro habitat, è una voce strategica per l’economia dell’ex colonia francese. Secondo lo
Smithsonian Channel, il lavoro della zoologa Dian Fossey con i gorilla in Rwanda è stato preziosissimo. Ha dato il via a un’industria eco-sostenibile che vale 400 milioni di dollari USA
all'anno.
“Quasi l’80 per cento del Gabon è coperto da foreste. – ha affermato Tchemambela -. Negli ultimi anni abbiamo istituito programmi di alloggi per primati nei suoi parchi nazionali per
attirare il turismo. Le entrate che ne derivano vengono utilizzate per finanziare la protezione della fauna selvatica. A causa del nuovo coronavirus, gli esseri umani a contatto con i gorilla
rappresentano una minaccia”.
Il personale dei parchi, per evitare di contagiare le grandi scimmie, è stato messo in quarantena per due settimane. Stop quindi a safari e gite per ammirare i gorilla e gli scimpanzé.
Per il momento nel Paese dell’Africa equatoriale, secondo Statista, azienda privata di raccolta dati, al
21 marzo sono registrati quattro casi tra cui un decesso. Intanto è morto il paziente zero, un ventisettenne, diabetico con ipertensione, tornato dalla Francia. Riguardo alla diffusione del
Coronavirus il governo gabonese ha preso misure di contenimento con la chiusura delle scuole, locali pubblici e commerciali.
By Africa Express
I Gorilla di Montagna
23 marzo 2020
KENYA. MISURE PIÙ DRACONIANE PER COMBATTERE COVID-19
Il governo del Kenya ha annunciato ieri una serie di misure aggiuntive per combattere la pandemia di Coronavirus.
Le misure sono state decise dopo che sono state rilevate otto nuove infezioni, portando il numero totale di casi a 25. I nuovi casi sono portati da 5 kenioti e 3 stranieri, 2 dalla Francia e uno
dal Messico.
Fortunatamente, la maggior parte dei casi è stata rilevata all'ingresso nel Paese, un segnale che suggerisce che le misure di screening in atto sembrano funzionare, ma il livello di
consapevolezza della diffusione è ancora piuttosto basso. Ha fatto notizia il caso del governatore di Kilifi, Gideon Saburi (una contea tra Mombasa e Malindi) colpito dal virus mentre stava
tornando da un viaggio ufficiale da Berlino, che non si è preoccupato di osservare la quarantena obbligatoria che il governo aveva imposto da una settimana a tutti i passeggeri in arrivo.
Quel che è peggio è che lo stesso funzionario, una volta tornato in patria, ha partecipato a riunioni prima di dedicarsi allo screening medico, con l'effetto che la potenziale diffusione del
virus avrebbe potuto essere evitata.
Non è noto se la stessa situazione abbia interessato i due cittadini francesi in visita nel paese, ma al momento potrebbe denotare lo stesso livello di ignoranza sulla diffusione da parte dei
pazienti colpiti.
Resta che il governo sta ora prendendo decisioni per evitare il più possibile la trasmissione locale del virus.
Ulteriori misure di contenimento sono dal 20 marzo in vigore, limitando ad esempio la capacità dei matatu (il sistema di trasporto pubblico locale) fino a 8 passeggeri, invece della
capacità standard di 14, i bar, i chioschi ed i locali notturni sono chiusi dappertutto, mentre i ristoranti sono autorizzati a operare solo su consegne take-away, a patto che vengano rispettati
i più alti livelli d’igiene possibile, con disinfettanti, personale munito di guanti e mascherine e distanze rispettate. Gli uffici lavorano principalmente attraverso il lavoro a distanza ogni
volta che è possibile.
Tutte le principali istituzioni non governative osservano un lavoro da casa, la città di Nairobi si è trasformata in un ambiente molto silenzioso e alcuni dei principali generatori di reddito per
il Paese stanno lottando: il turismo e l'ospitalità hanno subito importanti cancellazioni ed è giusto dire che l'estate 2020 è condannata. Lo stesso vale per la principale fonte di reddito
agricolo, poiché i fiori, il caffè e il tè sono molto richiesti.
Il governo si piegherà verso un blocco totale? È improbabile che ciò accada, perché l'economia informale che fa funzionare il Paese non può essere fermata: il rischio di rimanere senza lavoro e
senza cibo sul tavolo per oltre il 30% della popolazione keniota è un rischio che il governo non può certamente correre.
L'ultima decisione in termini di contenimento è stata quella di vietare tutte le riunioni religiose: queste sono state le ultime a conformarsi alle misure imposte dal governo. La popolazione
keniota tende a mettere sullo stesso piano qualunque sia la voce del suo Dio, attraverso i suoi ministri, con ciò che il governo chiede. Pertanto, durante questo fine settimana ci sono stati
interventi della polizia per disperdere le riunioni, definendo le congregazioni basate sulla fede l'anello più debole nella diffusione del virus.
A partire da mercoledì 25 marzo, tutti gli aeroporti saranno chiusi al traffico in entrata dall'estero, Kenya Airways ha già lasciato a terra la maggior parte dei suoi aeromobili e l'unico del
trasporto aereo, che sarà disponibile, sarà il trasporto Cargo.
Il ministro della Sanità, Mutahi Kagwe, sembra gestire al momento la situazione piuttosto bene: la sua comunicazione è diretta, le sue direttive sono sempre più osservate e la sua reputazione è
in aumento, per un uomo che solo due mesi fa era un politico messo in secondo piano. “I pazienti sono tutti in isolamento e vengono costantemente monitoriati dal nostro personale – ha
precisato Kagwe – la ricerca di tutte le persone con cui questi nuovi casi sarebbero venuti in contatto è già scattata”, ma c'è da dire che i test sono stati poco meno di 200 e nel Paese
non c'è ancora grande coscienza di quel che potrebbe accadere.
Sarà comunque una dura impresa bilanciare le disposizioni di un blocco parziale con una popolazione che si trova su una curva rischiosa, avendo sempre più difficoltà a portare il cibo in tavola
data la misera situazione economica del Kenya.
A Nairobi la polizia ha dovuto sparare per disperdere decine di keniani in due popolosi quartieri della città che si assembravano nelle zone pubbliche e dei mercatini, incuranti del decreto.
Alcuni bar sono stati fatti chiudere ed i gestori arrestati.
Anche a Kisumu ci sono stati scontri tra polizia e ambulanti, mentre in altre zone del Kenya il rispetto delle regole è stato in buona parte recepito.
Nella Contea di Kilifi, dove molti connazionali attendono il volo commerciale di rimpatrio che l’Ambasciata d’Italia in Kenya sta organizzando, tutti i bar e i ristoranti italiani hanno chiuso i
battenti e in giornata la polizia locale ha verificato che anche tutti gli altri locali pubblici non offrissero servizi ai tavoli. Sono state comminate multe e i proprietari dovranno rispondere
personalmente dell’avere infranto la legge. Le contravvenzioni vanno dai KShs 30.000 in su, ma in caso di situazioni definite pericolose (assembramenti, non rispetto delle distanze) c’è la
prigione con pene fino a 3 anni. Il Presidente Kenyatta in un comunicato ha chiesto alla Nazione di seguire le direttive per evitare un disastro umanitario e che, se sarà il caso, inasprirà le
pene e userà la forza.
Sempre nella Contea di Kilifi, in mancanza di un decreto del Governo, che ha invece regolamentato i matatu e gli autobus, il Governo della Contea ha deciso con effetto immediato di
fermare tutti i boda boda operators, ovvero i moto-taxi che sono di fatto il mezzo di trasporto più usato dai propri cittadini. Sono infatti 150 mila le motociclette utilizzate, anche
sporadicamente, per i trasporti di persone in tutta la Contea. Sarà la polizia, attraverso posti di blocco istituiti lungo le strade più trafficate da Mwtapa a Gongoni, passando per il capoluogo,
Malindi e Watamu ma anche nell'entroterra, a fermare chiunque stia trasportando persone.
22 marzo 2020
IL CORONAVIRUS SFONDA CON PREPOTENZA LE PORTE DEL CONTINENTE AFRICANO
Il coronavirus ha fatto il suo ingresso in 36 Paesi del continente africano e ha contagiato finora 1198 persone.
Sono davvero drammatiche le notizie che giungono dal Burkina Faso, tra le nazioni più povere dell’Africa, flagellata da continui attacchi dei terroristi. Ora deve combattere
anche contro il maledetto virus. Ieri sera il presidente Roch Marc Christian Kaboré ha decretato nuove misure per la messa in sicurezza del Paese: coprifuoco a partire da oggi e chiusura totale
di tutte le frontiere. Finora sono 64 persone (29 donne e 35 uomini) risultate positive al test, tra loro 3 sono già morte una mercoledì e due ieri. Il Paese è sconvolto dopo aver appreso che
anche 4 ministri sono stati colpiti da COVID-19: quello degli Interni, degli Esteri, dell’Educazione e quello delle Miniere sono stati messi in quarantena.
Il Paese maggiormente colpito resta l’Egitto, dove il 14 febbraio è stato individuato il primo contagio in Africa e la prima vittima, un tedesco, deceduto in un ospedale di
Hurghada, città balneare sul Mar Rosso. Oggi le persone infette da COVID-19 sono 285 e 8 i morti. Le ONG per la Difesa dei diritti umani hanno espresso grande preoccupazione per i detenuti nelle
sovraffollate galere del Paese e hanno chiesto al governo di rilasciare i migliaia di attivisti impegnati nella difesa dei più deboli, compresi i giornalisti e altri intellettuali, imprigionati
per il semplice fatto di aver espresso la propria opinione in modo non violento. Intanto il Cairo ha disposto la chiusura di ristoranti, bar, caffetterie, casinò, locali notturni e centri
commerciali dalle 7 di sera alle 6 del mattino fino al 31 marzo. Le autorità hanno ordinato la sospensione di tutti voli internazionali, e vietato grandi eventi, compresi festival
religiosi.
Oltre 240 casi sono stati registrati in Sudafrica. Lo ha fatto sapere il ministro della Salute Zweli Mkhize. Si teme che la sanità sudafricana non sia pronta per questa crisi.
Non dimentichiamo che 7 milioni di sudafricani sono affetti dal virus HIV, dunque particolarmente esposti alla nuova patologia. Per arginare il rischio del contagio, il governo ha preso in esame
la costruzione di un muro di una quarantina di chilometri lungo la frontiera con lo Zimbabwe per fermare il flusso di migranti “illegali” o persone infette, ha detto due giorni fa Patricia de
Lille, a capo del dicastero dei Lavori pubblici, sottolineando: “Non siamo xenofobi, dobbiamo solamente proteggere il nostro Paese e abbiamo già consultato in merito anche i governi degli
Stati confinanti”. Evidentemente l’influenza di Trump si è fatta sentire anche nell'Africa australe.
L’Algeria segnala questa mattina 94 casi confermati e 10 morti, il Marocco 86 e due decessi, mentre la Tunisia 54, tra loro uno solo con esito
fatale; un uomo rientrato da poco dall'Arabia Saudita. Algeria e Tunisia hanno preso severe misure precauzionali volte a arginare la diffusione del micidiale virus; il Marocco ha addirittura
decretato lo stato d’emergenza sanitaria da ieri sera.
Il Senegal è tra i Paesi maggiormente colpiti nell'area sub-sahariana. In base alle informazioni del ministero della Sanità di Dakar, 47 persone sono risultate positive al test,
tra loro 5 sono già guariti, mentre 42 sono ancora sotto terapia; il loro stato di salute non desta preoccupazione.
Poche ore fa anche l’Uganda ha registrato il primo caso e il presidente Museweni ha bloccato tutti i voli da e per il Paese a partire dalla mezzanotte di oggi.
In Ruanda la presidenza ha intenzione di estendere le norme già in atto per altre due settimane: chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, udienze nei Tribunali, visite ai
carcerati, celebrazioni nei luoghi di culto, assembramenti di ogni genere sono vietati. Ora sono stati bloccati anche i voli commerciali per 30 giorni. Nel Paese ci sono 17 persone affette dal
virus.
Desta comunque una certa preoccupazione che anche Stati insulari, come Madagascar, Capo Verde, Seychelles, Mauritius, abbiano
confermato la presenza di persone affette dal nuovo virus. Antananarivo, la capitale del Madagascar ha segnalato i primi tre casi venerdì: si tratta di 3 donne, arrivate sull'isola con gli ultimi
voli provenienti dalla Francia. Tutte le frontiere marittime e terrestri sono state chiuse già dal 19 marzo per la durata di 30 giorni.
Per ora alcuni governi africani non hanno segnalato la presenza di COVID-19 sui loro territori nazionali. Tra questi la Libia, che ha chiuso tutte le sue frontiere, ma intanto si
continua a combattere; oggi il governo di Serraj ha indetto il coprifuoco dalle 18.00 alle 06.00 per arginare il pericolo coronavirus. Mentre l’Eritrea ha annunciato pochi minuti
fa il primo paziente positivo al test. Si tratta di un eritreo residente in Norvegia, atterrato questa mattina a Asmara con un volo via Dubai. L’Eritrea ha imposto norme severe come assembramenti
e quant'altro, oltre a restrizioni di viaggio. Malgrado queste disposizioni non sono stati rinviati gli esami nazionali per l’anno scolastico 2019/2020. Il ministero della Pubblica istruzione ha
dato il via libera alle prove, che sono iniziate il 18 marzo e che termineranno il 23.
Attualmente l’incidenza del micidiale virus è molto più bassa in Africa che negli altri continenti, eppure rappresenta il 15,6 per cento della popolazione mondiale. Può darsi che
le infezioni siano maggiori di quelle effettivamente comunicate, perché non sono state rilevate tramite i test, non disponibili in quantità necessaria, come un po’ ovunque nel mondo. Ma, è bene
ricordare che il primo contagiato nel continente è stato un cittadino tedesco, un turista e anche in Nigeria, il primo malato era un italiano, nel Paese per motivi di lavoro. È dunque evidente
che il virus è arrivato a nord e a sud del Sahara da visitatori, non da africani e dimostra che sia l’Egitto sia la Nigeria sono stati efficienti e capaci nell'effettuare i test.
Molti studi hanno finora dimostrato che le persone di una certa età sono più facilmente vittime di questa patologia e l’Africa è un continente dove i giovani sotto i 30 anni rappresentano quasi
il 70 per cento della popolazione. Tanto altro resta da verificare anche sotto il profilo immunologico. Sono tantissimi gli abitanti della fascia sub-sahariana che regolarmente ingaggiano
battaglie con agenti patogeni, compresi i virus. Un’ipotesi – tutta da dimostrare e verificare – consiste nel fatto che gli africani potrebbero avere un sistema immunitario più attrezzato.
15 marzo 2020
KENYA. RAPIMENTO SILVIA ROMANO. GLI SVILUPPI DEL PROCESSO
Clicca qui per gli articoli sul rapimento
14 marzo 2020
MALI. LIBERATI LUCA TACCHETTO E EDITH BLAIS
Dopo 15 mesi di prigionia sono stati liberati Luca Tacchetto e la sua compagna canadese, Edith Blais, catturati il 16 dicembre 2018.
Vedi Africa Ultime Notizie 6 gennaio 2019
È stata una pattuglia di caschi blu che dopo aver ottenuto tutte le informazioni necessarie ha assalito il gruppo che teneva prigionieri i due giovani. I rapitori con gli ostaggi erano accampati
nei dintorni di Kidal nel nord del Mali. I soldati dell’ONU hanno portato Luca ed Edith prima a Gao, poi nella capitale Bamako.
Luca ed Edith erano partiti in auto dal Veneto e dopo aver lasciato l’Europa avevo superato il Marocco e la Mauritania. Sono entrati in Mali e passati in Burkina Faso. Probabile che qualcuno li
abbia visti, seguiti, monitorati e quindi catturati.
I gruppi fondamentalisti attivi nel Sahel, operano in due ambiti: politico (che fanno riferimento ad Al Qaeda o all’ISIS) e criminale (predoni che con la crisi economica sono diventati sempre più
aggressivi). Per finanziare il terrorismo, rapiscono a scopo di riscatto non solo occidentali, ma si dedicano con gran profitto al traffico di droga.
Secondo informazioni raccolte, gli italiani avevano affidato le trattative per la liberazione di Luca e Edith a un commerciate arabo maliano vicino a gruppi jihadisti della tribù Lemhars
(Lamhars, Lam-Har, al-Amhar), Baba Olud Choueckh che, a suo tempo, aveva trattato la liberazione di Sergio Cicala e la moglie, Philomen Kabouree.
Ma spunta un riscatto tra i retroscena per la liberazione.
Come sono andate veramente le cose? Cosa c’è dietro la liberazione di Luca Tacchetto e Edith Blais? Il pagamento di un riscatto? Il premier canadese, Justin Trudeau, ha negato categoricamente di
aver versato un centesimo per il rilascio della propria concittadina Edith Blais, originaria del Quebec.
Una persona che ha seguito da vicino le trattative per il rilascio dei due giovani ha confidato ad un giornalista che è stata pagata una certa somma in cambio della loro libertà. Non è dato
sapere quanto e chi abbia messo mano al portafoglio.
Durante la loro detenzione la coppia è stata spostata tre volte. e ciò fa pensare che siano stati consegnati a ‘intermediari’ per essere rivenduti. Dopo essere stati sequestrati in Burkina Faso,
sono stati portati nel centro del Mali, e poi ancora nel nord, nell'area di Kidal. Durante la loro detenzione sono stati anche separati per qualche tempo.
I rapitori hanno i loro problemi con i sequestrati, specie dal punta di vista logistico: bisogna nutrirli, fare in modo che non si ammalino se si vuole trarre il massimo profitto. Infatti, a
prima vista la coppia sembra in apparente buona salute e nemmeno troppo dimagriti.
Secondo il racconto di un giornalista che vive in Mali, un Paese vicino al Mali, che aveva già fatto da intermediario per la liberazione di altri ostaggi canadesi, inizia le trattative in gran
segreto a ottobre 2019. Infatti due emissari, il capo di un gruppo armato maliano e un politico della stessa area si recano lì per i primi colloqui. Vengono ricevuti dal presidente e esibite
prove che la coppia sia in vita. Gli emissari approfittano dell’incontro per affrontare un argomento inevitabile: il riscatto per la liberazione dei due giovani.
Lo Stato in questione è lo stesso che già in passato aveva giocato un ruolo essenziale per il rilascio di altri canadesi rapiti. Il Canada viene informato delle trattative. Pochi giorni prima che
Luca e Edith vengano liberati, il politico locale maliano si reca nuovamente nel Paese vicino. È lui che tiene le fila della complessa trattativa e riesce a far accelerare gli eventi. Conclusa la
missione, torna discretamente a Bamako, la capitale del Mali, dove informa le autorità canadesi che i giovani saranno liberati da lì a poco.
È stato altrettanto importante scegliere il luogo del rilascio, secondo una persona vicina alle trattative, la base ONU di Kidal sembrava il posto ideale per tutti i convenuti, in quanto i caschi
blu di MINUSMA erano in grado di identificare e mettere immediatamente in sicurezza la coppia. Un luogo non consono avrebbe potuto irritare le parti avverse, con il reale rischio che tutto
sarebbe potuto andare a monte.
In ottobre Rémi Dandjinnou, portavoce del governo burkinabé, in un’intervista trasmessa dalla RAI, aveva assicurato che i due italiani e la canadese erano vivi. Nello stesso periodo il ministro
candese per gli Affari esteri, Chrystia Freeland, durante un comizio elettorale aveva annunciato: “Edith è viva ma le indagini sono assai complicate e quindi è opportuno non dare notizie e
dettagli che potrebbero danneggiare la vita dell’ostaggio”.
Non sappiamo se e quale ruolo abbia avuto il nostro Paese in tutto questo. Quel che è certo è che il politico locale maliano nulla ha a che vedere col commerciante arabo maliano, Baba Olud
Choueckh.
Altrettanto certo è che Baba Olud Choueckh ha già riscosso la parcella presentata al nostro Paese! E io pago!!!
20 febbraio 2020
KENYA - SOMALIA. MERCOLEDÌ DI SANGUE: AL SHABAAB SCATENATI
Il bus della Moyale Raha era appena partito ieri da Moyale (Kenya), città nel triangolo Kenya-Etiopia-Mali, alla volta della capitale Nairobi, quando un gruppo di uomini armati,
travestiti da poliziotti kenioti, hanno cercato di fermare il pullman, inscenando un posto blocco.
Ma l’autista, secondo quanto riporta il proprietario della compagnia, Haji Abass, non ci è cascato. Anzi, ha schiacciato l’acceleratore; allora i presunti miliziani al-Shabaab hanno aperto il
fuoco e hanno sparato contro i pneumatici dell’automezzo. L’autista, ferito, ha perso il controllo del bus, che è andato a finire in un fosso. A quel punto i terroristi hanno fatto uscire tutti
passeggeri e, a sangue freddo, ne hanno uccisi 3: uno tra loro era musulmano, mentre due abbracciavano altra fede.
Si tratta dell’ennesima vendetta contro la presenza di truppe keniote nel contingente di pace dell’Unione Africana, stanziate in Somalia per arginare le continue incursioni degli islamisti nella
ex colonia italiana.
Dall'inizio dell’anno molte scuole sono state chiuse nelle contee confinanti con la Somalia (Mandera, Garissa e Wajir), dove gli attacchi dei sanguinari al-Shabaab si susseguono senza
sosta.
Ieri i terroristi somali si sono scatenati in ogni dove, non solo in Kenya. In Somalia hanno attaccato due basi militari nel Basso Scebeli, nel sud del Paese. Un kamikaze si è fatto esplodere
nella sua auto alle 2 di notte, ora locale, alla base el-Salini. Un folto gruppo di terroristi armati hanno poi occupato il campo finché non sono arrivati i rinforzi, che hanno respinto gli
aggressori.
La seconda incursione ha avuto luogo solo poche ore dopo, verso le 5 del mattino. Stavolta è stata presa di mira la base di Qoryooley, vicino Merca. Un’autovettura carica di esplosivo ha
distrutto parzialmente il ponte che porta all'accampamento militare. Le forze armate somale e i caschi verdi dell’Unione Africana sono riusciti a respingere l’attacco dei miliziani al-Shabaab,
che continuano ad avere il controllo di vaste zone nel sud e nel centro della ex colonia italiana. Le aggressioni del gruppo armato si verificano un po’ ovunque nel Paese, compresa la capitale
Mogadiscio. Gli obiettivi preferiti dai terroristi sono edifici governativi e/o infrastrutture militari. con lo scopo di rovesciare l’attuale governo, appoggiato dall'occidente, per imporre la
sharia in Somalia..
By Africa Express
17 febbraio 2020
BURUNDI. SCOPERTE FOSSE COMUNI CON OLTRE 6000 VITTIME
I resti di oltre 6 mila persone sono state trovate in fosse comuni, gente ammazzata durante massacri inter-etnici in Burundi.
Pierre Claver Ndayicariye, presidente della Commission Vérité et Réconciliation (CVR) – istituita nel 2014 per far luce sulle ingiustizie e violenze che si sono consumate dopo
l’indipendenza ottenuta nel 1962 dal Belgio – durante la conferenza stampa tenutasi all'Hotel Source du Nile, Bujumbura, ha fatto sapere che sono stati trovati i resti di 6.032 persone e migliaia
di pallottole in diverse fosse comuni sulla strada che collega Gitega, l’attuale capitale che si trova al centro del Paese, e Karusi, città situata un po’ più a est.
Vicino alle ossa c’erano occhiali, brandelli di vestiti e rosari, utili all'identificazione dei morti, che in questo modo avranno finalmente una degna sepoltura.
Nell'area vicino al fiume Ruvubu, l’equipe di CVR ha trovato 10 fosse comuni, altre 2 devono essere ancora aperte e altre 10 sono state già segnalate, ma non ancora identificate. Le testimonianze
raccolte finora hanno permesso di stabilire il profilo delle vittime. Anche se il presidente di CVR per ora si rifiuta di esprimersi sull'etnia di appartenenza, si tratta probabilmente del
massacro avvenuto nel 1972 di persone di etnia Hutu, provenienti da Gitega e dalle province vicine.
Il presidente della Commissione è persuaso che altri siti riserveranno terribili sorprese. Finora la CVR è stata in grado di identificare oltre 140 mila persone morte o date per disperse durante
le diverse crisi che hanno insanguinato l’ex protettorato belga. Si presume che in tutto ci siano 4 mila fosse comuni in Burundi.
CVR è stata incaricata di investigare sulle atrocità commesse dal 1885 (con l’arrivo degli stranieri) fino al 2005. Tuttavia il mandato della Commissione esclude indagini dopo quella data, cioè
con l’ascesa al potere dell’attuale presidente, Pierre Nkurunziza, attualmente al suo terzo mandato. Nel periodo elettorale delle ultime presidenziali che si sono svolte nel 2015, sono state
uccise centinaia di burundesi durante scontri con le forze dell’ordine. Allora l’ONU aveva lanciato l’allarme su nuovi abusi dei diritti umani.
Tra la fine dello scorso anno e l’inizio del 2020 sono stati esumati i resti delle vittime delle fosse comuni scoperte all'ex mercato di Kamenge. In questo caso si suppone che si tratti di
vittime della guerra civile a sfondo etnico –tra Hutu e Tutsi – che ha causato 300 mila morti tra il 1993 e il 2005.
By Africa Express
6 febbraio 2020
MOZAMBICO. CHIAMATA ALLE ARMI ANTI-JIHADISTA
“Delinquenti finanziati da forze interne ed esterne stanno assassinando e distruggendo abitazioni e infrastrutture. Per questa ragione il popolo ha deciso di unirsi alle forze di
difesa e sicurezza”.
Queste le parole del presidente, Filipe Nyusi, nel discorso pubblico del 3 febbraio, Giornata degli Eroi mozambicani. Secondo @Verdade, giornale on line mozambicano, il discorso di Nyusi è una
vera e propria chiamata alle armi contro lo jihadismo del Nord. E anche contro gli attacchi armati nella provincia di Sofala della Giunta militare, l’ala dei dissidenti armati RENAMO. Due fronti
che il governo non riesce a domare.
La guerra sottovalutata e insidiosa a Cabo Delgado, provincia settentrionale dell’ex colonia portoghese non si arresta. Nyusi, originario di quella regione, per fermare le cellule jihadiste, in
appoggio alla polizia, ha mandato le Forze di sicurezza.
Ma, dall'ottobre 2017, la situazione è peggiorata e continuano gli attacchi di Al Sunna wa-Jama gruppo islamico chiamato dalla popolazione al Al-Shabaab. Dopo i primi assalti alla stazioni di
polizia, la brutalità si è diretta verso la popolazione indifesa dei villaggi isolati, messi a ferro e fuoco, con massacri e decapitazioni, anche di donne e bambini, soprattutto nell'area interna
tra Mocímboa da Praia e Palma, a nord di Pemba, capitale provinciale. Per dare il colpo di grazia al terrorismo islamista il presidente mozambicano ha chiesto soccorso ai russi che dallo scorso
settembre sono presenti a Cabo Delgado.
Nemmeno i 200 mercenari del Gruppo Wagner sono riusciti a fermare gli attacchi jihadisti. Fino ad oggi si sa che hanno perso almeno sette uomini.
Da gennaio a dicembre 2019 sono stati contati oltre 120 assalti jihadisti che hanno causato più di 320 morti molti dei quali decapitati a colpi di machete. L’ultimo agguato al Al-Shabaab è della
settimana scorsa, il 29 gennaio, 150 km a nord di Pemba. Una provocazione del gruppo armato che è rimasto circa due ore per mostrare che nessuno sarebbe venuto in loro aiuto.
La conferma che la situazione sia peggiorata a Cabo Delgado è la richiesta di ExxonMobil e Total, due delle multinazionali petrolifere che lavorano insieme a ENI. Al largo di Palma, vicino al
confine con la Tanzania, c’è uno dei più vasti giacimenti di gas naturale (GNL) che sarà operativo nel 2022. Reuters cita fonti ExxonMobil e Total e afferma che sono stati richiesti altri 300
militari oltre ai 500 presenti a protezione del sito. Per il momento il governo mozambicano non ha risposto.
By Africa Express
4 febbraio 2020
CONGO-K NEL CAOS
Miliziani, morbillo, ebola, inondazioni, prigioni sovraffollate.
Un vero e proprio bollettino da guerra giunge quasi giornalmente dalla Repubblica Democratica del Congo. Gruppi armati che uccidono civili inermi, galere dove i prigionieri continuano a morire di
fame e mala sanità, ebola che dopo 17 mesi miete ancora vittime nel Nord-Kivu e a Ituri, l’epidemia di morbillo che continua la sua folle corsa e infine piogge torrenziali e inondazioni mettono
in pericolo la vita delle persone.
I guerriglieri del gruppo terrorista Allied Democratic Forces (ADF), organizzazione islamista terrorista ugandese, operativa anche nel Congo-K dal 1995, hanno fatto una vera e propria strage in
meno di una settimana. Finora si ha notizia di tre attacchi, ma è probabile che ve ne siano stati anche altri, non sempre le notizie giungono in tempo reale. Questa notte l’ultimo, nella
provincia di Ituri, a Ndalya, dove i terroristi hanno ucciso 3 persone di uno stesso gruppo familiare e bruciato una casa. Dalle prime informazioni arrivate dallo stringer di Africa ExPress,
sembra che altre vite siano state risparmiate, grazie al pronto intervento dell’esercito.
Ma la scorsa settimana è stato un vero massacro nella zona di Beni, nel Nord-Kivu. In due diversi attacchi sono state sterminate 14 persone a colpi di machete la notte tra il 28 e il 29 gennaio.
Altre sono state ferite gravemente e sono state ricoverate in condizione critiche nell'ospedale di Oicha. E sempre nella stessa zona sono stati uccisi altre 7 residenti il 1° febbraio.
Una donna, sequestrata nell'attacco del 1° febbraio, è stata liberata ieri. Secondo quanto riferito da Kinos Katuho, rappresentante della società civile locale, i miliziani le avrebbero affidato
un messaggio per l’esercito congolese (FARDC): “Basta con le offensive alle nostre postazioni. In caso contrario continueremo le aggressioni contro la popolazione civile”. Dalla fine di
ottobre sono in atto massicce operazioni militari contro i ribelli ADF e altri gruppi armati attivi nella zona, responsabili di continue sanguinarie incursioni.
Anche i ribelli Maï-Maï non hanno risparmiato la zona di Beni in questi ultimi giorni. A Mamové irregolari del gruppo armato hanno attaccato la locale stazione di polizia. Almeno 8 persone, tra
loro un combattente Maï-Maï, sono morte. Il rappresentante della società civile di Mamové ha detto che ora il villaggio è vuoto. Tutti i residenti sono fuggiti per paura di nuove
rappresaglie.
I Maï-Maï sono guerrieri tradizionali, combattenti che si sottopongono a iniziazioni magiche e partecipano a riti esoterici; sono stati molto attivi negli anni ’90. Sono comparsi per le prime
volte nelle guerriglie subito dopo l’indipendenza, nel 1960. Da tempo sono ricomparsi e sono responsabili di molti scontri avvenuti in tutto il Kivu. I Maï-Maï dovrebbero proteggere la
popolazione, ma di fatto quasi mai è così: razziano, rapinano, violentano, uccidono.
Secondo fonti governative, dal 1° agosto 2018 al 29 gennaio 2020 sono morte 2.242 persone dopo aver contratto il micidiale virus ebola, mentre in totale 3.421 sono stati infettati, 1.154, invece,
sono guarite. La febbre emorragica non è ancora stata sconfitta, anche se da qualche tempo viaggia più lentamente. Certamente gli attacchi dei gruppi armati non aiutano a sconfiggere la malattia.
Parte della popolazione è in continuo movimento, si nasconde nei boschi, cerca rifugio da parenti e amici in altre aree e dunque gli operatori sanitari non possono monitorare coloro che sono
venuti in contatto con ebola.
Dall'inizio dell’epidemia sono state vaccinate quasi 300.000 persone. Un operatore sanitario, pur essendo stato immunizzato con il vaccino rVSV-ZEBOV, prodotto dal gruppo americano Merck, Sharp
& Dohme, a fine gennaio ha contratto ugualmente la febbre emorragica a Beni, uno degli epicentri della patologia. Sono 167 i sanitari contagiati dal virus dall'inizio della sua comparsa nelle
due province. Tra loro 41 sono morti.
Le autorità sanitarie hanno fatto sapere che bisogna attendere tra 8 e 10 giorni perché la persona vaccinata produca gli anticorpi contro l’ebola; durante quel lasso di tempo il contagio è ancora
possibile.
Nella più grande prigione di Kinshasa, la capitale della ex colonia belga, e in altre case circondariali del Paese anche i detenuti continuano a morire: oltre una trentina dall'inizio dell’anno
per mancanza di cibo, malattia, assenza di medicinali. Pochi giorni fa tre detenuti sono stati trasferiti all'ospedale di competenza. Le loro condizioni erano gravissime. Uno di loro è morto
durante il trasporto.
Questa incresciosa situazione è venuta a crearsi perché il governo non ha saldato i debiti con i fornitori, notizia confermata dal ministro della Giustizia, Tunda Ya Kasende qualche settimana fa.
Sembrava che una parte del denaro necessario fosse stato sbloccato dal dicastero delle Finanze, ma a quanto pare non è stato sufficiente per “normalizzare” lo stato delle cose.
La Repubblica Democratica del Congo sta affrontando anche la peggiore crisi di morbillo della sua storia; finora sono morti oltre 6.000 pazienti, per lo più bambini. Durante lo scorso anno sono
stati vaccinati 18 milioni di piccoli fino ai 5 anni. La copertura vaccinale sistematica resta tuttora non sufficiente. Da un lato mancano i finanziamenti necessari, dall'altro alcune zone del
Paese sono difficilmente accessibili per questioni di sicurezza.
E in questo immenso Paese non mancano nemmeno i problemi legati ai cambiamenti climatici. Pochi giorni fa piogge torrenziali e allagamenti hanno causato la morte di almeno 4 persone, diversi i
dispersi, tra loro anche 2 bambini, nel Sud-Kivu. Gran parte delle strade sono impraticabili, trasporti interrotti, case allagate, altre distrutte completamente dalla furia delle acque. Mentre a
metà gennaio sono morti 14 residenti nella zona di Bukavu, capoluogo del Sud-Kivu sempre a causa di piogge e alluvioni.
By Africa Express
2 febbraio 2020
SUDAFRICA. LAPIDATI A MORTE 9 MINATORI ILLEGALI ORIGINARI DEL LESOTHO
Nove minatori illegali, originari del Lesotho – un’enclave nel Sudafrica – sono stati brutalmente lapidati a morte a Matholeville, nella parte occidentale della regione di Johannesburg.
I corpi sono stati trovati nelle vie della città, tra loro anche una decima persona, gravemente ferita.
Ora è caccia all'uomo. Finora la polizia sudafricana ha fermato e interrogato un’ottantina di sospettati. Molto probabilmente gli assassini fanno parte di un gruppo rivale a quello degli zama
zamas, che tradotto dalla lingua zulu significa “coloro che tentano la propria fortuna”. Vengono così chiamati i minatori illegali, alla ricerca di oro nelle quasi 6.000 miniere ormai abbandonate
nell'area di Johannesburg, ma si possono trovare anche in siti di diamanti dismessi al confine con la Namibia.
Secondo una recente indagine si stima che in tutto il Paese operino oltre 30.000 zama zamas, molti dei quali provengono appunto dal Lesotho. Rischiano la loro vita ogni giorno in questi vecchi
giacimenti abbandonati, privi di ogni misura di sicurezza. Passano settimane e settimane sotto terra per racimolare pochi euro, rischiando poi di essere attaccati da gruppi rivali mentre cercano
di rivendere i preziosi minerali. Quasi sicuramente anche questa volta sono stati attaccati da una gang nemica.
Il Sudafrica è tra i Paesi più violenti e pericolosi al mondo. Tra aprile 2018 e marzo 2019 sono stati registrati 21.000 omicidi, 58 al giorno, secondo i dati rilasciati da fonti
governative.
By Africa Express
15 gennaio 2020
SAHEL-FRANCIA. FORMATA NUOVA COALIZIONE PER CONTRASTARE I TERRORISTI
La recrudescenza degli attacchi terroristi nel Sahel è stata al centro del vertice tra Emmanuel Macron, presidente francese e i capi di Stato del G5 Sahel, Ibrahim Boubacar Keïta (Mali), Idriss
Déby Itno (Ciad), Ould Cheikh Ghazouani (Mauritania), Roch Marc Christian Kaboré (Burkina Faso) e Mahamadou Issoufou (Niger).
In occasione delI’incontro, i presidenti del Sahel e il loro omologo francese hanno lanciato una nuova coalizione per contrastare l’ondata di violenze che i terroristi stanno scatenando nella
regione, sopratutto in Burkina Faso, Niger e Mali. I sei leader hanno convenuto che ognuno di loro, ovviamente secondo i mezzi a disposizione di ciascun Stato, avrebbe elaborato e definito nuove
strategie d’intervento con i propri eserciti, naturalmente nell'ambito di strategie comuni.
La Coalition pour le Sahel (coalizione per il Sahel), come è stata chiamata, raggruppa i 5 Paesi dell’area e la Francia attraverso l’Operazione Barkhane e altri partner già
operativi nella zona; la partecipazione è aperta ad altri Stati e/o organizzazioni che desiderano farne parte. Macron ha annunciato di voler inviare altri 220 soldati nel Sahel per consolidare la
presenza di Parigi.
Il meeting di Pau, nel sud-ovest del Paese d’Oltralpe è stato fortemente voluto da Parigi, viste le ostilità che parte della popolazione nutre contro la presenza delle truppe francesi, presenti
in tutto il Sahel con 4.500 militari e della Missione di pace dell’ONU, MINUSMA, forte di oltre 13.000 persone. Pochi giorni fa si è svolta anche una manifestazione a Bamako,
capitale del Mali, contro la presenza dei soldati stranieri, in particolare contro i francesi. Macron è stato persino rappresentato su alcuni cartelloni come Hitler, bandiere francesi sono state
bruciate.
Gli omologhi del presidente francese non si sono pronunciati in merito, anche se a dicembre alcuni di loro avevano mostrato perplessità nei confronti della missione Barkhane, perché malgrado la
massiccia presenza di forze straniere, le aggressioni dei terroristi sono sempre più frequenti.
Macron aveva fissato la riunione con i suoi omologhi già a dicembre, era stata rinviata dopo la strage di Inates in Niger. Allora erano stati trucidati 70 soldati nigerini. Nel frattempo durante
un nuovo attacco, avvenuto il 9 gennaio, altri 89 militari sono morti durante un’aggressione a Chinégodar, nella regione di Tillabéri, al confine con il Mali. L’ultima carneficina è costato la
testa al capo di Stato maggiore dell’esercito nigerino, Ahmed Mohamed e al capo di Stato delle forze terrestri, Sidikou Issa. Sono stati sostituiti entrambi. La decisione è stata presa durante il
Consiglio dei ministri, tenutosi alla vigilia della partenza di Issoufou per Pau.
In un comunicato a margine del vertice, i presidenti del G5 Sahel hanno espresso la loro riconoscenza agli Stati Uniti per il loro appoggio e collaborazione nella lotta contro i jihadisti,
auspicando che gli interventi di Africom proseguano anche in futuro. Circola voce che AFRICOM, commando militare USA per l’Africa creato nel 2007, voglia diminuire la sua presenza in Africa. Lo
stato maggiore di AFRICOM ha sede in Germania; nel continente africano sono dislocati 7.000 soldati, la metà a Gibuti, 2.000 sono impegnati nella formazione di truppe africane. Non si esclude che
venga chiusa la più grande base per droni americana a Agadez in Niger.
Secondo il rapporto dell’ONU dell’8 gennaio scorso, negli ultimi anni i morti dovuti alle incursioni dei terroristi si sono quintuplicati: nel 2019 sono stati registrati oltre 4.000 decessi nel
Sahel contro i 700 del 2016. Inoltre, l’azione degli attacchi si è spostata verso est, dal Mali verso il Burkina Faso. Mezzo milione di persone hanno lasciato le loro case, cercando protezione
nei campi per sfollati; altri 25.000 si sono spostati in Paesi confinanti. La gente non si fida più del governo, degli amministratori locali.
Il responsabile dell’Ufficio dell’ONU per l’Africa dell’ovest e del Sahel (UNOWAS), Mohamed Ibn Chambas, i governi, gli attori locali, le organizzazioni regionali, nonché la comunità
internazionale, pur avendo già messo in campo risposte per contrastare il terrorismo violento, dovrebbero rinforzare azioni in questa direzione.
By Africa Express
Leggi anche: Natale di sangue in tutto il Sahel. Attacchi terroristi in
Burkina Faso, Mali e Niger
7 gennaio 2020
MOZAMBICO. ATROCITÀ JIHADISTE, OLTRE 10 I MORTI
Un probabile gruppo jihadista, con armi da fuoco e machete, ha attaccato un minibus con venti persone a bordo e lo ha dato alle fiamme. Secondo i testimoni molti dei passeggeri sono morti
bruciati vivi all'interno del mezzo. Tra questi, due bambini. I fuggitivi sono stati massacrati a colpi di machete.
La furia omicida dei terroristi si è accanita anche contro un bambino che è stato decapitato mentre scappava. Alcuni testimoni raccontano che anche un uomo è stato decapitato davanti alla moglie
e ai figli. Non si conosce ancora in numero esatto dei morti ma sono almeno dieci e sette sono i sopravvissuti. La strage è stata confermata dalla polizia del distretto di Macomia.
L’agguato, il primo del 2020, è del 3 gennaio a Cabo Delgado, nell'estremo nord del Mozambico, distretto di Macomia, tra Palma e Pemba. Dal mese di ottobre 2017, la provincia di Cabo Delgado è
sotto attacco di cellule jihadiste che però solo due volte hanno rivendicato le loro azioni. Una di queste come Stato Islamico Secondo uno studio dell’Università Eduardo Mondlane di Maputo,
commissionato dal presidente mozambicano Filipe Nyusi, si tratta di una trentina di cellule.
Fino ad ora nemmeno i 200 mercenari russi sono riusciti a fermare gli attacchi jihadisti di Cabo
Delgado. Richiesti da Filipe Nyusi al presidente russo Vladimir Putin, i contractor del Gruppo Wagner sono presenti nell'area dallo scorso settembre. Negli ultimi dodici mesi si contano almeno
120 assalti attribuiti ad Al Sunna wa-Jama’s, chiamati dalla popolazione al- Shabaab. Hanno causato oltre 320 morti tra i quali almeno sette russi in due attacchi di ottobre scorso.
Secondo The Indian Ocean Newsletters il presidente mozambicano Nyusi vuole cercare di risolvere la crisi del jihadismo a Cabo Delgado senza interferenze dell’Unione Africana (UA). Intende evitare
l’invio delle truppe UA accusate di pesanti violenze nei Paesi nei quali sono intervenute.
Preferisce un maggiore controllo dei confini con i Paesi vicini e ha preso contatti con Tanzania, Malawi, Zambia e Sudafrica. Dagli incontri, per il momento non c’è ancora alcuna soluzione
congiunta. Solo la Tanzania annunciato l’aumento dei controlli della frontiera con Cabo Delgado.
La preoccupazione di Filipe Nyusi è la protezione degli immensi giacimenti di rubini di Montepuez e quelli di gas naturale (GNL) offshore di Palma. Mentre la produzione di rubini frutta montagne
di dollari e, purtroppo, un alto livello di corruzione, la produzione di gas dovrebbe iniziare nel 2022. Tesori da salvare a tutti i costi per il futuro del Mozambico.
By Africa Express
Leggi anche: Mozambico, contrabbando di rubini e avorio dietro i capi jahidisti
di Cabo Delgado.
7 gennaio 2020
KENYA. DUE REGIONI FLAGELLATE DALLE LOCUSTE
Il Nord Est del Kenya è flagellato da settimane da un’invasione di locuste senza precedenti.
Gli insetti che sono giunti dall'Etiopia e dalla vicina Somalia a causa della siccità nelle regioni del sud e hanno trovato la zona solitamente desertica di Wajir e Mandera incredibilmente
fiorita e fertile per le forti piogge cadute negli ultimi mesi, non si sono più mossi, infestando e distruggendo i raccolti della povera gente della zona.
Nelle ultime settimane i residenti delle due contee hanno cercato in tutti i modi di liberarsi dalle locuste, utilizzando metodi ancestrali come urla, fischi e stridore di oggetti metallici, ma
c’è stato poco da fare.
Qualcuno ha anche sparato a salve in aria per ore ed ore, altri hanno preferito affidarsi alle preghiere, recitando il Corano nei campi.
Ieri finalmente le autorità governative della Sanità e le unità di Emergenza hanno dato il via libera alla disinfestazione aerea, utilizzando spray non eccessivamente dannosi per le coltivazioni
e per il genere umano.
Le locuste possono formare enormi sciami in grado di spogliare alberi e coltivazioni su vaste aree, se vengono lasciate libere di riprodursi in condizioni favorevoli. Gli sciami di locuste adulte
possono spostarsi in volo fino a 150 chilometri al giorno e uno sciame molto piccolo può divorare in termini di vegetali quanto circa 35.000 persone.
L'ultima grande invasione in Kenya è avvenuta nel 2004, quando nell'Africa Occidentale più di 12 milioni di ettari sono stati disinfestati con pesticidi, con un costo di circa 750 milioni di
dollari, compresi gli aiuti alimentari, da parte della FAO.
Secondo l'agenzia alimentare delle Nazioni Unite, uno sciame medio può distruggere raccolti che potrebbero sfamare 2.500 persone per un anno.
Due settimane fa la stessa FAO aveva riferito che le locuste del deserto stavano distruggendo decine di migliaia di ettari di colture e di pascoli in Somalia, la peggiore invasione degli ultimi
25 anni.
La Reuters riferisce che l'ultima invasione di locuste è molto più grave di quanto la FAO avesse previsto in precedenza.
A quanto pare è stata aggravata dalle forti piogge fuori stagione e inondazioni in tutta l'Africa Orientale. Gli esperti dicono che gli shock climatici sono in gran parte responsabili dei rapidi
cambiamenti nelle regioni interessate.
Questi sciami di locuste hanno avuto origine nello Yemen, hanno volato fino alla regione etiopica di Ogaden, dove hanno deposto le uova in ottobre. Da lì alcuni sciami hanno proseguito verso sud,
in Somalia e da qui nel nord-est del Kenya.
By Malindikenya.net
5 gennaio 2020
KENYA. AL SHABAAB ATTACCA LA BASE MILITARE CONGIUNTA USA-KENYA A LAMU
Sono cominciate dal Kenya le rappresaglie dei terroristi in risposta all'omicidio del generale Qassem Soleimani, assassinato a Baghdad in un raid americano il 3 gennaio. Stamattina all'alba un
commando di Al-Shabaab ha attaccato Camp Simba, base congiunta keniota e americana, di fronte a Lamu, località turistica di grande attrazione.
I combattimenti sono stati violentissimi, densi pennacchi di fumo si sono alzati dalle strutture. Il bilancio è di cinque assalitori ammazzati, un soldato americano e due contractors uccisi, due
feriti, due elicotteri e due aerei (un Caravan keniota e un Cessna americano) dati alle fiamme e distrutti assieme a diversi veicoli statunitensi.
Secondo un comunicato del Kenyan Defence Forces (KDF), l’esercito del Kenya, alle 5:30 del mattino: “Un gruppo di terroristi ha tentato di entrare nell'aeroporto di Lamu (che è
situato a Manda, un’isola separata dal villaggio da un braccio di mare di appena 200 metri). Gli assalitori sono stati respinti e quattro dei loro corpi senza vita sono stati recuperati al di
là del reticolato”.
Gli americani hanno confermato l’attacco senza parlare di vittime e promettendo ulteriori dettagli, mentre gli Al-Shabaab, i terroristi filiale est-africana di Al Qaeda, che immediatamente hanno
rivendicato l’attacco, hanno parlato di seri danni subiti sia dai kenioti sia dagli americani. “I nostri mujaheddin sono penetrati di nascosto nelle linee nemiche, hanno preso d’assalto con
successo la base militare pesantemente fortificata e ora hanno conquistato il controllo effettivo di una parte della base”, hanno comunicato in un documento.
Manda Bay è un'area in cui le forze americane forniscono addestramento e supporto antiterrorismo ai suoi partner dell'Africa orientale, tra cui le forze di difesa del Kenya.
By Africa Express
4 gennaio 2020
MATTANZA SUL LAGO CIAD. I TERRORISTI BOKO HARAM SGOZZANO CINQUANTA PESCATORI
Il 22 dicembre un gruppo di miliziani Boko Haram ha fatto la sua comparsa in alcune isole sul Lago Ciad, massacrando una cinquantina di pescatori di diverse nazionalità: prevalentemente
camerunesi, ciadiani e nigeriani. È successo pochi giorni prima di Natale, ma la notizia della carneficina è trapelata solamente ieri.
I sanguinari terroristi – secondo lo straziante racconto di un sopravvissuto camerunese, che per giorni, in stato di choc, si era nascosto nella boscaglia – sarebbero arrivati su una piroga a
motore, simile a quelle usate dai commercianti ambulanti. Dunque i pescatori non si sarebbero sentiti minacciati finché l’imbarcazione non si è accostata. È allora che è iniziata la mattanza, una
carneficina in diverse borgate di pescatori.
Questa volta i miliziani Boko Haram non hanno usato i soliti fucili, ma hanno sgozzato le loro vittime a sangue freddo. Solo giorni più tardi, quando i familiari non hanno visto ritornare i
propri congiunti, è stata fatta la macabra scoperta: decine di corpi galleggianti sulle acque del Lago Ciad. Due bambini mancano all'appello e, secondo il sindaco di Blangoua, regione
dell’Estremo Nord del Camerun, sarebbero stati rapiti dai terroristi.
Il lago Ciad è un lago poco profondo, situato nella parte centro-settentrionale dell'Africa, sui confini di Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. È il settimo lago più grande del mondo ed è localizzato
nell'area del Sahel, una regione a sud del deserto del Sahara.
E questo ennesimo attacco da parte dei terroristi riporta alla luce la fragilità di questo territorio, abbandonato e dimenticato da tutti. L’esercito ciadiano non effettua più pattugliamenti
nell'area da diverso tempo e, malgrado la presenza di militari camerunesi sulla terra ferma, i soldati non controllano le isole, abbandonate così a se stesse. Un pescatore ha confessato:
“Siamo tutti terrorizzati. Nessuno ci protegge”.
Midjiyawa Bakary, governatore della regione Estremo-Nord del Camerun, ha confermato la vile aggressione terrorista. Il governatore ha anche sottolineato che da quando i soldati della
Multi-National Joint Task Force (formazione multinazionale combinata che comprende militari degli eserciti del Benin, Camerun, Ciad, Niger e Nigeria con sede a N’Djamena, capitale del Ciad,
incaricata di porre fine all'insurrezione di Boko), hanno lasciato l’area perché davvero mal equipaggiati. Le sponde del Lago Ciad sono quindi ormai lasciate in balia ai terroristi di Boko
Haram.
By Africa Express
3 gennaio 2020
KENYA. MILIZIANI DI AL-SHABAAB ATTACCANO BUS A LAMU
Tre persone sono state ammazzate, altre tre ferite. È successo giovedì mattina a Nyongoro, nella contea di Lamu in Kenya. Un pullman, partito da Mombasa e diretto a Lamu è stato
attaccato da un gruppo di uomini armati fino ai denti.
I sopravvissuti hanno raccontato che i terroristi (presumibilmente legati agli al-Shabaab somali) avrebbero cercato di costringere l’autista a fermare il bus, ma lui ha proseguito la sua corsa e
i miliziani hanno sparato a più non posso sul mezzo.
Il Kenya si aspettava attacchi da parte dei terroristi. Era nell'aria. Le misure di sicurezza erano state aumentate durante le recenti festività, ma a quanto pare non sufficientemente. Già in
passato gli al-Shabaab avevano preso di mira Nyongoro. Tra gli esecutori materiali trovano certamente spazio elementi dei clan somali stanziati in Kenya ma anche giovani reclutati nel Paese,
terreno fertile per la radicalizzazione islamica a causa dell’altissimo tasso di disoccupazione giovanile in quest’area.
Finora le forze dell’ordine non hanno reso noto i nomi delle vittime e dei feriti. Irungu Macharia, commissario della contea di Lamu, ha precisato che la loro identità è al vaglio delle autorità
competenti.
La contea di Lamu è spesso teatro di attacchi da parte del movimento fondamentalista somalo. È una vendetta contro la presenza di truppe keniote nel contingente di pace dell’Unione Africana,
stanziate in Somalia per arginare le continue incursioni degli islamisti nella ex colonia italiana.
Le forze di sicurezza sono ora alla ricerca dei terroristi in tutta la zona e il traffico è stato interrotto nel tratto Lamu-Garsen.
Già martedì 17 dicembre 2019 quattro operai edili sono stati rapiti da un numero sconosciuto di sospetti militanti di Al-Shabaab nella zona di Wel Garas nella contea di Wajir. Le vittime stavano
lavorando alla costruzione di strade tra Riba e Konton.
Questo attacco arriva a malapena due settimane dopo che 11 persone sono state uccise dai sospetti militanti tra Kutulo e l'area di Wargadud a Tarbaj.
Tra le vittime c'erano otto ufficiali che stavano tornando alle loro postazioni di lavoro a Elram, Mandera.
Nel giugno 2019, sette ufficiali hanno perso la vita dopo che il loro veicolo ha colpito un dispositivo esplosivo improvvisato (IED) nell'area di Konton.
Il poroso confine tra Kenya e Somalia ha reso la regione del Nord un terreno perfetto per gli attacchi di milizie eterogenee con base in Somalia.
2 gennaio 2020
SUDAN. CONDANNATI A MORTE 27 AGENTI DEI SERVIZI SEGRETI CHE TORTURARONO E UCCISERO UN MAESTRO
Ventisette membri dei servizi segreti sono stati condannati alla pena capitale da un Tribunale del Sudan per aver torturato un insegnante fino alla morte dopo il suo arresto perché aveva
partecipato a manifestazioni che si sono svolte in tutto il Paese. La condanna sarà eseguita per impiccagione.
La pena della reclusione è stata invece inflitta a altri 13 imputati, mentre quattro sono stati assolti. Ora si attendono eventuali ricorsi.
È la prima volta che una Corte sudanese emette una sentenza per le repressioni durante le proteste che hanno portato al rovesciamento di Omar Al Bashir e del suo governo l’11 aprile scorso.
La morte dell’insegnante, Ahmed al-Khair, avvenuta a Khashm al-Qirba, città nell’est del Sudan, aveva creato indignazione in tutto il Paese. Al-Khair era stato arrestato in seguito alle proteste
conosciute anche come “La rivolta del pane”, iniziate nel dicembre 2018 dopo l’annuncio del governo di voler triplicare il prezzo del pane.
I familiari dell’insegnante hanno sottolineato che inizialmente gli agenti della sicurezza avevano sostenuto che il loro congiunto sarebbe morto in seguito ad avvelenamento; qualche giorno dopo,
invece, è stato appurato che il decesso era dovuto alle torture subite; il corpo della vittima, infatti, portava evidenti segni di violenza.
Durante l’udienza centinaia di persone hanno manifestato con la bandiera del Sudan e fotografie della vittima davanti al Tribunale di Omdurman, città situata sulla sponda occidentale del Nilo,
dove è stato emesso il verdetto.
By Africa Express
1 gennaio 2020
ANGOLA. I FIGLI DELL'EX PRESIDENTE ANGOLANO SOTTRAEVANO FONDI PUBBLICI
Isabel dos Santos e suo marito, Sindika Dokolo, un collezionista d’arte di origini congolesi, figlio del miliardario banchiere e collezionista di arte africana classica, Augustin
Dokolo e di Hanne Kruse, danese, sono nel mirino della magistratura angolana per sottrazione di fondi pubblici.
Ieri sera la giustizia angolana ha comunicato di aver sequestrato in via cautelare i conti bancari e gli attivi delle società di Isabel dos Santos, figlia dell’ex presidente del Paese. Stessa
sorte è toccata al marito e al portoghese Mario da Silva, consigliere finanziario e prestanome della coppia.
Il Tribunale di Luanda ha agito dietro richiesta del Servizio nazionale per il recupero di fondi, in quanto, secondo lo Stato angolano, la coppia avrebbe sottratto fondi pubblici per oltre un
miliardo di dollari.
La dos Santos, stimata da Forbes tra le donne più ricche del continente africano, ha interessi in diverse importanti compagnie, come il gigante nazionale Telecom, Unitel, importanti banche e il
cementificio Cimangola, fondato recentemente con il marito. L’impero economico della donna, gestito assieme al partner, è infinito e si estende fino al Portogallo dove ha appunto partecipazioni
in diversi istituti bancari.
Lunedì sera, tramite un twitt la “principessa” come viene chiamata dagli angolani, ha tranquillizzato i suoi collaboratori: “La strada è lunga, ma porterà alla luce la verità”.
Sotto il regno del padre, José Edoardo dos Santos, al potere dal 1979 al 2017, Isabel, oggi 46enne, è stata anche a capo della compagnia statale del petrolio, Sonangol. L’ex presidente, con un
colpo da maestro, aveva fatto fuori tutto il consiglio d’amministrazione della società per piazzare la figlia sul ponte di comando. E come presidente della Sonangol, (l’Angola è il secondo
produttore di greggio dell’Africa sub-sahariana) aveva accesso anche al fondo statale petrolifero; secondo l’accusa avrebbe detratto denaro proprio dal fondo.
Il nuovo presidente, João Lourenço, appena eletto, senza perdere tempo ha fatto cadere subito parecchie teste. Ha rimosso immediatamente la “principessa” dalla Sonangol e il fratello, José
Filomeno dos Santos alla guida del fondo statale petrolifero che dirigeva dal 2013. Il figlio dell’ex capo di Stato è attualmente sotto processo per “Arricchimento personale con soldi
statali”.
Da oltre due anni, da quando è nel mirino di Lourenço e della sua lotta per combattere la corruzione, la dos Santos non è più ritornata nel suo Paese e vive tra Londra e Lisbona e nel 2018, da
quando è stata aperta un’inchiesta a suo carico per detrazione di denaro pubblico, aveva fatto sapere che non era sua intenzione collaborare con la giustizia angolana.
By Africa Express
GLI AFRICANI E LA BIBBIA
«Già nell'ambiente colonialista era in voga l'abitudine di gettare in mare la Bibbia non appena attraversato il canale di Suez. Pure i missionari, affascinati dal "Continente Nero", non gettavano in mare la Bibbia, ma solo la tonaca.»
«Quando i missionari giunsero, noi africani avevamo la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare ad occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia.»