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Africa Ultime Notizie 2018



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Africa Breaking News 2018

 

Africa Ultime Notizie 2018

 

Notizie dal continente dimenticato


Turiste scandinave violentate e uccise in Marocco
Turiste scandinave violentate e uccise in Marocco

24 dicembre 2018
MAROCCO. RIVENDICANO IN UN VIDEO L’ASSASSINIO DI DUE TURISTE SCANDINAVE

 

Individuati da un video nel quale si vantavano del gesto efferato, sono stati arrestati dalla polizia i quattro terroristi che hanno barbaramente ammazzato due ragazze scandinave che si trovavano in Marocco per turismo.
Si chiamavano Luoisa Vesterager Jespersen e Maren Ueland, danese di ventiquattro anni la prima, norvegese la seconda, e di anni ne aveva ventotto. Sono state trovate assassinate il 17 dicembre in una regione montagnosa non sorvegliata in provincia di El Haouz, Marocco ad una decina di chilometri da Imlil, ai piedi del monte Toubkal, la più alta vetta del nord Africa. È lì che le due amiche avevano piantato la loro tenda. Avevano intenzione di restare un mese nel regno nordafricano.

Ma è andata diversamente. La mattina del 17 dicembre sono stati trovati i corpi senza vita delle due giovani, stuprate, sgozzate e una delle due decapitata. Quel che in un primo momento sembrava un “semplice” atto criminale, si è rivelato ben presto opera di terroristi, grazie a due video postati su alcuni social network, il cui account è riconducibile all'organizzazione dello stato islamico.
Nel primo dei due filmati, diffuso su Telegram e Twitter, si vedono quattro uomini a volto scoperto. Dietro di loro la bandiera dello stato islamico, cucita a mano e appesa al muro di una stanza vuota. Uno di loro con sicurezza rivendica il massacro delle due ragazze: “La cellula ha risposto all'appello dell’emiro dei credenti, Abou Bakr Al-Baghdadi, capo dello stato islamico, per sostenere i nostri fratelli nel mondo intero, in particolare i nostri fratelli di Hajin (città della Siria orientale da dove l’ISIS si è ritirato a metà dicembre; era la sua ultima roccaforte nello Stato del medio oriente ndr), distrutta dall'aviazione”. Dopo di che i quattro uomini hanno giurato fedeltà all’ISIS.
L’altro video è estremamente brutale e mostra l’assassinio a sangue freddo di una delle due ragazze. Viene sgozzata e uno dei suoi carnefici urla in arabo marocchino: “Per i fratelli di Hajin”.
Il procuratore incaricato delle indagini ha fatto sapere che al momento attuale il video è al vaglio degli inquirenti. E il portavoce della Direzione per la sicurezza nazionale (DGSN), ha precisato : “Per ora non possiamo né smentire, né confermare l’autenticità del filmato”.
Ovviamente il duplice omicidio ha portato sconcerto a Imlil, una località di montagna senza storia, abitata da diecimila anime, che vivono di turismo. Ora temono di perdere prenotazioni. La popolazione preferisce restare in silenzio, altri dicono che le autorità avrebbero chiesto loro di non parlare con i giornalisti.

Ed ora, con la morte delle due scandinave, il Marocco piomba nuovamente nella paura del terrorismo, come nel 2011, quando furono ammazzate sedici persone a Marrakech, undici di loro erano turisti stranieri.
Venerdì scorso l’unità anti-terrorista della polizia marocchina ha fatto sapere che negli ultimi due giorni sono state arrestate nove persone in diverse città della ex colonia francese, per i loro presunti legami con gli assassini delle due giovani scandinave.
Il Bureau central d’investigations judiciaires (Ufficio centrale delle investigazioni giudiziarie, BCIJ) ha inoltre fatto sapere che grazie alle perquisizioni effettuate a Marrakech, Essaouira, Sidi Bennour, Chtouka-Aït Baha e Tangeri, sono stati sequestrati uniformi militari, un fucile da caccia, apparecchiature elettroniche, armi bianche e materiale che potrebbe essere utilizzato per la fabbricazione di esplosivi.
Attualmente sono ben tredici le persone in stato di fermo: i quattro presunti assassini delle due turiste e nove sospettati per avere intrattenuto contatti con i possibili terroristi. I quattro principali sospettati sono stati fermati a Marrakech e secondo fonti ben informate si tratterebbe di giovani tra i venticinque e trentatré anni, socialmente emarginati e con conoscenze assai limitate della dottrina della religione islamica. Secondo i parenti di Abderrahim Khayali, il primo ad essere stato arrestato, quest’ultimo si sarebbe convertito tre anni fa al salafismo, branca ultraconservatrice dell’Islam sunnita.
Un centinaio di cittadini marocchini hanno espresso la loro solidarietà davanti all'ambasciata danese di Rabat sabato. Una manifestazione simile è prevista anche davanti alla rappresentanza norvegese del Regno.
By Africa Express


Andile Mngxitama, leader del partito rivoluzionario sudafricano BLF, che incita all’eliminazione fisica dei bianchi
Andile Mngxitama, leader del partito rivoluzionario sudafricano BLF, che incita all’eliminazione fisica dei bianchi

16 dicembre 2018
SUDAFRICA: “UCCIDEREMO TUTTI I BIANCHI, I FIGLI, LE DONNE E ANCHE I LORO ANIMALI”

 

L’allucinante delirio di Andile Mngxitama, leader del partito socialista rivoluzionario del Sudafrica, si scatena contro i cittadini bianchi: Li uccideremo tutti – urla dal podio – insieme ai loro figli, le loro donne, i loro cani, i loro gatti e tutto ciò che troveremo sulla nostra strada”.
Il BLF, partito di cui è a capo, ha una chiara – e peraltro del tutto ostentata – connotazione razzista e sta per “Black First”, cioè: “Prima i neri”. Slogan che ricalca un po’ quelli cari al presidente americano Donald Trump e al nostro attuale ministro degli interni Matteo Salvini, che però non esortano a uccidere e non si riferiscono alle etnie, ma ai propri Paesi e a chi li abita.

L’infuocato discorso del parlamentare è stato tenuto, lo scorso weekend, durante un appello rivolto ai propri sostenitori nella cittadina di Potchefstroom, sua terra natale, a sud-ovest di Johannesburg, provocando sconcerto e riprovazione sia da parte del pubblico, sia da parte dei media locali. “Per ogni africano ucciso – ha aggiunto Mngxitama – uccideremo cinque bianchi”. Questo recente exploit sciovinista avrebbe origine dalle proteste di molti conducenti di minibus africani che lamentano la concorrenza delle grosse aziende di trasporto pubblico, possedute da bianchi.
Alle molte e indignate voci di riprovazione, si è recentemente aggiunta l’istanza di deferire Andile Mngxitama, al Tribunale Penale Internazionale (ICC) per incitamento al genocidio e si attende ora la reazione della procura di tale organismo. Il fatto preoccupante è che la posizione assunta dal leader del BLF acquista un sempre più crescente supporto da parte della popolazione di colore che, per suo tramite, invoca, tra altre rivendicazioni, il sequestro delle terre possedute da sudafricani bianchi, così com’era a suo tempo avvenuto nello Zimbabwe a guida Mugabe.
Questi appelli alla violenza razziale verso gente, sì europei, ma che ormai da venti generazioni vive in Sudafrica e non ha più altri luoghi in cui rifugiarsi, ha già creato crude violenze contro i bianchi, soprattutto agricoltori, con devastazioni e vittime. Queste azioni, istigate con sempre più virulenza dal partito di Andile Mngxitama, stanno conoscendo un allarmante trend di crescita nei confronti del quale, almeno fino ad ora, non pare siano state adottate adeguate contromisure.
Il partito BLF si riconosce pienamente nell'ideologia marxista-leninista e persegue la supremazia delle popolazioni nere, su tutte le altre. Il suo percorso politico è costellato da iniziative e dichiarazioni esplosive, come quella rivolta, nel settembre scorso della portavoce Lyndsay Maasdorp, al giornalista Daniel Friedman, la cui esistenza, per il semplice fatto di essere bianco veniva definita “un crimine”. La stessa Maasdorp, non si faceva neppure scrupolo di affermare: “La nostra aspirazione è quella di uccidere tutti i bianchi che ci sono nel nostro Paese e questo traguardo dev'essere realizzato quanto prima”.
Anche i giornalisti, soprattutto bianchi, o comunque avversi alle posizioni del BLF, sono spesso soggetti a intimidazioni e aggressioni da parte di membri di questo partito. Tra i molti che ne hanno fatto le spese, ci sono: Tiso Blackstar, Tim Cohen e Peter Bruce editore del Business Day sudafricano, ma benché queste azioni siano state condannate dall'African Human Right Commission (SAHRC) e dal South Africa National Editor’s Forum (SANEF), il BLF continua indisturbato nelle sue azioni intimidatorie e non solo, ha anche avuto l’ardire di pubblicare una lista di giornalisti bianchi che costituirebbero i loro prossimi obbiettivi.

I bianchi tuttora presenti in Sudafrica, che verso la metà del secolo scorso rappresentavano circa il 22 per cento della popolazione totale, sono oggi scesi all’8 per cento, cioè poco più di quattro milioni d’individui di cui non pochi vivono in stato d’indigenza. Molti di quelli che se ne sono andati, si sono anche liberati delle attività che conducevano, cedendole alla popolazione locale. Il preoccupante sciovinismo che sta oggi dilagando tra la popolazione di colore, se non verrà affrontato con la necessaria fermezza, tradirà le lodevoli e illuminate aspirazioni di Nelson Mandela e del vescovo anglicano Desmond Tutu, verso una duratura riappacificazione nazionale.
By Africa Express

Dimostranti tentano di superare lo sbarramento di polizia per assaltare una fattoria di bianchi
Dimostranti tentano di superare lo sbarramento di polizia per assaltare una fattoria di bianchi
Il momento della manifestazione di Potchefstroom contro i bianchi. “La mia strada è quella del razzismo” recita il cartello innalzato dai sostenitori del BLF
Il momento della manifestazione di Potchefstroom contro i bianchi. “La mia strada è quella del razzismo” recita il cartello innalzato dai sostenitori del BLF


Il governatore di Nairobi Mike Sonko
Il governatore di Nairobi Mike Sonko

15 dicembre 2018
KENYA. IL GOVERNATORE DI NAIROBI CON LA PASSIONE PER IL RAP E LE AUTO PLACCATE D’ORO

 

Incontrandolo nei suoi momenti informali, si ha l’impressione d’incrociare uno dei facoltosi cantanti rapper del Bronx; stracarichi di ninnoli d’oro e con i capelli acconciati a foggia tribale. Invece, siamo in presenza della più alta carica della contea di Nairobi. Parliamo di Mbuvi Gideon Kioko Mike Sonko, o più comunemente “Sonko”, come tutti lo chiamano in Kenya, vocabolo addendo al nome anagrafico che sta per “persona molto facoltosa”. La stampa locale l’ha definito “The flamboyant governor” (il governatore fiammeggiante), soprannome che gli è stato attribuito a seguito della sua smisurata passione per il più regale dei metalli preziosi: l’oro.

Il quarantatreenne Mike Sonko è nato nel 1975 a Mombasa, ma è di etnia kamba e non fa certo mistero della sua ricchezza, anzi; si compiace di mostrarla in ogni possibile occasione, senza rilevare che alcuni aspetti di quest’attrazione verso il metallo giallo, sono molto più vicini all'ossessione che al semplice apprezzamento. Infatti, quasi tutto ciò che le sue mani toccano, dev'essere d’oro e non possedendo il magico tocco di Re Mida, è costretto a comprarselo. Così sono d’oro massiccio gli otto anelli (uno per dito esclusi i pollici) che indossa, i bracciali, le collane, i ninnoli vari e anche il suo cellulare personalizzato, d’oro puro a 24 carati, ma anche là dove sia costretto a rinunciare alla presenza del nobile metallo, richiede che sia quantomeno presente il suo colore. Così che beve e offre liquori di colore rigorosamente giallo, contenuti in bottiglie altrettanto gialle.
Pur se d’istruzione relativamente modesta (si fermò al diploma ottenuto presso la High School di Kwale) la carriera politica di Sonko iniziò all'età di trentacinque anni, con l’accesso al parlamento del Kenya. Quando nel 2010 fu varata la nuova riforma costituzionale, concorse per la carica di Senatore nella contea di Nairobi e vinse, sbaragliando a sorpresa tutti i suoi più titolati avversari. Sei anni dopo si candidò quale governatore della stessa contea e nelle controverse elezioni del 2017, strappò nuovamente la vittoria.
Fatto davvero singolare, la maggior parte dei voti, Sonko la ottenne proprio dai derelitti, abitanti dei bassifondi cittadini, che avrebbero dovuto vedere la sua ricchezza come un oltraggio alla propria miseria, ma si sa che il paradosso rappresenta una delle caratteristiche africane.
Questo consenso Sonko l’ottenne astutamente quando, nell'incarico precedente, formò una NGO (ONG in italiano) dedicata a fornire assistenza alle disagiate condizioni delle baraccopoli della capitale e ne conquistò così la preziosa riconoscenza. Oggi si può quindi permettere di attraversare gli slum a bordo di una delle sue cinque e lussuose auto personali, ricevendo gli applausi dei suoi sostenitori (incredibile a dirsi: pur essendo gli stessi "slum" non solo rimasti tali, ma con gran parte della popolazione sfrattata e le loro baracche in lamiera rase al suolo dai bulldozer governativi).
Questo parco auto è un’altra delle sue manifestazioni di eccelsa ricchezza. Si tratta di un Toyota land crusiser V8 interamente placcato d’oro; una Mercedes Benz turbo convertibile di 460 hp; un Range Rover sport V8 di 3600 cc; una Mercedes Benz AMG V12 di 620 hp, anche questa placcata in oro e infine quello che è ritenuto il più costoso e prestigioso dei fuori strada: l’Hummer H2, il modello più lussuoso di questa serie e come tale, riservato agli uomini più facoltosi del pianeta. Il video che riportiamo di seguito mostra uno spaccato dell’opulenza descritta.


Oltre a quanto elencato, vi sono poi le regali dimore che la famiglia Sonko possiede a Nairobi e a Mombasa i cui arredamenti e le preziose finiture, le rendono di valore inestimabile, ma allo sfarzo e all'ostentazione del governatore della capitale, pare voler rispondere il suo collega della costa, Ali Hassan Joho, a capo della contea di Mombasa, che scende nella tenzone con una altrettanto fiammante Ferrari California. Auto che sarà probabilmente destinata alla vetrina poiché viste le condizioni delle strade del Kenya, che, oltre alle immancabili buche, sono costellate ogni dove da aspri dossi artificiali, il guidarla anche solo per poche centinaia di metri, significherebbe mandarla immediatamente allo sfascio.

In questa sfacciata ostentazione di ricchezza, Sonko non è certo solo, lo supera largamente il suo vice presidente William Ruto, considerato l’uomo politico più corrotto del Kenya e lo uguagliano governatori e senatori delle altre contee.
I potenti d’Africa, si fanno così spudorata beffa dei propri concittadini, molti dei quali sono costretti a vivere di stenti. Tutto ciò dimostra, una volta di più, quanto, nel continente australe, il concetto di “Sovranità Popolare” resti un drappo meramente retorico per nascondere una realtà autocratica dove la classe dirigente divora indisturbata ogni risorsa, lasciando al popolo il ruolo di semplici, pur se spesso acquiescenti, sudditi.
By Africa Express

Osservazioni
L'Africa è povera. Ma i paesi africani non sono tutti poveri. È la distribuzione della ricchezza che crea problemi.
Ma gli africani dimenticano che corruzione, tribalismo, nepotismo, clientelismo, saccheggio delle casse dello stato, scarsa governance economica, depravazione della morale, mancanza di rigore e moralità... li covano in casa loro!
La questione è proprio questa, le nazioni che danno i natali a questa gente sono governate da corrotti (dal presidente, ai capi villaggio, all'ultimo disgraziato che intravede la possibilità di fregare il prossimo), i cui interessi sono esclusivamente potere e denaro.
Quelli che in questo articolo potete vedere sono i frutti della corruzione endemica nei paesi africani e il Kenya è al 1° posto tra le nazioni più corrotte dell’Africa, superando Nigeria, Somalia e Congo nel ranking continentale, ed al 6° posto nel mondo in questa speciale e disdicevole classifica.
A tutto ciò consegue il radicarsi del “mangia-mangia” generale in qualsiasi ambiente, anche tra la popolazione più povera che inevitabilmente non riesce a capire, visto il livello intellettivo, che è semplicemente destinata a rimanere tale. Proprio per questa ragione i cittadini rinnoveranno, con il voto, i mandati agli odierni loro rappresentanti o, comunque, ai pescecani di turno!

Nei primi anni trascorsi nell'Africa sub-sahariana anch'io provavo emozioni sia per gli animali che per quelle persone che "quotidianamente soccombono alla fame", per poi passare alla totale indifferenza per coloro che non vogliono neppur pensare ad un minimo cambiamento nel loro modo di vivere e di pensare, ma continuano pedissequamente a lamentare ingiustizie e soprusi da parte dei governanti da loro stessi eletti.
Ma questi "eletti", cari kenioti e africani in genere, sono la vostra stessa gente, sono quelli che prima soccombevano alla fame e tu, "migrante", sei uno di loro, sei come loro!
Come si addice ai codardi preferisci fuggire dalle sofferenze della tua gente, ma gli animali (il paragone calza a pennello) non possono sfuggire neppure all'odio che ancor oggi riversi ingiustamente su di loro.
Come conosco la tua gente, caro "migrante", conosco te! Non provi pietà non solo per gli animali, ma neppure per i tuoi simili.
La colpa, che secoli fa potevate attribuire alle tribù cannibali assetate di sangue che imperversavano nell'Africa sub-sahariana, agli arabi, ai portoghesi alle colonie europee, oggi è esclusivamente tua e di quei "morti di fame" della tua gente, come tu stesso, caro "migrante", spesso li definisci!
La vostra cultura o coltura (per voi è la stessa cosa) caro "migrante", si è ridotta a tal punto da coltivare persino ortaggi lungo le rive dei fiumi, dove gli ippopotami divorano ogni notte ormai da millenni oltre 50 kg di erba, per poi lamentarvi che questi eco sostenitori (perché di questo si tratta) vi mangiano l'insalata!
Di qualunque religione voi siate, cari "migranti", appartenete in gran parte al "popolo dei bestemmiatori": la credenza che "Dio creò gli animali affinché gli uomini potessero cibarsene"... è radicata in oltre l'ottanta per cento della popolazione dell'Africa sub-sahariana.
Qui non stiamo certo parlando di "somari", ma di "proto-umani" con 47 cromosomi, invece di 48 (inutile dire che l'uomo ne ha 46), nel loro corredo diploide. Paesi che non accettano l'idea di un possibile cambiamento, restando sempre più vincolati ad usanze tribali che lascio a voi lettori giudicare. Bambini sacrificati durante riti di stregoneria per ottenere benefici dagli spiriti, uomini trucidati per placare l’ira degli dei... e non vado oltre.

I "proto-umani" sono apparentemente normali, ma dentro di loro nascondono gli interrogativi più oscuri, più spaventosi che si possano concepire. Solo la loro specie è in grado di formulare queste domande e darsi risposte, quindi se non ne fate parte è inutile che vi esercitiate.
Guarda questi video e conoscerai le vere "bestie umane"!... l'ignoranza e l'indifferenza della popolazione!: agli occhi di un uomo occidentale tali usanze possono sembrare retaggio di secoli passati e di barbarie inaccettabili ma, come spesso accade, la realtà è purtroppo diversa Esecuzioni extragiudiziali di donne e bambini! - Il "Game Safari" praticato dai negri in tutto il sub-Sahara! - Cultura africana! - Ecco come i kenioti preparano la cena!.
"Aiutiamoli a casa loro!", o meglio... "Bastoniamoli a casa loro!", se non vuoi che domani il nigeriano defechi nel tuo piatto!

Leggi anche: Italia un Paese in balia della deriva del sudiciume

Le 11 proprietà più costose di Mike Sonko: palazzi, automobili, gioielli e molto altro.

Le 10 proprietà più costose di William Ruto che valgono miliardi!

TOP TEN KENYA. I 10 kenioti più ricchi del 2018!

Una delle auto di Sonko. Il Toyota Land Cruiser interamente placcato d’oro
Una delle auto di Sonko. Il Toyota Land Cruiser interamente placcato d’oro
La “casa vacanze” di Mike Sonko a Mombasa
La “casa vacanze” di Mike Sonko a Mombasa
La Ferrari California del governatore di Mombasa Ali Hassan Joho
La Ferrari California del governatore di Mombasa Ali Hassan Joho


Silvia Romano. La "cooperante" italiana ancora dispersa in Kenya
Silvia Romano. La "cooperante" italiana ancora dispersa in Kenya

 

 

 

 

9 dicembre 2018
KENYA. RISULTA ANCORA DISPERSA LA "COOPERANTE" ITALIANA SILVIA ROMANO

 

Clicca qui per gli articoli sul rapimento

 


Il presidente della Tanzania, John Magufuli, passa in rassegna la guardia d’onore a bordo della nave ospedale cinese attraccata a Dar es Salaam
Il presidente della Tanzania, John Magufuli, passa in rassegna la guardia d’onore a bordo della nave ospedale cinese attraccata a Dar es Salaam

4 dicembre 2018
TANZANIA. IL PRESIDENTE BACCHETTONE: “MOLTO MEGLIO GLI AIUTI CINESI DI QUELLI EUROPEI”

 

Benché l’Unione Europea sia stata finora il più importante partner dell’Africa Orientale, finanziando progetti per quasi 90 milioni di dollari l’anno, John Magufuli, presidente della Tanzania, ha pubblicamente dichiarato che, d’ora in poi, non si avvarrà più dell’aiuto europeo, ma a sostegno del proprio sviluppo, si rivolgerà esclusivamente alla Cina. L’eccentrico capo di Stato non ha neppure fatto mistero delle ragioni che hanno motivato la sua scelta: “L’Europa – ha detto – pretende di influenzare troppo le nostre scelte politiche come condizione per erogare gli aiuti”. In altre parole, ciò che Magufuli intende dire all’Europa è: ‘Se volete aiutarci, dateci i quattrini e fatevi i fatti vostri’.

In effetti, le recenti e controverse scelte politiche di Magufuli, hanno creato indignate reazioni in Occidente, dando luogo a intense pressioni sul suo governo perché le revocasse. Tra queste scelte c’è la persecuzione degli omosessuali, la restrizione dei diritti della società civile e l’esclusione dalla frequenza scolare delle ragazze incinte. A seguito di queste scelte, la Danimarca ha sospeso il suo programmato aiuto che ammontava a quasi 10 milioni di dollari e peggio ancora ha fatto la Banca Mondiale che ha congelato il prestito di 300 milioni di dollari da utilizzarsi per lo sviluppo del sistema educativo nazionale. Un analogo blocco di aiuti è attualmente all'esame della Commissione Europea.
L’irrigidimento delle posizioni occidentali, che da parte tanzaniana è quasi certamente visto come un ricatto e un’interferenza nella propria sovranità, ha fatto infuriare Magufuli, il quale, senza ricorrere a perifrasi, ha dichiarato di voler sviluppare rapporti sempre più intensi con Pechino, poiché “la Cina eroga i suoi aiuti senza legarli ad alcuna condizione, quando decidono di aiutarci, lo fanno e basta”. Il gigante asiatico, che è già il maggior investitore in Africa e ha recentemente promesso di investire ulteriori 60 miliardi di dollari nei prossimi tre anni, in aiuti e prestiti finalizzati allo sviluppo d’infrastrutture, si starà certamente fregando le mani alle parole di Magufuli.

Intanto, in Tanzania, la persecuzione dei gay continua e si fa, anzi, sempre più truculenta, arrivando addirittura a creare una “Anti Gay Force”, con lo scopo d’individuare gli omosessuali e arrestarli. Il recente invito di Paul Makonda, capo della polizia di Dar es Salaam, rivolto alla popolazione affinché denunci ogni attività omosessuale di cui sia a conoscenza, richiama alla mente le squallide pratiche delatorie in atto nel defunto regime sovietico. Magufuli non fa passi indietro neppure nei confronti delle ragazze incinte cui ha negato l’accesso all'istruzione. Irridendo la loro condizione, ha detto: “immaginate con quale attenzione potranno seguire le lezioni, ogni tanto dovranno chiedere il permesso all'insegnate per uscire e allattare il figlioletto”***

Questo entusiasmo dei leader africani verso il nuovo partner asiatico, mostra ancora una volta come il progetto cinese di conquista del continente, sia attuato con estrema spregiudicatezza. La tutela dei diritti umani, la lotta alla corruzione, l’affermazione della legalità, non sono tra gli obiettivi di Pechino e questo non può che deliziare la classe dirigente africana che si sente libera di agire come le pare, senza subire le fastidiose pressioni che riceveva dall'Occidente. La Cina, intanto, ingigantisce il volume del proprio credito che, quando non può essere onorato, viene rimpiazzato dalla cessione da parte africana delle proprie strutture strategiche, com'è avvenuto in Zambia e come c’è il rischio che avvenga presto anche in Kenya.

Il senso di potere, che la compiacenza cinese favorisce a vantaggio delle leadership africane, induce queste ultime ad assumere atteggiamenti sempre più protervi, come quello espresso da Magufuli che, interrogato sulla questione delle adolescenti incinte, escluse dalla frequenza scolare, ha usato toni di sprezzante ironia, senza curarsi di come e da chi queste adolescenti sono state ingravidate e fingendo anche di ignorare che molte di loro hanno subito violenza sessuale, proprio all'interno della struttura educativa, quando non addirittura dagli stessi insegnanti cui erano affidate.
By Africa Express

*** In Tanzania un quarto delle ragazze tra quindici e diciannove anni sono incinte o hanno già partorito un bimbo.
Ovviamente è solo colpa delle ragazze e la risposta del governo è dura e senza appello: espulsione dalle scuole pubbliche!
E il presidente John Magufuli ha rincarato la dose: “Se resti incinta, hai finito”. Un parlamentare che ha osato criticare il pensiero di Magufuli è stato arrestato con l’accusa di aver insultato il presidente. Alle giovanissime non resta che iscriversi ad una scuola privata, ma la maggior parte delle famiglie non dispongono dei mezzi necessari per pagare la retta.
In Tanzania la percentuale delle ragazze gravide è ben più elevata che nel vicino Kenya, dove alle ragazze madri è permesso di continuare gli studi. Secondo un’indagine governativa, l’undici per cento delle giovani restano incinte dopo uno stupro, ma sono ugualmente costrette ad abbandonare la scuola.
La Tanzania non è l’unico Stato africano a punire così duramente le studentesse madri; la Guinea Equatoriale e la Sierra Leone applicano le stesse regole. Per le giovani donne una gravidanza non voluta rappresenta spesso la fine dei loro sogni. Alcune si sottopongono ad aborti clandestini, altre si sposano, le più finiscono a fare i lavori più umili o sono costrette a prostituirsi per sopravvivere.

Il complesso della residenza presidenziale della Tanzania a Dar es Salaam
Il complesso della residenza presidenziale della Tanzania a Dar es Salaam
Questa bimba gravida, appena tredicenne, per ordine presidenziale sarà esclusa dalla frequenza scolastica
Questa bimba gravida, appena tredicenne, per ordine presidenziale sarà esclusa dalla frequenza scolastica
Uno degli avveniristici progetti cinesi in Tanzania. Il treno ad alta velocità completamente sopraelevato
Uno degli avveniristici progetti cinesi in Tanzania. Il treno ad alta velocità completamente sopraelevato


Villaggio distrutto nella provincia di Cabo Delgado, nord del Mozambico
Villaggio distrutto nella provincia di Cabo Delgado, nord del Mozambico

27 novembre 2018
MOZAMBICO. QUATTORDICI TRUCIDATI A COLPI DI MACHETE IN DUE ATTACCHI JIHADISTI

 

Il terrorismo jihadista nel nord del Mozambico continua a uccidere nei villaggi isolati. Giovedì scorso, 22 novembre, un ennesimo attacco del gruppo, che i mozambicani chiamano al Shabaab, ha seminato morte e distruzione in un villaggio di Cabo Delgado, nell'estremo nord dell’ex colonia portoghese.

Uomini armati di machete, durante la notte, sono entrati a Chicuaia Velha, nel distretto di Nangade, a pochi km dal confine con la Tanzania, e hanno massacrato almeno dodici persone a colpi di machete e coltelli.
A coloro che non aprivano la porta i terroristi hanno incendiato la casa distruggendo una quarantina di abitazioni dentro le quali ci sono stati morti e feriti. Alcuni testimoni hanno raccontato ai media locali che, tra le vittime, la maggior parte sono donne e bambini.
Al momento dell’attacco il villaggio non aveva alcuna protezione delle forze di sicurezza mozambicane. Fonti locali raccontano anche di un altro attacco jihadista, sempre con il machete, il giorno precedente: erano state uccise due persone che lavoravano nei campi.

Gli attacchi jihadisti a Cabo Delgado sono iniziati nell'ottobre 2017 con l’assalto a due posti di polizia. Sono continuati poi a villaggi indifesi causando oltre un centinaio morti, molti dei quali decapitati.
Nell’ultimo mese, secondo il giornale online Club of Mozambique, ci sono stati tre attacchi attribuiti ad al Shabaab, con venti morti e una cinquantina di case distrutte.
La zona degli ultimi brutali attacchi jihadisti è al centro di un’area strategica per il Mozambico. A un centinaio di chilometri a est c’è il complesso industriale offshore di Palma, dove si trova il più grande giacimento di gas naturale del Paese e vi operano ENI/ExxonMobil e la texana Anadarko.
Dalla parte opposta, 150 km a ovest, c’è la una delle Niassa Hunting area mentre a circa trecento km a sud del distretto di Nangade è situato il più grande giacimento di rubini del mondo.

Un’indagine sull'estremismo islamico in Mozambico ha rivelato che parte dei fondi delle cellule eversive jihadiste che operano a Cabo Delgado provengono da contrabbando di avorio, rubini e legno pregiato.
Questo business, soprattutto dell’avorio, è sotto il controllo di élite tanzaniane, somale e keniote in collegamento con imprenditori cinesi e vietnamiti dei quali le autorità mozambicane non riescono a individuare le tracce.
By Africa Express

Mappa del Nord Mozambico con il distretto di Nangade e le aree strategiche
Mappa del Nord Mozambico con il distretto di Nangade e le aree strategiche

Caschi blu di MONUSCO
Caschi blu di MONUSCO

16 novembre 2018
CONGO-K. UCCISI 7 CASCHI BLU MENTRE L’EBOLA CONTINUA LA SUA FOLLE CORSA

 

Il Nord-Kivu è ancora teatro di terribili violenze. I sanguinari miliziani di Alliance of Democratic Forces (organizzazione islamista terrorista ugandese, operativa anche nel Congo-K dal 1995) hanno brutalmente ammazzato sette caschi blu della Missione ONU nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO).

L’ONU ha annunciato la morte di sei soldati malawiani e uno tanzaniano sul proprio account Twitter e il segretario generale, António Guterres, ha condannato con veemenza l’assassinio dei militari di MONUSCO e ha chiesto a tutti gruppi armati di cessare le loro attività destabilizzanti, che aggiungono altro dolore alla popolazione già colpita da una grave epidemia di ebola.

Secondo una prima ricostruzione dei fatti, altri dieci caschi blu sono stati feriti, mentre uno risulta disperso. Anche diversi soldati delle forze armate congolesi sono stati uccisi. Il portavoce del segretario generale, Stéphane Dujarric, ha fatto sapere che Guteress ha chiesto alle autorità congolesi di catturare e di consegnare alla giustizia gli autori di questi vili attacchi contro i civili, le forze di sicurezza nazionali e i caschi blu dell’ONU.
Finora ADF non ha rivendicato l’attacco e suoi miliziani si sono nuovamente ritirati e nascosti nella fitta giungla, da dove spuntano all'improvviso per compiere nuovi attentati, ad uccidere sopratutto civili e saccheggiare e incendiare le loro povere case. Le incessanti e sanguinose incursioni potrebbero mettere a rischio le elezioni presidenziali del 23 dicembre prossimo.

Nelle province di Ituri e del Nord-Kivu, in particolare l’area di Beni, dove sono accaduti gli scontri, il mortale virus ebola continua a mietere vittime. La decima epidemia risulta essere la peggiore nella storia del Paese. La situazione attuale è drammatica.
Le persone contagiate sono 303, casi certi confermati, e 37 probabili. Le morti accertate 215.
Nelle zone colpite dalla febbre emorragica sono state vaccinate oltre trentamila persone e anche l’Uganda ha iniziato ad immunizzare il personale sanitario nelle aree al confine con il Congo-K. Lo ha reso noto il ministero della Salute di Kampala qualche giorno fa.

Gli scontri, le incursioni dei miliziani rendono difficile e pericoloso il lavoro degli operatori sanitari nei territori interessati. Il virus continua ad espandersi ed è assai complesso riuscire ad arrestare la sua corsa; ciò è dovuto da svariati fattori: la presenza nella zona di gruppi armati causano lo spostamento continuo della popolazione; l’ostruzionismo di alcune comunità; le aggressioni che subiscono gli addetti ai lavori da parte dei familiari dei morti.
By Africa Express


Cittadini di Nairobi protestano contro le uccisioni illegali della polizia
Cittadini di Nairobi protestano contro le uccisioni illegali della polizia

15 novembre 2018
KENYA. AGENTI DI POLIZIA BRUTALI PISTOLERI CON LICENZA DI UCCIDERE

 

Così afferma l’ultimo rapporto dell’ICPC (International Centre for Police and Conflict), un organismo indipendente creato a Nairobi nel 2005, che si occupa di monitorare le attività delle forze di sicurezza in quanto a trasparenza e legalità. Secondo quanto rilevato dall’ICPC, i poliziotti del Kenya agirebbero sistematicamente al di fuori della legalità arrogandosi la libertà di uccidere chiunque, a proprio giudizio, grazie alla tacita concessione dell’impunità che, nei fatti, viene loro garantita.

Nel suo rapporto l’ICPC, non lesina pesanti accuse alle autorità di polizia e agli organi governativi che dovrebbero controllarne l’operato. “Gli agenti di polizia – si legge nel testo – si sostituiscono all'autorità giudiziaria e uccidono a proprio giudizio, senza un procedimento che attesti la responsabilità delle loro vittime. Possono farlo perché sono certi dell’impunità ed è solo in rari casi che si apre un procedimento contro di loro, quando le loro azioni vengono filmate da altri cittadini, ma anche in quelle circostanze, le condanne inflitte, hanno raramente seguito nella realtà”.
L’accusa si estende ai vertici del corpo, fino a coinvolgere lo stesso ispettore generale Joseph Boinnet, che – sempre secondo l’ICPC – avrebbe ripristinato “la stessa insindacabile brutalità concessa agli agenti del vecchio organico della Special Branch”. Ciò significa che le forze di polizia non si curano neppure di redigere rapporti, quando i loro interventi si concludono con l’uccisione di qualcuno e solo quando i media ne chiedono conto, la risposta è invariabilmente la stessa: “I nostri agenti sono stati attaccati e hanno risposto al fuoco”.

Il rapporto dell’ICPC è lungo e a tratti anche un po’ retorico perché indugia oltre il necessario su aspetti etici e moraleggianti che la chiara illegittimità degli eventi denunciati, rendeva già di per sé sufficientemente superflui. Tuttavia, a sostegno delle gravi accuse avanzate, l’ICPC non si cura di fornire nessun esempio fattuale, né riferisce specifici eventi su cui abbia raccolto prove necessarie ad avvalorarli. Del resto che la polizia del Kenya abbia, a livello internazionale, una fama piuttosto discutibile, è confermato anche da WISPI (World Internal Security and Police Index) che la qualifica come “la terza polizia peggiore del mondo”.

Ma l’aspetto più inquietante è la sfrontata arroganza della polizia che, in pieno giorno, si sente così onnipotente e intoccabile da poter compiere una strage davanti a dozzine di testimoni che sostengono "le vittime erano disarmate e non avevano opposto alcuna resistenza all'arresto, obbedendo docilmente all'ordine di sdraiarsi a terra", certa di non doverne pagare le conseguenze.

Nairobi. L’uomo a terra sta per morire con la testa fracassata dallo stivale del poliziotto
Nairobi. L’uomo a terra sta per morire con la testa fracassata dallo stivale del poliziotto
Un altro esempio di brutalità da parte della polizia del Kenya
Un altro esempio di brutalità da parte della polizia del Kenya


Un giovane nigeriano, circondato da rifiuti, scarica il proprio intestino in un corso d’acqua. Questa immagine è tutt'altro che rara nel grande Paese africano
Un giovane nigeriano, circondato da rifiuti, scarica il proprio intestino in un corso d’acqua. Questa immagine è tutt'altro che rara nel grande Paese africano

13 novembre 2018
NIGERIA. LA POPOLAZIONE VA DI CORPO IN PUBBLICO E ATTENTA AL PRIMATO MONDIALE DELL’INDIA

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) stima in 47 milioni i nigeriani che liberano disinvoltamente le proprie viscere in pubblico, nel momento in cui tale bisogno si manifesta. Vale a dire che un quarto dell’intera popolazione del Paese sparge le proprie feci ovunque: nei cortili degli edifici residenziali, nelle stazioni di servizio, nei parcheggi auto, nei terminali degli aeroporti, lungo i percorsi pedonali, ai margini delle strade di grande comunicazione, nei parchi pubblici, nei corsi d’acqua, all'interno dei luoghi di culto, negli stadi, nelle vie cittadine e in ogni altro luogo in cui si trovino.

Oltre ad aver polverizzato il precedente primato del Ghana e aver quindi conquistato la leadership africana, in quanto a distribuzione di cacca nel suolo pubblico, la Nigeria mette anche a rischio il titolo della capolista mondiale, al momento detenuto dall'India, con l’aggravante che mentre il grande Paese asiatico registra un progressivo calo in questa riprovevole abitudine, la Nigeria conferma, invece, un costante incremento. Va inoltre precisato che, pur se con i suoi 892 milioni di persone che praticano l’ODF (Open Defecation Free) l’India supera in valori assoluti la Nigeria, quest’ultima mostra un’incidenza del 25 per cento sul totale degli abitanti, contro il solo 12 per cento dell’India.

Queste pratiche, che potrebbero solo suscitare battutine ironiche venate di un po’ di disgusto, sono invece una vera e propria calamità per i Paesi che ne sono afflitti. La Nigeria spende l’incredibile somma di oltre un miliardo di euro ogni anno per affrontare i problemi sanitari derivanti dalle infezioni contratte a seguito dell’inquinamento che l’abbondanza di feci umane causa nell'ambiente e malgrado questo costo spropositato, che grava sul bilancio nazionale, l’Unicef denuncia che oltre 122 mila persone, di cui 87 mila bambini, muoiono ogni anno proprio a causa delle carenze igienico-sanitarie che il paese non riesce a sconfiggere.
Una delle cause di queste morti, è da attribuire all'inefficiente gestione del problema da parte delle autorità competenti. È infatti comune assistere, per le strade di Lagos, a persone che vendono alimenti, dormono, mangiano e bevono accanto a maleodoranti feci umane. Manca un progetto educativo che agisca, non tanto su principi di decenza, verso i quali (come si vedrà più avanti) i cultori di questa pratica mostrano scarsa sensibilità, quanto sui pericoli di infettarsi, ammalarsi e anche morire. Le cause principali, però, di questa perturbante abitudine, risiedono nelle abitudini e nella filosofia di vita dei cittadini, secondo i quali, i naturali bisogni corporei, meritano di essere soddisfatti senza condizionamenti di carattere etico o di bon ton convenzionale.
È quindi un fatto di “cultura”, di credenze e anche di superstizione. È pur vero che povertà e scarsa educazione scolare, giocano su questo fenomeno un ruolo non secondario, così com'è vero che il governo l’ha lungamente sottovalutato non provvedendo un adeguato numero di toilette pubbliche, ma come ha rilevato un’indagine del quotidiano nigeriano Vanguard News, anche là dove si disponga di servizi igienici residenziali, l’attitudine a defecare all'aperto pare mantenersi irresistibile. Lo provano le dichiarazioni rilasciate da Emeka Agwueny, un cittadino di elevata cultura e condizione sociale, il quale ha candidamente confessato al Vanguard, che lui non se la sente di fare i suoi bisogni in una piccola stanza chiusa, così, ogni volta che ne ha l’occasione, li fa in uno spazio aperto. “E’ un senso di appagamento – ha detto Emeka – una conquista di libertà e di gioia”.
C’è poi anche il dovere di rispettare le regole tradizionali, secondo cui “porta male, per un uomo, usare gli stessi servizi igienici che sono anche utilizzati da una donna ancora in età da poter procreare”. Difficile trovare un senso in questa proibizione, ma tutto ciò aiuta a capire come e perché in Nigeria si defechi ovunque si voglia, senza imbarazzo e senza vergogna. Del resto gli abitanti d’Europa, nelle loro rispettive città, stanno già facendo vasta esperienza dell’attitudine africana a liberare le proprie viscere all'aperto e pur trattandosi di un’abitudine che va certamente avversata, fa anche comprendere come non vi sia, nella sua esecuzione, alcun volontario intento oltraggioso verso il paese ospitante, ma solo la semplice continuazione di un’atavica pratica appresa in patria. Se quindi noi ci sorprendiamo di vederli nell'adempimento di queste funzioni, loro si sorprendono per la nostra sorpresa.

Il problema sanitario comunque rimane e vista la tendenza nigeriana a incrementare questa abitudine, tutti gli organismi internazionali World Bank, Unicef e WHO, lanciano un pressante e continuo allarme che, fino ad ora, pare non aver riscosso l’attenzione che merita. Le feci umane, inquinano i corsi d’acqua, i quali, soprattutto nelle zone rurali, provvedono l’acqua da bere, mentre gli elementi patogeni, sviluppatesi nelle feci e diffuse da insetti o favorite da scarso rispetto di basilari norme igieniche, finiscono per infettare la popolazione, soprattutto i bambini, trasmettendo gravi patologie, quali dissenteria, colera, tifo e tracoma.
By Africa Express

Una giovane madre nigeriana raccoglie acqua infetta per destinarla agli usi domestici
Una giovane madre nigeriana raccoglie acqua infetta per destinarla agli usi domestici
Abuja capitale della Nigeria. È  triste che la 'defecazione aperta' sia ancora una grande sfida nel Paese
Abuja capitale della Nigeria. È triste che la 'defecazione aperta' sia ancora una grande sfida nel Paese
Le drammatiche condizioni igieniche di una strada sommersa dai rifiuti in Nigeria
Le drammatiche condizioni igieniche di una strada sommersa dai rifiuti in Nigeria
Calcutta. In India la defecazione in compagnia è un’occasione per socializzare
Calcutta. In India la defecazione in compagnia è un’occasione per socializzare


La bella, ma molto pericolosa, città di Cape Town (Città del Capo) in Sudafrica
La bella, ma molto pericolosa, città di Cape Town (Città del Capo) in Sudafrica

10 novembre 2018
OMICIDI IN AFRICA. MAGLIA NERA A LESOTHO E SUDAFRICA, I PIÙ PROBI BURKINA FASO E MAROCCO

 

Secondo il rapporto diffuso dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), insieme ad altri istituti di monitoraggio internazionale, il Paese africano in cui si commettono più omicidi è il Lesotho dove, nel 2015 (mancano dati più recenti) sono state uccise 897 persone. Una cifra che potrebbe apparire non eccessiva, ma se si considera che gli abitanti del Lesotho superano di poco i due milioni, si ottiene il rapporto di 41,25 persone uccise ogni centomila abitanti. Occorre anche precisare che parliamo di omicidi, quindi di uccisioni volontarie e non derivanti da cause accidentali.
Questa realtà del Lesotho non manca di sorprendere poiché si tratta di una piccola nazione che, con una superficie di 30.300 chilometri quadri, è poco più grande del nostro Piemonte. È un Paese povero, ma non il più povero del continente e ha due importanti peculiarità: non ha accesso al mare, è interamente contenuto all'interno del Sudafrica ed è situato a 1.800 metri di altitudine per la sua intera superficie, cosa che gli fa meritare il titolo di Paese più alto del mondo. Una popolazione di due milioni di persone, prevalentemente di etnia bantu, dovrebbe essere piuttosto facile da controllare e invece, questa minuscola nazione, raggiunge il poco invidiabile primato africano per il più alto numero di delitti.

Nel rapporto di omicidi commessi ogni 100 mila abitanti, il Lesotho è seguito dal Sudafrica che conquista l’indice di 33,97 riferito però a una popolazione di 53 milioni di abitanti. L’apice territoriale di questi crimini si raggiunge nella città di Cape Town che, solo nella sua area urbana, conta un totale di 2.500 omicidi l’anno, vale a dire quasi sette uccisioni il giorno, facendo salire la splendida città costiera alla vetta della triste classifica continentale e piazzandola anche al terzo posto, tra le città più pericolose del mondo, dopo Caracas (Venezuela) e Fortaleza (Brasile), ma il dato che più preoccupa è che in quanto a incremento di omicidi, il Sudafrica esprime la più alta tendenza mondiale, prefigurando un futuro ben poco rassicurante per un Paese che un tempo richiamava investimenti da ogni parte del mondo.
A ventotto anni dalla fine dell’apartheid, l’auto-gestione messa in atto dal Sudafrica è stata del tutto deludente. La popolazione all'interno degli slum è rimasta povera come lo era prima e per giunta, è oggi afflitta da un livello di corruzione che non ha precedenti nella sua storia. Si è riaccesa la feroce rivalità tra l’etnia zulu e quella xhosa. Il popolo, tradito nelle sue attese, sta ora rivolgendo la propria rabbia anche verso i bianchi presenti nel Paese, attuando una discriminazione a rovescio che costringe i più facoltosi di loro a ritirare i propri investimenti e ad andarsene, mente molti di quelli che restano, si trovano a vivere in condizioni di estrema povertà. Pur se il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Paese ha continuato a crescere, cresce anche la disoccupazione, offrendo cosi un chiaro allineamento alla deprecabile patologia delle leadership africane, di fare incetta delle risorse nazionali.

Un segnale confortante in questo deludente panorama africano, lo forniscono invece Burkina Faso e Marocco che si attestano rispettivamente sui valori di 0,37 e 1,24 omicidi ogni centomila abitanti, mentre, riferendosi alla sola Africa sub-sahariana, è anche apprezzabile l’indice dell’1,24 fornito dal Ghana. Il risultato del Burkina Faso è certamente inaspettato, viste le continue incursioni dei gruppi jihadisti che si alternano alla brutalità delle forze di sicurezza governative, mentre nel Marocco, l’efficienza della polizia e la pacifica attitudine degli abitanti, fanno solo registrare azioni di microcriminalità, presenti in quasi tutti i Paesi del mondo. Infine, per quanto riguarda il Ghana, il lodevole intento messo in atto dal governo di garantire legalità e sviluppo, è già stato largamente commendato da quasi tutti gli organismi internazionali che l’hanno più volte additato all’Africa come il modello da seguire per la propria emancipazione sociale ed economica.
By Africa Express

La città di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso
La città di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso
Veduta di Maseru, capitale del Lesotho. La serenità che ispira questa immagine è in forte contrasto con la realtà che la vede capolista africana negli omicidi
Veduta di Maseru, capitale del Lesotho. La serenità che ispira questa immagine è in forte contrasto con la realtà che la vede capolista africana negli omicidi


Mappa dei Paesi che compongono l’Africa subsahariana altrimenti detta “Africa nera”
Mappa dei Paesi che compongono l’Africa subsahariana altrimenti detta “Africa nera”

4 novembre 2018
AFRICA SUB-SAHARIANA. 500 MILIONI DI ABITANTI FANTASMA

 

Un recente rapporto della Banca Mondiale, stima che nell'Africa sub-sahariana – quella comunemente definita “Africa nera” – vi siano circa 500 milioni di persone che non risultano censite e neppure possiedono un atto di nascita. Si tratterebbe quindi di abitanti fantasma che, per le competenti autorità governative, è come se non esistessero.
Questo dato appare alquanto stupefacente, poiché i rilievi effettuati dall'ONU, per l’anno 2006, stimavano che l’Africa sub-sahariana contasse 800 milioni di abitanti, i quali, in forza dell’incremento demografico medio del 2,3 per cento, avrebbero raggiunto nel 2050 il numero di 1,5 miliardi. Non è chiaro se questi dati comprendono i 500 milioni che la Banca Mondiale denuncia come “fantasma”, o se questi 500 milioni vadano aggiunti a quelli stimati dall'ONU, ma si tratta in ogni caso di cifre sbalorditive che mostrano quanto poco controllo i governi africani, riescano a esercitare sulla consistenza anagrafica dei propri popoli.

In quasi tutti i paesi dell’area in questione, non esiste un sistema atto ad appurare il numero di abitanti per area geografica, attraverso una regolare registrazione alla nascita. Molto spesso questa nascita non è neppure denunciata, soprattutto quando la paternità appare incerta. Questo fa sì che, specialmente nelle aree rurali, centinaia di migliaia di persone vivano in incognito, del tutto prive d’istruzione e di documenti che certifichino la loro esistenza: atti di nascita, carte d’identità, tessere sanitarie e quant'altro necessario per essere considerati membri della società cui appartengono. Ne consegue che tutte queste persone, si arrabatteranno al meglio per sopravvivere, agendo più spesso nell'illegalità e ritenendosi protetti dal fatto che – almeno ufficialmente – non esistono.
Ma anche laddove la dichiarazione di nascita sia regolarmente effettuata, questa non consentirà comunque di conoscere il luogo di residenza dove, in caso di necessità, il cittadino potrà essere rintracciato. Di lui, si saprà solo che è nato in un certo giorno, in un certo villaggio, ma se commettesse un crimine e volesse sottrarsi alla giustizia, gli basterà trasferirsi in una zona lontana da quella d’origine per far completamente perdere le proprie tracce. Questa situazione, se facilita la possibilità per i malintenzionati di rifugiarsi nell'anonimato, è spesso risultata utile anche a influenti uomini politici nell'attuare strategie per giungere al potere.
By Africa Express


Gay in Tanzania
Gay in Tanzania

1 novembre 2018
TANZANIA. CACCIA AGLI OMOSESSUALI

 

È di nuovo in atto un’efferata campagna contro gli omosessuali in Tanzania. Paul Makonda, governatore di Dar Es Salaam, la capitale economica del Paese, ha chiesto ai cittadini di denunciare tutti gli omosessuali e ha promesso che a partire della prossima settimana saranno effettuati i primi arresti.
Makonda, membro del partito al potere, il Chama Cha Mapinduzi (CCM) e molto vicino al presidente John Magufuli – anche lui ben noto per la sua ostilità nei confronti di gay e lesbiche – ha dato per certo che in tutta la provincia vivono molti omosessuali e ha precisato: “Si vantano persino della loro omosessualità sui social network”.

Il governatore ha già formato un team ad hoc per dare la caccia a chi ha abitudini sessuali condannate dalle leggi. La squadra è composto da diciassette membri tra funzionari di Tanzania Communications Authority, poliziotti e esperti di comunicazione; dovranno spulciare gli account dei social network per identificare tutti coloro impegnati in una relazione con persone delle stesso sesso. Secondo Makonda, l’omosessualità calpesterebbe i valori morali dei tanzaniani, dei cristiani e musulmani, le due religioni maggiormente praticate nell'ex protettorato britannico. L’amico di Magufuli mette in conto eventuali critiche da parte di alcuni Stati stranieri per l’applicazione di queste leggi draconiane, ma preferisce essere giudicato dagli uomini piuttosto che offendere Dio.
Saranno censiti non solo gli omosessuali, ma anche coloro che hanno foto osé nei propri cellulari, perché anche la pornografia è punita severamente. Makonda ha avvisato tutti cittadini di rimuovere quanto prima istantanee “indecenti” dai propri smartphone.

L’omosessualità in Tanzania è considerata un grave reato ed è punibile da trent'anni di galera fino all'ergastolo. La società non accetta gay e lesbiche, che quindi sono costretti a vivere in clandestinità. Fino a qualche anno fa le autorità tanzaniane erano più tolleranti rispetto ad altri Paesi africani e ignoravano praticamente le comunità gay. La politica è cambiata nel 2015, dopo l’elezione dell’attuale presidente, che nel giugno 2017 aveva persino affermato: “Persino le vacche deplorano l’omosessualità”. Il giorno dopo il governo aveva minacciato di espulsione tutti gli stranieri che promuovono campagne in favore di gay e lesbiche. In ottobre le minacce si sono tradotte in fatti con il rimpatrio forzato di tre sudafricani, accusati di aver incoraggiato matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Già nel febbraio dello stesso anno le autorità competenti avevano chiuso quaranta centri di salute privati che garantivano servizi nel settore dell’infezione HIV – AIDS, con l’accusa di aiutare gli omosessuali.
A settembre 2017 il viceministro della Salute aveva chiesto in Parlamento di combattere l’omosessualità e i gruppi che la sostengono con tutte le forze. Inoltre, da luglio 2016 è vietata l’importazione e la vendita di lubrificanti sessuali, che, sempre secondo il ministro della Sanità, incoraggerebbero l’omosessualità, che a sua volta sarebbe fonte di infezione da HIV/AIDS.

E a Zanzibar, l’isola della Tanzania con una status di semi autonomia, abitata per lo più da cittadini di fede islamica, sono state persino arrestate venti persone, dodici donne e otto uomini, sospettate di essere omosessuali. Nell'autunno dello scorso anno le forze dell’ordine avevano fatto irruzione nell'albergo dove questo gruppo di persone seguiva un corso di prevenzione contro l’infezione da HIV / AIDS, tenuto da un’organizzazione non governativa, perché, secondo il ministro della Salute, Ummy Mwalimu, alcune ONG userebbero le cliniche private per promuovere il sesso tra gay.
Inoltre, da luglio 2016 è stata vietata l’importazione e la vendita di lubrificanti sessuali, che, sempre secondo il ministro della sanità, incoraggerebbero l’omosessualità, che a sua volta sarebbe fonte di infezione da HIV/AIDS.

Molti Paesi africani, in particolare le ex colonie britanniche, che puniscono gli omosessuali, sono ancora condizionati da una morale di derivazione vittoriana, ovvero inglese... ma del secolo scorso.
In trentotto Paesi africani l’omosessualità è considerata un crimine. In alcuni di essi come Mauritania, Sudan e Somalia è punibile con la pena di morte, grazie all'applicazione della sharia.
By Africa Express


Decima epidemia di ebola in Congo-K
Decima epidemia di ebola in Congo-K

30 ottobre 2018
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO (Congo-Kinshasa o Congo-K). CENTOSETTANTA MORTI DI EBOLA E TRA LORO MOLTI BAMBINI

 

Recentemente sono morti ventisette bambini di ebola, tutti al di sotto dei dieci anni. L’epidemia della febbre emorragica, che ha colpito le province Nord-Kivu e Ituri, continua mietere vittime; domenica scorsa il ministero della Sanità di Kinshasa ha segnalato sei nuovi decessi in soli due giorni. Dal 1° agosto ad oggi la situazione nel Congo-K è la seguente:
Persone contagiate: Duecentosettantaquattro
Decessi: centosettanta
In particolare a Beni, nella provincia del Nord-Kivu, molti bambini avrebbero contratto l’ebola nelle “cliniche” tradizionali dei guaritori, mentre erano in cura per la malaria. Purtroppo questi centri non rispettano le norme di igiene imposte dalle autorità. Secondo quanto riportato, utilizzerebbero gli stessi dispositivi e strumenti sanitari per tutti malati, così che i piccoli pazienti, subito dopo la terapia antimalarica, si sono ammalati di febbre emorragica e sono morti pochi giorni dopo. Queste pratiche ovviamente aggravano la situazione in quest’area, considerata ormai l’epicentro della malattia.

Il virus si espande ed è difficile arrestare la sua corsa. Ciò è dovuto a diversi fattori: la presenza nella zona di gruppi armati che causano lo spostamento continuo della popolazione, l’ostruzionismo di alcune comunità, le aggressioni che subiscono gli operatori sanitari da parte dei familiari dei morti.

Ieri sono state uccise nuovamente sei persone, altre due sono state sequestrate a Mangboko, villaggio poco lontano da Beni. Secondo quanto riportato da alcuni testimoni oculari, miliziani del gruppo armato Alliance of Democratic Forces (organizzazione islamista terrorista ugandese, operativa anche nel Congo-K dal 1995) avrebbero ucciso tre donne e tre uomini, dopo aver incendiato e saccheggiato parecchie case e un deposito di olio.

Secondo Mike Ryan, un assistente del direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è la prima volta che si affronta un’epidemia di ebola in una zona di conflitto. E ha aggiunto: “Il Nord- Kivu è uno delle zone più pericolose del Congo, le forze di sicurezza devono affrontare quasi quotidianamente attacchi da diversi gruppi armati attivi nella provincia”.

La settimana scorsa il team di Ryan ha dovuto interrompere temporaneamente l’attività a Beni, dopo l’uccisione di quindici persone. Un fatto simile si era già verificato il mese scorso e ogni volta che viene sospeso il monitoraggio, aumentano i malati.

Per combattere l’ebola bisogna circoscrivere il contagio e per questo è necessario abbattere barriere culturali che fanno ostruzionismo contro, per esempio, la sepoltura corretta dei cadaveri, la registrazione degli ammalati, l’autorizzazione a seguire attentamente chi è venuto in contatto con la malattia.
Ebola è un microrganismo dalla famiglia dei filovirus. A sua volta il virus è suddiviso in quattro sottotipi che prendono in nome dalla zona dove sono stati identificati la prima volta: Zaire, Sudan, Costa d’Avorio e Reston. L’incubazione della malattia è di 7-10 giorni, poi esplode con febbre acuta, cefalea, mialgia, stato di progressiva spossatezza, associata ad esantema, shock e manifestazioni emorragiche cutanee e mucose.
Più il virus si moltiplica, più attacca gli organi interni che vengono distrutti e praticamente disintegrati. Intervengono vomito inarrestabile, rosso e nero, diarrea rossa e delirio totale. Il viso e il corpo si coprono di macchie scarlatte purulente (anche Edgard Allan Poe, ma con la fantasia, nel suo racconto “La maschera della morte rossa”, aveva descritto una malattia simile). Alla fine tutti gli organi esplodono e l’ammalato muore tra indicibili sofferenze.
By Africa Express

 

Vedi anche: 

2 agosto 2018
NUOVA EMERGENZA EBOLA IN CONGO-KINSHASA: VENTISEI CASI SEGNALATI NELL’EST DEL PAESE

Ribelli ADF nel Nord-Kivu
Ribelli ADF nel Nord-Kivu
Il filovirus che provoca la febbre emorragica ebola
Il filovirus che provoca la febbre emorragica ebola


La raccapricciante immagine di vittime sud sudanesi mentre vengono caricate su una ruspa
La raccapricciante immagine di vittime sud sudanesi mentre vengono caricate su una ruspa

27 ottobre 2018
SUD SUDAN. IL PRESIDENTE: “NON TEMO IL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE”

 

Alla notizia che la Corte Penale Internazionale dell’Aja potrebbe incriminarlo per crimini contro l’umanità, il presidente del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit ha risposto con un: “Non ho paura”.
Tracotanza, ingenuità o sincera convinzione d’innocenza? Certo è che a fronte di quasi 400 mila morti, provocati dalle lotte intestine in Sud Sudan, la proclamazione d’innocenza del suo presidente, Salva Kiir, appare quantomeno grottesca. È lui, infatti, che regge le sorti del Paese fin dall'ottenuta indipendenza dalla dominazione araba sancita nel 2011 in forza di un referendum popolare che lo ha installato al potere ed è tristemente comune, in Africa, che tale potere si configuri spesso in un delirio di onnipotenza, nell'ambito del quale tutto è consentito in ossequio al più assoluto principio machiavellico.

Ma chi è Salva Kiir e qual è stato il percorso che, con un così vasto consenso, l’ha portato alla leadership del giovane e sventurato Paese africano? Della sua infanzia non si sa molto, salvo che nacque nel 1951 a Bahr al-Ghazal, un corposo villaggio dell’allora Sudan meridionale che prende il nome dall'omonimo fiume che l’attraversa. Myardit Salva Kiir appartiene alla maggioritaria etnia dinka e già alla fine degli anni ’60, prima ancora che compisse il suo ventesimo anno, aderì al movimento indipendentista Anya-Nya che compiva azioni di guerriglia contro il potere di Khartoum. Militando in queste formazioni, Salva Kiir, appena ventunenne, ottenne il grado di ufficiale nell'Esercito di Liberazione del Sudan meridionale.

Autodefinitosi un cattolico devoto, con l’immancabile cappello da cowboy e una dialettica appena elementare, Salva Kiir non ci mise molto a far capire al mondo che le sue doti militari non si riflettevano per nulla in quelle richieste dalla posizione politica che andava ad assumere quando la volontà popolare lo pose alla presidenza del più giovane Paese del continente africano. Al suo fianco, come vice presidente, Kiir scelse il quasi coetaneo Riek Machar Teny che, giacché appartenente all'etnia nuer (seconda nel Paese dopo quella dinka) sembrava poter garantire una pacifica gestione del potere, unendo due tribù tradizionalmente rivali.

Non sono ben chiare le ragioni per cui quest’alleanza cessò bruscamente solo due anni dopo essersi formata. Secondo alcuni osservatori – Salva Kiir, il cui livello d’istruzione è meno che modesto – soffriva la supremazia culturale di Machar, laureato in ingegneria all'università di Khartoum e titolare di un dottorato in filosofia conseguito all'università di Bradford in Gran Bretagna. Qualunque fosse la ragione del dissidio, sta di fatto che Kiir accusò Machar di tradimento nei suoi confronti, accusa che costrinse il suo vice a fuggire per rifugiarsi all'interno della propria etnia, la quale, rispolverata l’antica ostilità verso i dominatori dinka, brandì le armi dando vita al cruento confronto che si protrae ormai da cinque anni.

Le indicibili crudeltà commesse da entrambi gli schieramenti nei confronti dell’inerme popolazione civile, solo a causa delle rispettive appartenenze etniche, hanno creato profondo raccapriccio nel mondo civile e occorre dire che, pur se nessuno dei contendenti merita assoluzioni per questi massacri, le truppe governative, fedeli a Kiir, per numero di soldati e di mezzi bellici, sono certamente quelle che più riescono a distinguersi nella spietata macellazione dei loro simili. Situazione, questa, che ha spinto molte organizzazioni umanitarie a sollecitare il Tribunale Criminale Internazionale (ICC) dell’Aja, a procedere sia contro Salva Kiir, sia contro il suo rivale Riek Macahr per il reato di genocidio etnico.

Come abbiamo però visto, il leader sud sudanese, si mostra in proposito più che tranquillo. Rilasciando un’intervista a Jeff Koinange della TV keniota Citizen, Kiir ha affermato: “L’ICC può procedere nei miei confronti quando vuole. Io non ho nulla da temere poiché lavoro esclusivamente per la pace e sono del tutto innocente rispetto a queste accuse”. Pressato dal giornalista a proposito di alcune operazioni di riciclaggio di denaro sporco, di cui sarebbero accusati alcuni alti funzionari del suo governo, Kiir ha risposto: “Sì, devo ammettere che ci siano state, ma in questo momento non posso occuparmene perché tutti i miei sforzi sono diretti ad assicurare una stabile pace per il mio Paese e posso assicurare che arriveremo prestissimo a questo traguardo”. Ma intanto i massacri non si arrestano e la gente continua a fuggire dalle proprie case, perché l’alternativa è la morte.
By Africa Express

 

Vedi anche: 

20 settembre 2018
SUD SUDAN. MACELLAI IN AZIONE. STUPRI, MASSACRI E BAMBINI ACCECATI E BRUCIATI VIVI

 

28 luglio 2018

SUD SUDAN. DOVE LA POPOLAZIONE È ALLO STREMO, PRIVA DEI SERVIZI ESSENZIALI COME OSPEDALI, SCUOLE, CIBO, CASE, OGNI PARLAMENTARE RICEVE IN REGALO 40 MILA EURO

Il presidente del Sud Sudan Salva Kiir
Il presidente del Sud Sudan Salva Kiir
L’ex vice presidente Riek Machar, oggi feroce antagonista di Salva Kiir
L’ex vice presidente Riek Machar, oggi feroce antagonista di Salva Kiir


Salami Abdou, governatore di Anjouan
Salami Abdou, governatore di Anjouan

27 ottobre 2018
COMORE. CLEMENZA CONTRO GLI INSORTI, MA IL GOVERNATORE DI ANJOUAN RESTA IN GALERA

 

Salami Abdou, governatore di Anjouan, una delle tre grandi isole che insieme a Grande Comore e Moheli costituiscono l’Unione delle Comore, ha chiesto inutilmente asilo politico alla Francia tramite la prefettura di Mayotte (dal 2011 è il 101º dipartimento francese).
Il governatore, acerrimo oppositore del presidente, aveva preso posizione contro la riforma costituzionale, approvata con il referendum del 30 luglio di quest’anno; dal 21 ottobre è agli arresti domiciliari, perché, secondo il governo, sarebbe il principale istigatore delle insurrezioni che si sono consumate ad Anjouan una decina di giorni fa. Durante le violenze sono morte almeno tre persone, altre sei sono state gravemente ferite.

Ora l’isola è nuovamente sotto il controllo delle autorità centrali e su Salami pendono accuse gravissime: attentato all'unità nazionale, associazione a movimento insurrezionalista, concorso in omicidio, porto illegale di armi, turbamento all'ordine pubblico. Sarà giudicato dal tribunale per la sicurezza dello Stato.

Il ministro degli Interni francese, Christophe Castaner, ha fatto sapere che molti oppositori del regime sono riusciti a raggiungere Mayotte, dove hanno chiesto asilo politico. Al loro arrivo si sono presentati immediatamente alle forze dell’ordine dell’isola e sono stati presi in consegna dalla polizia del luogo.
Castaner ha precisato che indagini su quanto è accaduto ad Anjouan sono in corso e, in base ai risultati, si valuterà se ai richiedenti potrà essere concesso asilo o meno.

Le Comore, ex colonia francese, hanno ottenuto l’indipendenza nel 1975, mentre la popolazione di Mayotte, ha espresso la sua volontà di restare con la Francia in due referendum. I giovani comoriani sono attratti come da una calamita dall'isola francese, un fazzoletto di terra che dista solamente settanta chilometri da Anjouan e quasi giornalmente cercano di attraversare il tratto di mare che separa le due isole con i kwassa kwassa, tradizionali imbarcazioni da pesca, il cui nome probabilmente è stato mediato da quello di una danza congolese (kwassa, appunto) a sua volta proveniente dal francese quoi ça? (Che cos’è questo?). Come il ballo, le barche “oscillano” pericolosamente. Dal 1995 ad oggi hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere Mayotte oltre cinquantamila comoriani. Un tragico bilancio di vite umane del quale si parla poco o nulla in Occidente.

Da tempo i rapporti tra i due governi sono tesi proprio a causa dei migranti, che Parigi vorrebbe respingere immediatamente. Da alcuni anni la legislazione d’Oltralpe sull'immigrazione permette il rimpatrio immediato, senza dover ricorrere alla sentenza di un giudice, ma dalla primavera scorsa il governo comoriano non riammette più i propri cittadini scappati a Mayotte. Ora vedremo la reazione di Parigi circa gli insorti, che, se respinti e riammessi in patria, rischierebbero, almeno sulla carta, la pena capitale.
Anche se l’ultima esecuzione risale al 1997, a tutt'oggi si trovano ancora sette persone nel braccio della morte. L’ultima condanna in tal senso è stata pronunciata nel 2012 contro un criminale, giudicato colpevole di omicidio e stupro. L’omicidio aggravato, il tradimento e lo spionaggio sono considerati reati capitali.

Assoumani è diventato presidente nel 1999 dopo aver condotto un colpo di Stato ai danni dell’allora presidente Tadjidine Ben Said Massounde. È poi rimasto al potere fino a gennaio 2002. A maggio dello stesso anno ha vinto le elezioni e ha guidato lo Stato insulare fino al 2006. Dieci anni dopo è riuscito nuovamente a farsi rieleggere.
Con la recente riforma costituzionale è stata abolita la carica di vice presidente e la Corte Costituzionale, la più alta istanza giudiziaria del Paese e infine con il referendum è stata soppressa una clausola della Carta che riguardava la laicità: l’islam è diventato così la religione di Stato. Inoltre la riforma permette al presidente di candidarsi per altri due mandati.
Prima del referendum il potere si alternava ogni cinque anni tra i leader delle tre isole principali, Grande Comore, Mohéli e Anjouan, un sistema adottato per dare stabilità al Paese, che in passato è stato teatro di parecchi colpi di Stato.
Pur di riprendere il controllo di Mutsamudu, capoluogo dell’isola di Anjouan, il governo aveva promesso clemenza nei confronti degli insorti. Pochi giorni fa il presidente ha visitato l’isola, accompagnato da un grande spiegamento di militari. In tale occasione si era espresso così: “Ora bisogna subito recuperare tutte le armi e dare la caccia agli insorti”, promettendo nuovamente impunità e clemenza a chiunque – ribelle o civile – consegnerà spontaneamente le proprie armi.

Emmanuel Macron, presidente della Francia, ha invitato il suo omologo della sua ex colonia a Parigi per l’anniversario dell’Armistizio della Grande Guerra nel 1918, festa nazionale che ricorre l’11 novembre. In tale occasione i due capi di Stato discuteranno sugli ultimi avvenimenti e sull'eventuale estradizione degli insorti da Mayotte, in base ai recenti accordi bilaterali in materia di giustizia.
By Africa Express

Vedi anche: 

1 agosto 2018
COMORE. DEMOCRAZIA AZZOPPATA. AMPI POTERI AL PRESIDENTE ISLAMICO EX GOLPISTA

Imbarcazioni “kwassa kwassa”
Imbarcazioni “kwassa kwassa”
Ribelli di Anjouan à Mayotte
Ribelli di Anjouan à Mayotte


Detenuti malgasci
Detenuti malgasci

24 ottobre 2018
MADAGASCAR. CARCERI PEGGIO DEI LAGER. MORTE IN DETENZIONE 52 PERSONE

 

Nel 2017 in Madagascar sono morti centoventisette prigionieri, tra loro cinquantadue in detenzione cautelare. È la denuncia di Amnesty International, pubblicata nel suo rapporto di questi giorni. La ONG accusa il sistema giudiziario malgascio, vicino al collasso.
Secondo i ricercatori dell’Organizzazione con base a Londra, il cinquantacinque per cento della popolazione carceraria – circa undicimila persone – ad ottobre era ancora in attesa di processo, benché la maggior parte di loro sia accusata di crimini minori, tra loro anche donne e minori.
Nella sua relazione Amnesty evidenzia le terribili condizioni di vita, oltre a trattamenti crudeli, disumani, degradanti. La situazione è la stessa in tutti i nove penitenziari visitati dalla ONG.

La detenzione preventiva prolungata anche per anni è la causa del sovraffollamento delle carceri; la mancanza di cibo, di cure mediche, di igiene nelle strutture, nuoce gravemente alla salute dei detenuti, mettendo in pericolo la loro vita. Fatto che la ONG aveva già esposto in un rapporto precedente. Le ottantadue galere della Grande Isola contano oltre ventimila “ospiti”, quando la loro capacità effettiva non dovrebbe superare i diecimila. E già nella relazione dello scorso febbraio sui diritti umani dell’ex colonia francese, era stato evidenziato che l’accesso al cibo e all’aqua potabile è limitato. La razione giornaliera per ogni prigioniero non supera duecentocinquanta grammi di manioca al giorno.
Deprose Muchena, direttore dell’ufficio regionale per l’Africa australe di Amnesty, ha spiegato che i detenuti in attesa di giudizio non sono separati da quelli già condannati e questo malgrado le disposizioni internazionali sui diritti umani. Non di rado anche i bambini devono condividere le loro celle con veri e propri criminali. Eppure il regolamento penitenziario malgascio prevede la separazione tra reclusi minori e adulti.

A pagare il prezzo più alto sono i poveri, in particolare donne e bambini, coloro che non possono permettersi un avvocato. Eppure il codice penale prevede il gratuito patrocinio.
Non c’è spazio nelle celle, i reclusi sono costretti a dormire per terra, molti sono ammalati, tremano, tossiscono, perché affetti di tubercolosi, la principale causa di morte nelle galere malgasce. In un rapporto del Comitato della Croce Rossa Internazionale un detenuto su due soffre di malnutrizione moderata o severa. Nel 2015, secondo il CICR, sono decedute ventisette persone per malnutrizione, ma diciamolo pure chiaramente: morte di fame.

Rivo Rakotovao, presidente ad interim del Madagascar, ritiene la situazione carceraria del suo Paese inaccettabile e triste. E ha aggiunto: “Dal tempo dell’indipendenza mai nessuno ha pensato a investire nella detenzione, ma ora bisogna migliorare lo stato delle cose, senza attendere finanziatori”.

Attualmente il 90 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà (calcolata su una base di 1,90 dollari al giorno) e il Madagascar è il Paese che, dopo la Corea del Nord, ha accesso al minor contributo internazionale con soli 24 dollari all'anno per abitante.
By Africa Express


Una baracca fatiscente, una croce e un po’ di adepti creduloni. Così nasce una chiesa evangelica in Africa
Una baracca fatiscente, una croce e un po’ di adepti creduloni. Così nasce una chiesa evangelica in Africa

22 ottobre 2018
KENYA. TRUFFE MILIONARIE DEI SEDICENTI UOMINI DI DIO

 

Il Kenya ha circa un terzo dei suoi abitanti che vivono con meno di due dollari al giorno, vale a dire quasi 15 milioni di persone costrette a sopravvivere in condizioni di estremo disagio. Per contro, nello stesso Paese, emergono centinaia di uomini che godono dell’opulenza di Creso, al punto da non temere confronti con le più blasonate teste coronate del mondo. Ma chi sono questi fortunati che riescono ad arricchirsi smisuratamente in una terra afflitta dalla disperazione e da una cronica indigenza?
Riferendosi alla popolazione autoctona, è fuor di dubbio che l’accesso alla ricchezza, in Kenya, è un privilegio concesso alla sua classe politica e a tutto ciò che da lei discende: pubblici funzionari, uomini d’affari conniventi e chiunque altro disposto a sbrigare faccende sporche per i potenti. Ma c’è un’altra categoria che approda alla ricchezza pur in assenza dei favori del palazzo, verso il quale, se mai, potrà mostrarsi generosa una volta raggiunto lo status agognato. Si tratta dei sedicenti “uomini di Dio”, i pastori evangelici auto nominatisi tali in forza di una pretesa ispirazione divina.
Si tratta, nella gran parte dei casi, di semplici e astuti truffatori. Imbonitori di piazza che, grazie a un’efficace e cruda eloquenza, fanno leva sull'ingenuità popolare alla quale promettono salute e benessere economico. Se possibile, questa strategia, è ancora più riprovevole di quella attuata dalla classe politica perché sfrutta proprio la massa dei disperati, facendo spudorata incetta del poco di cui dispongono. Molti di questi casi, infrangono platealmente le norme di legge, ma se si dispone di denaro sufficiente e sempre facile, in Kenya, comprarsi l’impunità.

È quello che ha fatto il “pastore” James Maina Ng’ang’a, della “Chiesa” Nemo Evangelism Centre da lui fondata, il quale, oltre a spacciarsi per inviato divino – e come tale raccogliere oboli – uccise un uomo in un incidente stradale e pagò la polizia per sottrarsi all'incriminazione. Nel frattempo, sua moglie, distribuiva a tutto spiano falsi (pur se ben retribuiti) miracoli. Ancora più abile fu il noto “vescovo” Gilbert Deya che riusciva a far partorire donne sterili, dando loro infanti acquistati per pochi soldi presso le madri legittime, ma in estremo stato di povertà. L’intraprendente uomo di Dio, oggi svanito nel nulla, non si curò neppure di controllare i suoi bassi istinti, visto che oltre all'addebito per truffa, fu anche accusato di vari stupri.
L’elenco continua con l’illuminata “profetessa” Lucy Nduta, che millantava il potere di guarire (ma non gratuitamente) chiunque affetto dall’HIV. Più o meno la stessa cosa fece un altro “pastore”, Michael Njoroge, della fantomatica chiesa Fire Gospel Ministry, il quale si intratteneva spesso con prostitute, pagandole profumatamente perché, nel corso dei suoi sermoni, giurassero di essere state guarite dall'HIV, ma ecco un altro “vescovo”, il fortunato Thomas Wahome che inventò una Chiesa dal nome davvero originale: “Elicottero della Chiesa di Cristo”. Fortunato perché, a suo dire, fu Dio stesso che consegnò nelle sue mani il “Libro Sacro della Vita” nel quale, al modesto costo di nove euro, poteva inserire i nomi di altri eletti, mentre agli ammalati, per soli undici euro, era consentito toccare i suoi abiti e guarire.

Questi casi, sono solo una parte di quelli venuti alla luce, ma in Kenya le chiese spurie nascono ogni giorno grazie alla fervida fantasia di chi cerca un facile arricchimento. Non c’è una stima precisa di quanti sedicenti pastori operino nel Paese, ma certamente si contano in centinaia di migliaia e a loro modo, contribuiscono a condannare l’ex colonia britannica, all'arretratezza, sfruttando l’ignoranza, la povertà e la superstizione, patologie endemiche che affliggono non solo il Kenya, ma l’intero continente africano.
By Africa Express

Il sedicente uomo di Dio, James Maina Ng’ang’a fondatore della Nemo Evangelism Centre
Il sedicente uomo di Dio, James Maina Ng’ang’a fondatore della Nemo Evangelism Centre
La “profetessa guaritrice” Lucy Nduta
La “profetessa guaritrice” Lucy Nduta
Il “reverendo” Thomas Wahome “Elicottero della chiesa di Cristo”. I suoi abiti hanno proprietà taumaturgiche
Il “reverendo” Thomas Wahome “Elicottero della chiesa di Cristo”. I suoi abiti hanno proprietà taumaturgiche


Mappa della Namibia con il Nakabolelwa Conservancy
Mappa della Namibia con il Nakabolelwa Conservancy

21 ottobre 2018
NAMIBIA. “COLPISCILO IN MEZZO AGLI OCCHI” !!!

 

Due cacciatori bianchi sono ripresi da una videocamera davanti a tre branchi di elefanti. Uno di questi dice all'altro: “Colpiscilo in mezzo agli occhi”, indicando il più grosso. Nel branco si vedono anche i cuccioli accanto alle madri.
I cacciatori puntano le armi da caccia grossa e uno di loro spara un colpo. Qualche secondo dopo ne spara un altro. Si vede un grosso maschio al centro di uno dei branchi che colpito si allontana dagli altri elefanti.
Forse intende attirare l’attenzione su di sé per evitare che ne vengano colpiti altri? O che vengano uccisi i piccoli? Il secondo cacciatore spara un terzo colpo e il grosso pachiderma, con tutte le sue sei tonnellate, cade pesantemente sul terreno arido innalzando una nuvola di polvere.
Si sentono feroci barriti e il branco carica in direzione degli uomini. Si sentono urla di umano terrore e si vede grande confusione. I cacciatori e l’operatore scappano disordinatamente come conigli pensando probabilmente a cosa significhi essere maciullati dalla carica equivalente a quella di una decina di TIR.
Ma sono fortunati. La carica ha solo l’intenzione di terrorizzare e fermare il più pericoloso killer del pianeta. L’unica specie che uccide per piacere. O forse è una carica utile a spaventare per proteggere i cuccioli.

Il video è stato trasmesso da News24, testata sudafricana, e inizia con un avviso: “Attenzione! La visione può disturbare i telespettatori sensibili”. Si tratta di un minuto e mezzo forte come un pugno nello stomaco che mostra l’uccisione “legale” di un pachiderma. Il costo? Un trofeo di elefante, secondo il listino di Vaughan Fulton Classic Safaris, in Namibia, è di 41 mila USD.
È successo in Namibia, nel Nakabolelwa Conservancy, estremo est del Paese nella Caprivi strip al confine con il Botswana. Il safari era organizzato da Omujeve Hunting Safaris, azienda che ha come motto “Se il sogno della tua vita è quello di partecipare a un perfetto safari di caccia africano, sei nel posto giusto” e offre alloggi di lusso e cucina di classe.
Corné Kruger, cacciatore professionista, è il proprietario dell’Omujeve Hunting Safaris, con il vizietto di sparare al più grande mammifero terrestre per divertimento !

La famiglia Kruger
La famiglia Kruger

“Quanto mi piacerebbe colpire in mezzo al culo questi due sacchi di merda” !!!

 

Due cacciatori patetici e vomitevoli! Figure molto tristi di esseri che non possono avere il complesso appellativo di umani, ma il più semplice di "bestie umane".

“Grandi buffoni, psicopatici rotti in culo”, l'insicurezza e la necessità di uccidere, sono i tratti dei vigliacchi, scarsi tiratori e dei veri e propri eunuchi !

Quanto a voi Kruger, fottuti bastardi, macellai, vigliacchi e pure... rotti in culo... dimenticavo... sacchi di merda, siete esseri ripugnanti: uccidete gli animali per tentare di risvegliare, senza successo,  una sorta di "formicolio" nelle vostre mutande.
Ma, ormai da anni, quella sensazione la provate solo ficcandovi la canna del fucile su per il culo.
Il sogno della mia vita? quello di cacciare i vigliacchi della vostra razza di proto-bestie!

Omujeve Hunting Safaris è gestito dalla famiglia Kruger, il cui mandato in Namibia risale a cinque generazioni. Essi stessi sono cacciatori della peggior specie ed indegni di essere chiamati uomini. Il padre Nic, la madre Elsada, il figlio maggiore e cacciatore professionista Corné, con la moglie Charmoni e le loro due figlie, vivono sul posto e sono sempre disponibili per rendere la vostra visita il più memorabile possibile. Il team di Omujeve ha un solo obiettivo: rendere la permanenza in Namibia la migliore esperienza della vostra vita braccando ed uccidendo inermi animali!

La Namibia conta 2,2 milioni di abitanti. È ricchissima di diamanti, che vengono estratti dalla NAMDEB Diamond Corp., una joint-ventures tra il governo, l’Anglo American Plc (AAL) e la De Beers, la più grande compagnia di diamanti al mondo. È il quinto produttore di uranio al mondo. Ha molte miniere di zinco e oro. Pesca, agricolture e turismo sono in forte espansione.
Eppure il governo rilascia permessi per sparare non solo agli elefanti, ma anche ai rinoceronti, questi ultimi al prezzo di 95.000 euro. Il ministro dell'Ambiente Pohamba Shifeta si giustifica, incredibile a dirsi, dicendo che il Paese ha ancora molti rinoceronti!
Ed ecco, nella tabella sottostante, il listino prezzi per le varie specie animali!
Un Paese ricco, ma pur sempre un Paese troglodita!

Vedi anche: Video Safari - Uccidere animali o bestie umane? - Carne umana o di animali?

               Specie                Specie
                                                                              Prezzo 
Blesbok – Common $595.00
Blesbok – White $650.00
Baboon $100.00
Dik-dik – Damara $3,950.00
Duiker $450.00
Eland – Cape $2,200.00
Gemsbok – Kalahari $650.00
Gemsbok – Golden $5000.00
Giraffe $3,450.00
Impala – Black $3,000.00
Impala – Black Faced $1,400.00
Impala – Common $595.00
Impala – Saddle Back $4,500.00
Impala – White Flank $5,000.00
Jackal $100.00
Klipspringer $1,950.00
Kudu – Southern Greater $3,500.00
Lechwe $3,500.00
                                                                   Prezzo
Leopard $9,500.00
Nyala $3,500.00
Red Hartebeest $650.00
Roan $9,000.00
Sable $7,500.00
Springbok – Black $750.00
Springbok – Copper $1,200.00
Springbok – Kalahari $350.00
Springbok – White $1,500.00
Steenbok $450.00
Tsessebe $4,950.00
Warthog $450.00
Waterbuck $1,950.00
Wildebeest – Black $1,450.00
Wildebeest – Blue $1,000.00
Wildebeest – Golden $5,000.00
Zebra – Burchell $1,200.00
Zebra – Hartmann $1,200.00

La State House, il palazzo presidenziale di Nairobi
La State House, il palazzo presidenziale di Nairobi

20 ottobre 2018
KENYA. CORRUZIONE DILAGANTE, RISCHIO DI COLLASSO FINANZIARIO

 

Fin dal 1992, quando l’allora presidente Daniel arap Moi fece stampare valuta in eccesso per sconfiggere gli avversari nella campagna elettorale, mai il Kenya aveva dovuto confrontarsi con una crisi finanziaria di tali proporzioni. A dare questo allarme non sono stati gli organismi finanziari internazionali, ma, insieme alla banca centrale del Paese, lo stesso capo dello staff presidenziale, Joseph Kinyua, secondo cui l’incombente e drammatico default economico è da attribuire ai miliardi di euro persi nelle attività gestite dai ministeri del territorio, della salute e delle opere pubbliche, dicasteri in cui la corruzione è dilagata fuori da ogni controllo.
Come prima misura per fronteggiare l’emergenza, il governo ha disposto il blocco di tutti i progetti di sviluppo, sia approvati, sia già in fase di esecuzione ma questa iniziativa sembra non bastare per evitare di cadere nel baratro. Le banche interne, con cui il governo è fortemente indebitato, hanno dato fondo alle proprie risorse, riaprendo, per alcune di loro, il rischio di bancarotta. Quest’asfissia finanziaria impedisce di fornire i tradizionali prodotti di supporto alle imprese e i mutui fondiari che potevano stimolare il mercato immobiliare, da diversi anni condannato all'immobilismo. Per giunta gli interessi bancari richiesti per la concessione del credito, quand'anche ottenuto, hanno raggiunto livelli insopportabili, generando una catena di aumenti che colpiscono soprattutto la classe medio-bassa.
I media locali, pur se intimiditi dalla poco velata tracotanza del governo che non gradisce le loro critiche, nel profilarsi di questa drammatica débâcle economica, trovano il coraggio di far sentire la propria voce. “La responsabilità di questa situazione – scrive il quotidiano online Kenya Today – è interamente a carico del presidente Uhuru Kenyatta, che ha dato vita al peggior governo che il Kenya abbia mai avuto fin dall'ottenimento dell’indipendenza. Uhuru ha il totale controllo di entrambe le camere del parlamento e ciò nonostante non riesce a esercitare un efficace monitoraggio sulle malefatte dei suoi dicasteri”. Sempre Secondo il Kenya Today, “Uhuru aveva ereditato dal suo predecessore Mwai Kibaki, un paese in ottimo stato di salute economica che lui è riuscito a trasformare in una totale disfatta”.
Causa questa situazione, molti investitori europei hanno già lasciato il Paese o sono in procinto di farlo, lasciando così campo aperto all'inserimento commerciale cinese che si fa sempre più ardito in tutto il continente africano, ma intanto la scuola, la sanità e molte delle pubbliche istituzioni, sono in ginocchio e prive dei necessari fondi per operare. I dipendenti della SGR, la nuova ferrovia a gestione cinese Nairobi-Mombasa, sono in sciopero perché non hanno ancora ricevuto i salari di settembre. Lo stesso vale per il corpo degli insegnanti della suola pubblica e le amministrazioni di contea che da qualche tempo non stanno ricevendo i fondi governativi, nella misura necessaria per operare.

La classe dirigente del Kenya, non era certo immune alla corruzione ancor prima dell’arrivo del partner cinese, ma l’imponente valore dei progetti realizzati con Pechino, ha dato un indiscutibile impulso a questa tendenza. A differenza di quanto si possa pensare, i progetti cinesi, sottoscritti dal governo del Kenya, non sono certo a buon prezzo, anzi, espongono costi largamente superiori a quelli standard, perché devono comprendere le illecite e sontuose prebende che i funzionari dei dicasteri interessati, richiedono per dare il loro assenso alla realizzazione dei vari progetti.

Secondo molti osservatori, l’anima nera di questo governo, sarebbe rappresentata dal vice presidente William Ruto, da molti ritenuto l’uomo politico più corrotto del Kenya. Dotato di molta intraprendenza e di un’eccezionale dialettica, influenzerebbe Uhuru verso scelte dissennate, tutto teso a compiacere quegli alti funzionari pubblici e politici che potrebbero costituire il coacervo di consensi necessari al suo insediamento nella più alta carica del palazzo alla scadenza dell’attuale mandato nel 2022.
Il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha già minacciato la sospensione di ogni ulteriore aiuto al Kenya, finché l’insaziabile ingordigia della sua classe politica non sarà del tutto debellata per approdare finalmente a un’efficiente e onesta gestione della cosa pubblica, il cui unico obiettivo sia l’effettivo miglioramento delle condizioni di vita delle sue genti. Un sogno, certo, ma qualche volta anche i sogni possono avverarsi.
By Africa Express

Il palazzo della Banca Centrale del Kenya a Nairobi
Il palazzo della Banca Centrale del Kenya a Nairobi
Il presidente Uhuru Kenyatta (a sinistra) con il suo vice William Ruto, dopo la vittoria alle elezioni del 2017
Il presidente Uhuru Kenyatta (a sinistra) con il suo vice William Ruto, dopo la vittoria alle elezioni del 2017


Uno dei meglio attrezzati ospedali privati di Nairobi, l’Aga Khan Hospital
Uno dei meglio attrezzati ospedali privati di Nairobi, l’Aga Khan Hospital

18 ottobre 2018
KENYA. UN PAESE INSODDISFATTO

 

Il dato emerge da rapporto del Pew Research Centre – un organismo indipendente con sede a Washington (USA) – che ha svolto un sondaggio in quattordici paesi, ritenuti particolarmente espressivi della realtà internazionale.
Da questo sondaggio risulterebbe che la maggiore preoccupazione dei kenioti si concentra, con un secco 81 per cento, sulle gravi carenze del sistema sanitario nazionale. Stando a quanto dichiarato dai cittadini, questo dato, è il peggiore riscontrato tra i quattordici paesi oggetto del sondaggio. Al secondo posto, in ambito nazionale, si assesta l’insoddisfazione per la cattiva qualità del sistema scolare (76%), che pone il Kenya al terzo posto (in quanto a inefficienza) dopo Tunisia e Sudafrica.
I kenioti, si sentono inoltre vessati – nell'ordine – dalla mancata libertà d’espressione (73%) e dalla brutalità della polizia (68%), attestandosi, rispettivamente, al primo e al terzo posto della classifica tra i paesi oggetto del sondaggio. Per quanto concerne il comportamento dei tutori dell’ordine, il Kenya è preceduto, in quanto a insoddisfazione, da Filippine e Sudafrica. Rilevanti appaiono anche le lamentele espresse nei confronti della povertà (73%) e della corruzione dell’apparato pubblico (68%). Appare tuttavia evidente che i cittadini intervistati hanno dato voce a quanto da loro percepito, senza poterlo rapportare alle situazioni presenti in altri paesi.
Un’apprezzabile prestazione sanitaria (ma a costi proibitivi per la gran parte della popolazione) si può trovare nelle strutture ospedaliere private di Nairobi e Mombasa, mentre negli ospedali pubblici, regna l’incompetenza e la corruzione; i pazienti sono spesso costretti a pagare sottobanco per ricevere i più elementari servizi: letti, materassi, farmaci. In alcune cliniche per la maternità dei centri minori, non raramente le gestanti sono costrette a partorire sul nudo pavimento nell'assoluta mancanza delle più elementari norme igieniche.

Infine, nei casi d’emergenza, quand'anche il paziente sia in immediato pericolo di vita, le strutture private rifiutano di ammetterlo se non contro il contestuale versamento di un congruo deposito. Se quindi il fatto avviene in un giorno festivo, anche chi ha sufficiente disponibilità economica, ma non può accedervi per la chiusura delle banche, rischia di morire nell'indifferenza dei discepoli di Ippocrate e non solo; se all'atto della dimissione, il paziente non ha l’immediata possibilità di saldare l’eventuale residuo, sarà letteralmente sequestrato dalla struttura sanitaria che lo renderà libero solo quando tale pagamento sarà effettuato. Inutile rivolgersi alla polizia che giudicherà la scelta dell’ospedale assolutamente legittima. Naturalmente i giorni di permanenza forzata saranno aggiunti al conto complessivo.

L’unica soluzione, per evitare sgradevoli sorprese, è quella di stipulare una buona polizza assicurativa, la quale, però, escluderà dalla copertura ogni eventuale patologia in atto o già sofferta dall'interessato (forme tumorali, insufficienza cardiaca e altre malattie ad andamento cronico).
By Africa Express


Il presidente dello Zambia Edgar Lungu
Il presidente dello Zambia Edgar Lungu

15 ottobre 2018
ZAMBIA. IL PAESE PIENO DI DEBITI VA VERSO IL COLLASSO.
E IL PRESIDENTE SI COMPRA UN LUSSUOSO JET

 

Al presidente dello Zambia, Edgar Lungu, non basta il mostruoso indebitamento di 11 miliardi di euro contratto con la Cina, che mette a rischio la proprietà delle più importanti imprese statali, ora ha in fase conclusiva un’altra spesa di 350 milioni di euro per varie spese militari che includono anche un lussuoso e superaccessoriato Jet a suo uso esclusivo.
Così, mentre il colera divampa a Lusaka, nella disperata inadeguatezza delle strutture sanitarie che dovrebbero contrastarlo, l’ineffabile presidente Lungu, potrà amenamente volteggiare nei cieli africani con il suo ultimo giocattolo e ammirare dall'alto uno sventurato popolo il cui 70 per cento vive sotto la soglia di povertà.
La prima reazione a questa dissennata e frenetica corsa verso il dissesto, viene dalla piccola Norvegia che indignata dagli irresponsabili colpi di testa del leader zambiano, ha deciso l’immediato blocco degli aiuti concessi al suo governo. Questa iniziativa si accoda alle perplessità già espresse dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) sulla precaria situazione economica dello Zambia e alle investigazioni promosse dal governo britannico su gravi episodi di corruzione che coinvolgerebbero alcuni ministri zambiani.

Questa volta i beneficiari dell’ennesimo debito contratto dallo Zambia, non sono i cinesi, ma i russi e gli israeliani che Lungu ritiene, probabilmente, più affidabili in quanto a forniture militari. Si tratterebbe, dell’acquisto (a credito) di un imprecisato numero Jet supersonici F-5, di diciotto mini-droni Skylark, di elicotteri da trasporto russi Mi-17 e di vari mezzi militari di superficie. Nel pacchetto è anche compresa l’ultima e sofisticata versione del Jet Gulfstream G650, in una super accessoriata versione extra-lusso a esclusivo uso del presidente Lungu. Il prestigioso giocattolo sarà fornito dalla società israeliana Elbit che lo equipaggerà anche di un sistema laser antimissilistico.

La patologica tendenza allo spreco di molti Paesi africani, fa sorgere dubbi sull'opzione dell’ “aiutiamoli a casa loro” espressa da diversi Paesi europei per contrastare il fenomeno della migrazione. In quali mani dovrebbero essere indirizzati tali aiuti? Fatalmente non potrà che trattarsi di transazioni inter-governative, quindi i beneficiari di tali aiuti sarebbero proprio coloro che ne fanno incetta per il proprio tornaconto. In altre parole, sarebbe come affidare la prevenzione degli omicidi a Jack lo squartatore.
Il panorama africano, in quanto a crescente indebitamento, si fa sempre più preoccupante ed è favorito sia dai progetti di sfruttamento messi in atto dalle varie potenze economiche mondiali che, dietro alle quinte, ingaggiano tra loro una feroce competizione, sia dall'inesauribile ingordigia della classe dirigente africana che continua a depredare le risorse dei propri paesi, restando del tutto indifferente alle sofferenze dei popoli che governano. Popoli che, di fronte ai faraonici progetti che ingrassano i leader e i loro entourage, vedono, per contro, crescere l’indigenza e la disperazione che li condannano sempre di più al ruolo d’impotenti e vessati sudditi feudali.
By Africa Express


Arresti di migranti sub-sahariani a Tangeri in Marocco
Arresti di migranti sub-sahariani a Tangeri in Marocco

15 ottobre 2018
MAROCCO. CACCIA AI MIGRANTI SUB-SAHARIANI

 

Sotto forte pressione dell’Unione Europea, il Marocco è a caccia di migranti: dall'inizio dell’estate. Il regno è teatro di un feroce accanimento nei confronti degli africani sub-sahariani, costretti a nascondersi per evitare di essere arrestati o addirittura deportati, in particolare nel nord del Paese.
Itel, originario del Camerun, ha raccontato che una mattina alle cinque la polizia e le forze ausiliarie (paramilitari dipendenti del ministero degli Interni) hanno costretto gli abitanti del quartiere Boukhalef di Tangeri, città sullo Stretto di Gibilterra, ad uscire in strada, dove attendevano cinque furgoni. “Una cinquantina di noi sono stati spinti in uno di essi, ci hanno portato al commissariato dove abbiamo atteso fino alle sette di sera, senza cibo e acqua”, ha raccontato il giovane camerunense. Che poi ha aggiunto: “Poi ci hanno fatto salire su un pullman, sul nostro eravamo in trentasei, ma ce n’erano almeno altri quindici bus strapieni e solo dopo diverse ore di viaggio ci hanno consegnato un po’ di pane, qualche sardina e dell’acqua. Alle quattro del mattino ci hanno fatti scendere a una decina di chilometri da Tiznit, città che dista più o meno novecento chilometri da Tangeri”.

In base a testimonianze raccolte, il gruppo Antiraciste d’accompagnement et de défense des étrangers et des migrants (Gadem), associazione con base in Marocco, ha denunciato l’arresto e la deportazione di oltre settemilasettecento stranieri sub-sahariani nella regione di Tangeri, nel nord della ex colonia francese, senza nemmeno tener conto della loro posizione amministrativa.

Nel suo rapporto dello scorso 11 ottobre, Gadem ha segnalato l’espulsione di ottantanove persone in totale assenza di presupposti normativi prescritti dall'ordinamento. Altri migranti, in attesa del rimpatrio, sono attualmente detenuti nello scantinato di un commissariato di polizia di Tangeri.
Camille Denis, coordinatrice generale di Gadem, ha descritto le condizioni dei detenuti come “disumane”. Nel rapporto del gruppo, pubblicato in questi giorni, le foto mostrano i migranti sdraiati su materassi, stipati l’uno accanto l’altro; hanno a disposizione un solo bagno, aperto solamente durante le ore diurne. La situazione sanitaria è più che precaria. La coordinatrice ha inoltre sottolineato che i detenuti non hanno accesso a cure mediche, malgrado quattro di loro si trovino in gravi condizioni di salute. Inoltre, chi, al momento dell’imbarco sull'aereo, si oppone alla deportazione, rischia di essere picchiato dalle forze dell’ordine.

Da tempo la rotta del Marocco è diventata quella maggiormente frequentata: quest’anno oltre quarantaduemila migranti hanno raggiunto la Spagna, tra loro più di trentottomila via mare, praticamente il doppio di coloro che sono arrivati in Italia con i barconi dalla Libia, per la quasi totale assenza delle navi dell’ONG nella zona SAR del Mediterraneo centrale. La via del Mediterraneo occidentale è in continua crescita, le operazioni di intercettazione e salvataggio in quel tratto di mare sono quasi quotidiane. Non solo migranti sub-sahariani con imbarcazioni di fortuna tentano la fuga, tra loro anche molti giovani marocchini, con la speranza di migliorare le proprie condizioni di vita in Europa.
By Africa Express


Pierre Nkurunziza, presidente del Burundi
Pierre Nkurunziza, presidente del Burundi

12 ottobre 2018
BURUNDI. LA MANNAIA DEL REGIME DI BUJUMBURA SULLE ONG STRANIERE, MA QUESTE CONTINUANO IL LORO “MAGNA-MAGNA” CON LA SPERANZA DI RIMANERE IMPUNITE

 

Un cittadino congolese e due burundesi, collaboratori della ONG International Rescue Comittee, sono stati arrestati mercoledì scorso a Muyinga, nell'est del Burundi, per aver violato le nuove norme entrate in vigore il 1°ottobre 2018, concernenti le Organizzazioni non Governative straniere.
A fine settembre il Consiglio Nazionale per la Sicurezza del Burundi ha decretato la sospensione di tutte le attività delle ONG straniere operative nel Paese per la durata di tre mesi, per permettere alle istituzioni incaricate di verificare se le ONG stanno operando in conformità con la legge e le norme vigenti.

La nuova legge, promulgata nel gennaio del 2017, è volta a controllare le finanze, i costi di gestione e le quote etniche degli impiegati locali (ossia 60 per cento Huti, 40 per cento Tutsi come nella pubblica amministrazione) delle ONG straniere. Fonti diplomatiche occidentali hanno espresso preoccupazione perché le organizzazioni internazionali potrebbero decidere di andarsene a causa delle nuove norme. Ciò non sarebbe certo grave, visto che la maggior parte degli aiuti dell’Unione Europea che confluiscono nel Paese vengono sistematicamente fagocitati da queste Organizzazioni Non Governative.

Pascal Barandagiye, ministro degli Interni burundese, ha fatto sapere che le ONG straniere potranno riprendere servizio non appena firmeranno e depositeranno quattro documenti redatti dalle autorità di Bujumbura: con questi atti dichiareranno di depositare presso la Banca Centrale, su un conto aperto, un terzo del loro budget. Il ministro ha minacciato la radiazione definitiva delle organizzazioni straniere che non si metteranno in regola entro i tre mesi previsti. Finora solamente quattro associazioni su centotrenta sarebbero in regola, ha precisato Barandagiye.

In poche parole il regime di Bujumbura vuole avere un diretto controllo su tutte le attività delle ONG, che sono ovviamente reticenti nel voler firmare i documenti richiesti, in particolare quelli riguardanti le loro finanze e le quote etniche degli impiegati locali. Il regime intende proseguire sulla linea dura, vuole far rispettare le proprie decisioni, lo dimostrano gli arresti effettuati due giorni fa.
E meno male!


La piccola Dorothy con l’anziano marito che l’ha comprata
La piccola Dorothy con l’anziano marito che l’ha comprata

10 ottobre 2018
NIGERIA. BAMBINE VENDUTE A VECCHI SPORCACCIONI

 

La cessione di bimbe a vecchi ultrasessantenni può avvenire anche a partire dai cinque anni di età. Generalmente sono i genitori che trattano “l’affare” e in loro assenza, i fratelli, gli zii o altri parenti. Le causali di queste transazioni sono le più svariate: saldare debiti contratti in precedenza; risarcire uno stregone per riti propiziatori a favore della famiglia; ottenere un pagamento in capre, mucche, galline. Di norma i proventi che derivano da questa cessione, superano raramente i venti euro.
A transazione ultimata, la bambina perde ogni diritto e diventa assoluta proprietà dell’uomo che l’ha comprata; deve soddisfare i suoi bisogni sessuali, svolgere ogni lavoro cui sia comandata e deve soprattutto dargli dei figli. Qualora non riesca a soddisfare queste condizioni, potrà essere ripudiata e la famiglia sarà costretta a restituire al vecchio marito, la somma pattuita per la cessione della piccola vittima. Si tratta di accordi soggetti a rigorose regole tribali, nessuna delle quali si occupa di preservare anche i più elementari diritti della bambina: la sua salute fisica e mentale e la sua istruzione.

Richard Akonam è un missionario cristiano che da anni s’impegna a combattere questa disgustosa pratica, ma confessa di trovare un’aperta ostilità, proprio da parte dei familiari delle bimbe che lui vorrebbe proteggere. Ed è sempre lui a rivelare alcune storie allucinanti che le riguardano. Una di queste riguarda Dorothy, una bambina nigeriana che è stata venduta a un vecchio agricoltore della comunità tribale dei becheve quando aveva solo undici anni. I becheve popolano l’altipiano di Obudu, nello stato nigeriano del Cross River. “Lo stesso giorno in cui sono stata venduta – racconta la ragazza, oggi diciottenne – mio marito ha voluto subito fare sesso con me. Io non volevo, mi sono ribellata e sono riuscita a scappare, ma alcune donne del villaggio mi hanno inseguita e mi hanno riportata nella casa del mio sposo. Poi lui ha cominciato a spogliarsi e mentre le donne mi tenevano bloccata a terra con le gambe divaricate, sono stata stuprata”.

Oggi Dorothy è madre di cinque figli, ai quali deve accudire senza alcun aiuto, oltre al disbrigo delle faccende domestiche. Il marito è vecchio e malconcio, quindi deve anche badare a lui. Alcune bambine, soggette a questo disumano trattamento, muoiono in conseguenza dello stupro o del parto e in questo caso, l’aberrante legge tribale, impone alla famiglia di rimpiazzare la sposa deceduta, con la figlia secondogenita e qualora questa non sia disponibile, dovrà trovare il modo di risarcire il vecchio depravato dell’importo che era stato a suo tempo pagato. Questo dritto di proprietà degli anziani mariti sulle piccole spose è assoluto, tant'è che, alla sua morte, le stesse possono essere ereditate dagli aventi diritto.

Philomena, un’altra bambina della stessa etnia di Dorothy, è stata venduta quando aveva solo quattro anni. Oggi, pur non avendo ancora raggiunto la maggiore età, ha già due figli e il vecchio marito la percuote ogni giorno, ma lei ha rinunciato a fuggire. “Sono stata venduta – dice – non posso andare contro la nostra cultura”.
Happyness – il cui nome suona quasi come uno scherno perché significa “felicità” – aveva quattordici anni, quando è stata acquistata da un vecchio possidente che ha trattato l’affare con la nonna. Anche lei subisce continui maltrattamenti e percosse. “Puoi lamentarti quanto vuoi – le dice il marito – tanto, anche se muori, non importa a nessuno, perché io ti ho comprata”.

La legge nigeriana prevede che nessuna donna possa essere costretta a sposarsi contro il proprio consenso e comunque, per farlo, dev'essere almeno diciottenne, ma benché il ministero dello sviluppo e delle pari opportunità abbia promesso di ridurre del 40 per cento i matrimoni con bambine entro il 2020, l’indegna pratica continua nell'indifferenza delle stesse istituzioni. Alcune bambine vengono addirittura comprate prima di nascere e se il compratore viene a mancare prima del parto, il diritto passerà alla sua famiglia, mentre se nasce un maschio, la somma pagata dovrà essere restituita.

Il possesso di bambine tra i becheve, è uno status simbol e tante più uno ne possiede, tanto più è ammirato dalla comunità cui appartiene. L’uomo che l’ha acquistata può disporne a piacere, anche rivenderla o barattarla con un’altra, tante volte quante gli aggrada. La povertà, l’ignoranza, la superstizione e l’osservanza di regole medievali, sono alla base della radicata convinzione che, se ci si oppone ai costumi tribali, si è colpiti da terribili maledizioni. Purtroppo queste convinzioni non sono un esclusivo retaggio nigeriano, ma si riscontrano, pur se con diverse sfaccettature, in quasi tutti i paesi africani e in non poche nazioni arabe e asiatiche.

Gli abitanti della Nigeria sfiorano i 200 milioni rendendola la più popolosa Nazione Africana. Ha immense risorse minerarie ed è il primo fornitore di petrolio del continente. Sembra impossibile che il governo non sia ancora riuscito a promuovere l’istruzione e la sensibilità verso regole di civile convivenza che ispirino rispetto verso i più basilari diritti umani. Qui non si tratta del terrorismo di Boko Haram o dell’eterno e sanguinoso conflitto islamico-cristiano; si tratta di pure barbarie verso bimbe e adolescenti indifese. Comportamenti che nel ventunesimo secolo sono del tutto inaccettabili.
By Africa Express


Terroristi al Shabaab
Terroristi al Shabaab

10 ottobre 2018
SOMALIA. CINQUE PRESUNTE SPIE FUCILATE DAI TERRORISTI AL SHABAAB

 

I terroristi al Shabaab non perdonano. Ieri hanno fucilato cinque uomini in una piazza pubblica. Si suppone che uno di loro sia Awale Ahmed Mohamed, con doppia cittadinanza somala-britannica. Fino al 2013 viveva a Londra sotto sorveglianza speciale per terrorismo; è sparito, dopo aver messo fuori uso il microchip di localizzazione e sembra fosse uscito da una moschea di Acton, quartiere multietnico ad ovest di Londra, travestito da donna, indossando il burka.
Mohamed Abu Abdalla, governatore degli al Shabaab nei territori controllati dai terroristi ha fatto sapere che tutti e cinque sono stati condannati per spionaggio dalla corte poco prima dell’esecuzione. Ha precisato che avrebbero ammesso la loro colpevolezza.
Tre dei condannati a morte avrebbero collaborato con l’intelligence degli Stati Uniti d’America: avrebbero indirizzato i droni verso gli obbiettivi da colpire. Un quarto uomo, invece, avrebbe passato informazioni al governo somalo, mentre Awale Ahmed Mohamed, sarebbe stato al soldo dell’M16, i servizi segreti britannici. Finora Londra non ha rilasciato alcun commento.
La storia di Mohamed è comunque molto più complessa di quanto possa sembrare. Nel 2011 è stato arrestato, picchiato e sottoposto a finte esecuzioni nell'auto-proclamato Somaliland, ma infine è riuscito a fuggire in Gran Bretagna. Nel 2014 Mohamed ha vinto in appello contro gli ordini restrittivi che gli erano stati imposti, ma nel 2015 è stato spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti.
Fonti di sicurezza somale ritengono che Mohamed abbia davvero raggiunto lo stato islamico, attivo nella ex colonia italiana, ma che non sia riuscito a reclutare nuovi simpatizzanti. E’ anche possibile che sia stato solo un infiltrato nell'organizzazione shabaab e che lavorasse per un gruppo estremista rivale. Una volta smascherato, è stato fucilato, ma per una questione di comodo gli hanno attribuito il ruolo di spia britannica.
Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo presidente della Somalia, recentemente, in collaborazione con gli Stati Uniti, ha lanciato una nuova campagna contro il gruppo fondamentalista. Droni americani hanno ucciso un numero significativo di militanti. Per questo motivo il gruppo terrorista, essendo sotto pressione, vede spie ovunque al loro interno.
Già lo scorso dicembre sono stati uccisi cinque uomini, tra loro anche un minore, tutti accusati di lavorare per l’intelligence americana e keniota.
Da anni gli shabaab cercano di rovesciare il governo centrale della Somalia e di impadronirsi del potere. Nel 2011 i terroristi, legati ad al Qaeda, sono stati cacciati da Mogadiscio e grazie alle offensive condotte delle truppe somale e dei caschi verdi dell’AMISOM (African Union Mission in Somalia), hanno perso quasi tutti i territori che controllavano in precedenza. Tuttavia il gruppo terrorista resta molto attivo e pericoloso. Organizza frequenti attacchi a siti militari e civili, non solo all'interno della Somalia ma anche nel vicino Kenya. L’ex colonia britannica è presente in Somalia con le sue truppe che combattono nelle fila dell’AMISOM.
E proprio in Kenya, nella contea di Mandera, al confine con la Somalia, sono stati uccisi ieri due insegnanti. Si punta il dito sui terroristi somali, che secondo una prima ricostruzione dei fatti avrebbero gettato un ordigno esplosivo sulle case degli insegnanti del collegio Arabia Boys Secondary School, nell’area di Lafey.
Vedi: Gli shabaab somali al loro ex vice Mukhtar Robow: “Sei un rinnegato e ti ammazzeremo”.
Vedi: Al Shabaab attacca convoglio militare dell’UE a Mogadiscio, 3 morti, illesi i soldati italiani.
By Africa Express


Forze dell’ordine dell’Angola a caccia degli stranieri
Forze dell’ordine dell’Angola a caccia degli stranieri

9 ottobre 2018
ANGOLA. RETATA DELLA POLIZIA A CACCIA DEI MIGRANTI CONGOLESI CERCATORI DI DIAMANTI

 

Durante un’operazione di polizia, voluta dal governo di Luanda, organizzata per arrestare alcuni stranieri coinvolti in traffici illeciti di diamanti, sono state uccise dieci congolesi e un poliziotto angolano nella provincia di Lunda Norte, al confine con la Repubblica Democratica del Congo (Congo-Kinshasa o Congo-K).
In base alle testimonianze raccolte, mercoledì scorso un gruppo di minatori congolesi avrebbe attaccato alcuni migranti, loro connazionali, e la polizia. Ma un comitato di cittadini della ex colonia francese, residenti da tempo in Angola, parla di ben quattordici congolesi ammazzati.
Secondo la televisione di Stato TPA (Televisão Pública de Angola) ora nella città sarebbe ritornata la calma. Seimila migranti sarebbero ritornati a casa volontariamente in questi giorni. Versione confermata anche da Jean Kambamba, responsabile del programma di salute e igiene al posto di frontiera di Kamako (Kasaï, Congo-K). Kambama ha precisato che non tutti hanno scelto il ritorno volontario. Alcuni congolesi hanno raccontato di essere stati acchiappati dalle forze dell’ordine direttamente nelle miniere di diamanti, altri di essere stati acciuffati nelle strade, poi, stipati in diversi camion, che li hanno trasportati direttamente fino al confine.
Antonio Bernardo, portavoce della polizia del Lunda Norte, ha fatto sapere che ben ottocento persone sono state arrestate, tra loro non solo congolesi, ma anche nigeriani, maliani e libanesi. Inoltre sono stati sequestrati tremila diamanti, centocinquanta autoveicoli e oltre ottantamila dollari in contanti.
Vedi: Migliaia di rifugiati dal Congo-K scappano in Angola. E gli angolani fuggono in Namibia.
Vedi: Angola. La mannaia del regime sui migranti. Caccia all'uomo: arrestati centinaia di stranieri.
By Africa Express


Mappa della provenienza dei jihadisti mozambicani e dell’area degli attacchi
Mappa della provenienza dei jihadisti mozambicani e dell’area degli attacchi

5 ottobre 2018
MOZAMBICO. COMINCIATO IN UN’ENORME TENDA IL PROCESSO A QUASI DUECENTO SOSPETTI JIHADISTI

 

Fino ad ora sono 189 i detenuti sospettati di essere militanti islamici accusati di terrorismo nella provincia di Cabo Delgado, nell'estremo nordest del Mozambico, a 2.500 km dalla capitale Maputo.
Mercoledì scorso è iniziata la prima fase del processo contro i presunti jihadisti e, visto il grande numero di imputati, l’aula improvvisata del tribunale è una grande tenda montata nel cortile del carcere di Pemba, capoluogo della provincia mozambicana.

Centocinquantadue degli accusati sono cittadini mozambicani. Gli altri sono stranieri: 29 tanzaniani e tre cittadini somali. Tra gli imputati ci sono anche 42 donne. Le accuse, lette dal procuratore Rodrigo Munguambe, a carico dei presunti terroristi islamici sono gravissime: omicidio di primo grado, uso di armi bandite, appartenenza ad associazione criminale e istigazione alla disobbedienza collettiva contro l’ordine pubblico.
I detenuti mozambicani per la maggior parte sono dell’area di Cabo Delgado ma provengono anche dalle province centrali del Paese: Zambezia e Nampula, e da Beira, seconda città mozambicana e capoluogo della provincia di Sofala.
Secondo quanto detto dal procuratore Munguambe i seguaci del gruppo jihadista sono stati reclutati nelle moschee locali da cittadini stranieri provenienti dalla confinante Tanzania. Il reclutamento è stato possibile attraverso la promessa di una grande quantità di denaro se gli affiliati avessero incitato i cittadini di Cabo Delgado a disobbedire e a mancare di rispetto alle autorità dello Stato mozambicano.
I detenuti tanzaniani provengono invece dall'isola di Zanzibar e delle aree di Songea, Mtwara e Masasi, vicino al confine mozambicano. I tre somali sono della zona di Chisimaio, nel sud della Somalia. Lunedì prossimo la fase processuale avrà inizio con gli interrogatori dei singoli accusati.
Viene così confermato lo studio sull'estremismo islamico in Mozambico voluto dal presidente mozambicano Filipe Nyusi e realizzato da João Pereira e Salvador Forquilha dell’Università di Maputo con il leader religioso islamico Saide Habibe.

Esattamente un anno fa, il 5 ottobre, il primo attacco jihadista a una stazione di polizia di Mocimboa da Praia, cittadina di Cabo Delgado dove sono stati uccisi tre poliziotti e 17 estremisti islamici.
Dalla popolazione vengono chiamati al Shabaab ma secondo l’indagine di Pereira e Forquilha il loro nome è “Ahlu Sunnah Wa-Jammá” (in arabo ‘seguaci della tradizione del profeta’) e nelle settimane e mesi seguenti sono continuati altri assalti alla popolazione civile nelle città e nei villaggi isolati depredati e messi a ferro e fuoco.
Con il passare dei mesi gli attacchi sono diventati più brutali e soprattutto l’obiettivo è diventato la popolazione inerme ammazzata a colpi di AK-47 e all'arma bianca. Fino ad ora si contano – secondo Bernardino Rafael, comandante della polizia mozambicana (PRM) – novanta morti, anche decapitati o bruciati vivi. Tra questo anche bambini. I feriti sono stati sessantasette e oltre 1.600 le case distrutte con migliaia di sfollati.

Il presidente Nyusi, in aiuto della polizia locale, ha mandato le Forze armate che hanno chiuso o raso al suolo varie moschee. È infatti necessario fermare una deriva estremista che sarebbe potuta diventare ingestibile in un territorio dove ENI ed ExxonMobil stanno lavorando all'estrazione di gas naturale da uno dei maggiori giacimenti africani che sarà operativo nel 2021.
Bisogna ricordare che a qualche centinaio di chilometri, a sudovest dalla zona degli attacchi jihadisti, opera la Montepuez Ruby Mining nel più grande giacimento di rubini del mondo. Qui i capi delle cellule che ammazzano e distruggono in Mozambico si finanziano con il contrabbando di pietre preziose ma anche con l’avorio illegale e il legno pregiato. La posta in gioco per il Mozambico è troppo alta.
By Africa Express


Geroge Weah, il nuovo presidente della Liberia
Geroge Weah, il nuovo presidente della Liberia

29 settembre 2018
LIBERIA. SPARITI NEL NULLA 83 MILIONI DI EURO MENTRE WEAH VARA LA RIFORMA TERRIERA

 

Si allarga a macchia d’olio l’inchiesta nell'ambito di una indagine sulla scomparsa di quindici miliardi di dollari liberiani (l’equivalente di ottantatremila euro). Alle quindici persone indagate già una settimana fa, si sono aggiunte altre ventitré. Il denaro introvabile al momento attuale, era stato stampato all'estero e destinato alla Banca centrale di Monrovia, la capitale della Liberia.
Le banconote sarebbero arrivate nel Paese tra novembre 2017, quando il presidente in carica era ancora Ellen Johnson Sirleaf, e agosto 2018, ma nella banca non sono state trovate tracce del malloppo.

All'inizio di agosto il nuovo governo ha aperto un’inchiesta e Musa F. Dean, ministro della Giustizia, ha fatto sapere che l’amministrazione di George Weah non era stata informata dell’arrivo dei contanti. I media locali, invece, hanno riportato che banconote fresche di zecca sarebbero giunte via nave nel mese di marzo e prese in consegna al porto Monrovia da personale della Banca centrale, dove però non sarebbero mai arrivate.
Attualmente sono indagate ben trentotto persone, per lo più impiegati della Banca centrale, tra loro anche il figlio della ex presidente, Charles Sirleaf, vice governatore, e Milton Weeks, ex governatore dell’istituto finanziario pubblico, e George Abi Jaoudi, uomo d’affari libanese, molto vicino alla Sirleaf. A tutti è stato vietato di lasciare il Paese ed è stata richiesta loro la massima collaborazione nell'inchiesta sull'importazione del denaro. In un comunicato il ministero dell’Informazione ha sottolineato che si tratta di questioni riguardanti la sicurezza nazionale.

Weah, che ha dominato la scena calcistica mondiale per anni e che nel 1999 è stato scelto dalla International Federation of Football History & Statistics, come calciatore africano del secolo, pochi giorni fa ha promulgato una legge sulla riforma riguardante la proprietà terriera, definita “storica” e il cui testo prevede maggiori diritti alle comunità locali sulle terre non private e inoltre, per la prima volta nella storia della Liberia, offre anche agli stranieri la possibilità di diventare proprietari terrieri.
Una riforma importante per questo Paese, che conta poco più di 4,6 milioni di abitanti, dei quali oltre il cinquanta per cento è costituito da minorenni. La Liberia è uno degli Stati più poveri del Continente con un’entrata pro capite annua di soli 455,37 dollari.
La riforma, volta a trasformare il diritto consuetudinario in diritto di proprietà a tutti gli effetti, prevede anche la possibilità a società e organizzazioni straniere di possedere terre in Liberia. In base al testo di legge, le comunità locali potranno far valere i loro diritti anche grazie a testimonianze, mappe, accordi con comunità confinanti e altri documenti. Entro due anni sarà preparato un catasto nazionale dei terreni comunitari e solo il dieci per cento del suolo di una comunità sarà considerato di domino pubblico e potrà essere dato in concessione a società private. La nuova legge dà ampio potere alle popolazioni locali per definire l’utilizzo del suolo a fini agro-pastorali o per la conservazione della natura. Inoltre, i contadini che dimostreranno di avere lavorato per almeno quindici anni appezzamenti di terra ne diventeranno proprietari.

E per la prima volta anche gli stranieri, organizzazioni non governative, missionari potranno possedere proprietà terriere purché vengano utilizzate per lo scopo per le quali sono state concesse. In caso contrario ritorneranno al vecchio proprietario.
In passato, secondo la Costituzione, solamente i neri – “people of colour” – potevano acquisire la cittadinanza liberiana e solo chi era in possesso di questo requisito poteva possedere proprietà. Lo scorso gennaio Weah ha annunciato la cancellazione delle clausole sulla proprietà, perché antiquate e inappropriate nel ventunesimo secolo. Ha promesso anche l’abolizione della clausola razzista secondo cui solo chi ha la pelle nera può diventare cittadino liberiano.
La questione delle terre ha creato molti contrasti in passato tra l’elite dei discendenti degli schiavi affrancati americani-liberiani, che detenevano i titoli di proprietà della terra, e i contadini. La popolazione è scossa ancora oggi, non si è ancora ripresa dalla sanguinosa guerra civile durata ben quattordici anni e dalla terribile epidemia di ebola del 2014-2015.

Nel dicembre del 1989 il National Patriotic Front of Liberia (NPFL), capeggiato da Charles Taylor, comincia una rivolta nel nord del Paese e ben presto prende il controllo di quasi tutto il territorio, eccetto della capitale Monrovia. Alla guerra civile partecipano sette fazioni rivali; termina con gli accordi pace nel 1997. Nelle elezioni che seguono, Taylor viene eletto presidente. Nel 1999 ricominciano i disordini, ma Taylor prede il controllo della situazione. Nel 2003 altra guerra civile che termina con la fuga del presidente in Nigeria. Si stima che in questi quattordici anni siano morte almeno duecentocinquantamila persone, mentre centinaia di migliaia hanno dovuto lasciare le proprie case e fuggire.
Nel 2012 Charles Taylor viene condannato dalla Corte penale internazionale per ben undici capi di accusa relativi ai crimini di guerra. Attualmente sta scontando una pena di cinquant'anni in una prigione della Gran Bretagna.

La storia della Liberia rappresenta un caso unico nel panorama africano. Lo Stato nacque infatti per iniziativa di un gruppo di schiavi affrancati che tornarono in Africa dagli Stati Uniti d’America, finanziati nel loro avventuroso viaggio da un gruppo di aziende private. La capitale del Paese si chiama per questo motivo Monrovia, in onore del presidente James Monroe, che liberò moltissimi schiavi, ed anche la bandiera rievoca quella americana nelle forme e nei colori.
By Africa Express


José Filomeno dos Santos, secondogenito dell’ex presidente dell’Angola
José Filomeno dos Santos, secondogenito dell’ex presidente dell’Angola

29 settembre 2018
ANGOLA. CADE UN’ALTRA TESTA DELLA DINASTIA DOS SANTOS: ARRESTATO JOSÉ FILOMENO

 

José Filomeno dos Santos, figlio dell’ex presidente dell’Angola, indagato per appropriazione indebita dallo scorso marzo, è stato arrestato all'inizio di questa settimana. Insieme al rampollo di casa dos Santos è finito dietro le sbarre anche lo svizzero-angolano, Jean-Claude Bastos de Morais, suo amico e socio in affari.
Nel 2013 il padre, Edoardo dos Santos aveva affidato al suo secondogenito la presidenza del fondo statale petrolifero, incarico che il nuovo presidente ed ex delfino del leader uscente, João Lourenço, gli ha tolto all'inizio dell’anno, dopo aver rimosso la primogenita Isabel già nel novembre 2017 da presidente della Sonangol, la compagnia petrolifera di Stato.

Il secondogenito di dos Santos è stato posto in detenzione preventiva per la gravità delle accuse che gli sono state contestate: frode, appropriazione indebita di fondi, traffico di influenze illecite, riciclaggio di denaro, associazione criminale, corruzione e più chi ne ha, più ne metta. La procura di Luanda sta inoltre indagando sulla legittimità di un trasferimento di cinquecentomila dollari su un conto svizzero, mentre José Filomeno era ancora presidente del fondo statale petrolifero. La somma in questione era depositata presso la banca centrale di Luanda ed è stata versata su un conto di una delle succursali londinesi del Credito Svizzero nel settembre 2017, poco dopo l’insediamento del nuovo presidente Lorenço. Già a marzo il procuratore generale aggiunto, Luis Benza Zanga, aveva ritirato il passaporto al giovane dos Santos e aveva promesso: “Nessuna indulgenza nemmeno per “Zénu”, come viene chiamato dalla popolazione José Filomeno. Per il momento il suo legale, Benja Satula, non ha rilasciato alcun commento.
Solo tre anni fa era praticamente certo che il secondogenito avrebbe seguito le orme del padre, ma Lourenço, l’ex ministro della Difesa, è riuscito ad imporsi in seno all’MPLA, il partito al potere, che infine lo ha indicato come loro candidato alle presidenziali dello scorso anno.
Lourenço, presidente della ex colonia portoghese dal 26 settembre 2017, durante la sua campagna elettorale aveva promesso di combattere la galoppante corruzione e sembra che davvero faccia sul serio. Infatti solo poche settimane fa ha costretto Edoardo dos Santos ad uscire completamente dalla vita politica del Paese, che lo ha visto protagonista dal 1979 al 2017. L’anziano e malato Edoardo si è dimesso ora anche come presidente del partito al potere, il Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA), consegnando lo scettro al nuovo capo di Stato.

L’arresto di Josè Filomeno ha colto di sorpresa la popolazione tutta: è il primo membro della dinastia dos Santos ad essere incarcerato, che per decenni ha dominato la scena politica e finanziaria dell’ex colonia portoghese ricca di petrolio. Alcides Sakala, deputato e portavoce di Unita, il maggiore partito all'opposizione, ha elogiato il nuovo presidente con queste parole: “Sta mantenendo le sue promesse. L’Angola deve diventare uno Paese normale, uno Stato di diritto e democratico”. Mentre Joao Pinto, parlamentare dell’MPLA ha sottolineato: “Rispettiamo assolutamente la divisione dei poteri e se sono stati commessi degli errori in passato, il giudizio spetta ai tribunali”.
Durante il primo anno della sua presidenza, Lourenço ha già fatto cadere diverse teste della precedente amministrazione, inoltre ha revocato contratti, stipulati a nome dello Stato dal clan dos Santos. E la scorsa settimana è stato arrestato anche l’ex ministro dei Trasporti, Augusto da Silva Tomas, per malversazione e appropriazione indebita di fondi.
Segnali forti e importanti del nuovo governo angolano, un’inversione di marcia, dopo anni di impunità, nepotismo, protezionismo, favoritismo e corruzione.
By Africa Express


Mappa di Cabo Delgado dell’area dell’attacco jihadista
Mappa di Cabo Delgado dell’area dell’attacco jihadista

24 settembre 2018
MOZAMBICO. ANCORA UN ATTACCO JIHADISTA. DODICI MORTI, DUE BAMBINI BRUCIATI VIVI

 

Ancora sotto attacco la provincia di Cabo Delgado dove una cellula jihadista ha assaltato un villaggio uccidendo dodici abitanti. Dopo aver ammazzato dieci persone disarmate a colpi d’arma da fuoco i terroristi hanno dato fuoco a 55 case dove due bambini sono bruciati vivi. Non contenti i miliziani hanno hanno decapitato con un machete una delle persone ammazzate. I feriti, quattordici secondo fonti locali, sono stati trasportati all'ospedale di Pemba, capitale di Cabo Delgado.
Il brutale attacco a ferro e fuoco è avvenuto il 20 settembre scorso alle 22.00 nel villaggio di Paqueue, nel distretto di Mocomia a nord-est del Paese. La zona dell’ultimo attacco, come i precedenti, è nelle vicinanze di un’area dove operano le multinazionali petrolifere ENI, ExxonMobil e la statunitense Anadarko che stanno lavorando a due terminali per lo sfruttamento di uno dei maggiori giacimenti di gas off-shore del continente africano, di fronte alla città di Palma.
Quello dello scorso 20 settembre è solo l’ultimo degli attacchi dei miliziani chiamati dalla popolazione al Shabaab. Le azioni dei terroristi sono iniziate nel mese di ottobre 2017 e le Forze di sicurezza mandate dal presidente mozambicano Filipe Nyusi in aiuto alla polizia locale, fino ad ora non sono riuscite a fermare i circa trenta gruppi di estremisti islamici che operano nel nord di Cabo Delgado.

Uno studio commissionato dal presidente Nyusy all'Università Eduardo Mondlane di Maputo portato avanti da João Pereira e Salvador Forquilha con il leader religioso islamico Saide Habibe, lo scorso maggio ha svelato una realtà allarmante nell'ex colonia portoghese.
I gruppi jihadisti si ispirano al religioso musulmano Aboud Rogo Mohammed, accusato di sostenere al Shabaab in Somalia, e ucciso in Kenya nel 2012. Nella provincia di Cabo Delgado, molti dei giovani delle cellule eversive sono stati addestrati nella Regione dei Grandi Laghi grazie a donazioni che arrivano sia dall'interno del Mozambico sia dall'estero.
Ma il grosso del denaro proviene anche dal commercio illegale di avorio e di legno pregiato del Niassa e di rubini provenienti dalle miniere di Montepuez . Nel giugno scorso è circolato un video trasmesso dall'emittente di stato TV Moçambique prodotto da una delle cellule jihadiste di Cabo Delgado che, in modo molto confuso, rivendica l’attacco di Mocímboa da Praia e afferma di volere uno stato islamico in Mozambico.
By Africa Express

Gli ultimi scontri a Tripoli
Gli ultimi scontri a Tripoli

24 settembre 2018
LIBIA. ORMAI È TUTTI CONTRO TUTTI. SOPRAVVIVERE AI MASSACRI O FUGGIRE DA TRIPOLI

 

A Tripoli si teme una guerra prolungata come nel 2014 o ancora peggiore, visto che da allora le condizioni di vita in Libia sono continuamente peggiorate, fino alla nuova grave crisi che dalla fine dello scorso agosto ha fatto oltre 110 morti e oltre 400 feriti, solo nella capitale. L’economia e la sicurezza si sono sempre più deteriorate da quando Tripoli è finita in mano al blocco delle milizie islamiste (un’etichetta, in realtà un cartello mafioso di potenti bande criminali) legate all'esecutivo – legittimato dall’ONU – del premier Fayyez al Serraj. Gli ultimi 15 morti a Tripoli del 21 settembre sono la riprova che la quiete, raggiunta attraverso giorni di mediazione delle Nazioni Unite e di varie cancellerie straniere, era solo di facciata.
I problemi restano, Tripoli può tornare a incendiarsi in qualsiasi momento per questioni diverse di zona in zona, come il “controllo di una banca, dell’aeroporto o anche l’uccisione per errore di una persona”, racconta ad Africa ExPress la giovane scrittrice di Tripoli Nadia Ramadan, molto attiva sui social network, che conferma gli scontri diffusi in diverse zone, non solo nei quartieri meridionali. “Da lì sono partiti con l’arrivo della Settima brigata dalla città a sud di Tripoli, Tarhouna”. Attraverso la strada del vecchio aeroporto hanno poi raggiunto “l’area di Abu Saleem”, la Tripoli bene di “al Andalus”, fino all'altro scalo a nord-est, l’unico funzionante, del Mitiga, bersagliato da razzi. Per giorni gli scontri si sono avvertiti chiaramente anche a Tajoura, dove abita Ramadan, una dozzina di chilometri a est di Tripoli.
Al Serraj è come accerchiato nella base protetta di Abu Sitta, sulla costa. Frange di milizie di altre città sono accorse in diversi quartieri della capitale, per combattere insieme alla Settima brigata il cartello politico-criminale che controlla tutti gli affari e la politica di Tripoli. Anche nel 2017 una parte delle milizie islamiste era entrata in collisione con il governo di al Serraj e aveva lanciato l’assalto dei ministeri, ma gli scontri non erano mai durati più di una settimana. La gente ha sempre più paura e inizia a riparare in altre zone o all'estero. Come durante le rivolte del 2011 contro Gheddafi, e quattro anni fa, quando il fronte islamista di Alba libica rovesciò il governo laico (un’altra etichetta) partorito delle elezioni democratiche – a bassissima affluenza – conquistando la Tripolitania, parte dei residenti è stata evacuata dalle zone degli scontri.

Per chi resta i guai sono anche economici, per alcuni di sopravvivenza: da un paio di anni le banche non hanno liquidità, l’elettricità salta per diverse ore al giorno (fino a nove ultimamente) e di conseguenza parecchie attività sono bloccate. Questa estate, con la colonnina di mercurio che superava i 40 gradi, diverse famiglie hanno raggiunto le spiagge e si sono gettate in mare per refrigerarsi, i più fragili soffrono senza condizionatori. “C’è chi cerca ogni giorno di trarre il meglio dal peggio, adattandosi, e chi invece riesce a lasciare il Paese”, spiega Ramadan. Tutti sono a ragion veduta arrabbiati con il governo, in teoria di unità nazionale, di al Serraj, nato dopo mesi di negoziati dell’Onu tra diverse parti, ma incapace in due anni e mezzo di realizzare la benché minima parte del programma.
Anzi la criminalità e le divisioni tra libici sono ulteriormente aumentate. Verso l’offensiva della Settima brigata e delle altre milizie salite sul carro i sentimenti sono “misti”: una parte dei tripolini si aggrappa alla speranza degli slogan di liberare Tripoli dal cartello dei gruppi armati corrotti di al Serraj e del suo vice Ahmed Maitig; altri disillusi sono consapevoli che si tratta pur sempre di altre milizie che entrano a Tripoli “solo per farsi gli affari loro”, chiosa Ramadan. Spartirsi la torta o quel che ne rimane: nel saccheggio della Libia che va avanti dal 2011, la gente ha perso il conto delle milizie presenti sul territorio, si limita a pagare il pizzo a quelle che lo impongono e a dare il meno possibile nell'occhio, specie se si possiedono beni e proprietà attraenti.

Nell’ex colonia italiana in ogni città-Stato (contano i sindaci e le rispettive milizie di riferimento, non il governo di Tripoli) non si sa quel che accade in altre città-Stato, anche per i quartieri della capitale è lo stesso. Gli analisti hanno ricostruito che al momento i gruppi armati e criminali di Tripoli fanno capo a un cartello di tre grosse brigate e relativi signori della guerra (Haitham al Tajouri, comandante delle Brigate rivoluzionarie di Tripoli, la brigata di Ghnewa al Kikli e le forze di Abdel Rauf Kara). Quattro considerate anche le unità speciali Rada di matrice salafita: la principale forza antiterrorismo di al Serraj, peccato che sui costumi da rispettare la pensino più o meno come l’ISIS e arrestino “per indecenza” chi li trasgredisce. Circa un anno fa, le Rada che scattano in azione contro l’ISIS hanno portato via anche dei bambini in un blitz all'evento “blasfemo” Comic on.

Centinaia di persone, anche libiche, spariscono in prigioni durissime, private dei basilari diritti. L’impressione di Ramadan, come di tante persone comuni, è che “le milizie che comandano a Tripoli siano molte di più di quattro”. La gran parte delle informazioni che arriva ai cittadini è “politicamente pilotata, in particolar modo le notizie sull’ISIS”. È impossibile ricostruire quanto accade, anche a causa delle numerose forze interne ed esterne che tentano di accaparrarsi la Libia o parte di essa. Sull’ISIS c’è buio fitto, come sul Movimento dei giovani libici sbucato dal nulla che ha iniziato a manifestare contro le lobby di Tripoli e la crisi stagnante. Di certo c’è solo che l’attentato del 10 settembre scorso rivendicato dall’ISIS alla sede della Compagnia nazionale del petrolio (NOC) non può essere opera di alcuna delle milizie in guerra tra loro: tutti i gruppi armati traggono profitto, sotto varie forme, dagli introiti del NOC. Non a caso il suo quartier generale nella capitale non era mai stato colpito prima.
Anche il clan dei Gheddafi, attraverso il delfino del rais Saif al Islam sopravvissuto alle rappresaglie, è tra gli attori che hanno interesse a destabilizzare la Libia. Tuttavia sempre più libici, incluso chi nel 2011 parteggiava per le rivolte, rimpiangono il regime. “Siamo ostaggio delle milizie”, commenta Ramadan, “per i libici è uno dei periodi più difficili mai vissuti, soprattutto nel sud”. Nel deserto che sconfina nel Sahel il controllo del territorio è sempre stato molto scarso e i traffici di mercenari, armi, terroristi dell’ISIS e di altri gruppi jihadisti in fuga anche dalla Siria e dall’Iraq si sono intensificati dalla caduta di Gheddafi. Ognuno fa entrare i mezzi e gli uomini che vuole. Ma l’anarchia riguarda ormai tutta la Libia, “perduta dal 2014” per Ramadan. Prima di allora i “gruppi armati non erano così frammentati, le elezioni avrebbero forse potuto essere salvate. La situazione in qualche modo poteva esser risolta”. Oggi quasi nessuno lo crede più a Tripoli.
By Africa Express

Nel 1996, morirono più di 500 persone  quando un traghetto affondò vicino a Mwanza sul Lago Vittoria
Nel 1996, morirono più di 500 persone quando un traghetto affondò vicino a Mwanza sul Lago Vittoria

21 settembre 2018
Lago Vittoria. Si aggrava ancora il bilancio del naufragio.

 

È sempre più tragico il bilancio del naufragio di un traghetto nel lago Vittoria, nel nord della Tanzania: le vittime accertate sono più di 130.
Finora sono state tratte in salvo solo 40 persone, ma il numero dei dispersi resta incerto perché non è ancora chiaro quante fossero a bordo dell'imbarcazione che aveva una capienza di cento passeggeri ma era sicuramente sovraccarica.
La nave MV. Nyerere si è capovolta a soli 50 metri dal porto dove sarebbe dovuta attraccare nel percorso tra le isole di Ukerewe e Ukara. Alcuni testimoni hanno raccontato alla televisione di Stato che a bordo c'erano circa 200 passeggeri. Il governatore della regione di Mwanza, John Mongella, non è stato in grado di confermare il numero.

 

20 settembre 2018
TANZANIA. IL TRAGHETTO SI CAPOVOLGE: I MORTI SI CONTANO A DOZZINE. IL SALVATAGGIO VIENE SOSPESO

 

Il governo della Tanzania dice che almeno 40 persone sono morte quando il traghetto si è capovolto sul lago Vittoria con circa 200 passeggeri a bordo.
Si ritiene che il traghetto avesse una capacità di circa 100 persone.
"Secondo i rapporti che il presidente John Magufuli ha appena ricevuto dalle autorità di Mwanza, il bilancio è di oltre 40 morti", ha detto il portavoce del presidente, Gerson Msigwa, alla televisione di stato.
L'agenzia della Tanzania, che gestisce i servizi dei traghetto, ha detto che la barca conosciuta come MV Nyerere è affondata giovedì pomeriggio vicino all'isola di Ukara.
John Mongella, il commissario di Mwanza, ha detto che 37 persone sono state salvate, ma i prolungati sforzi dei soccorritori durati fino allo sfinimento sono stati sospesi. Non poteva dire quante persone erano sul traghetto fino a quando l'operazione di ricerca e salvataggio era finita.
Catherine Soi, di Al Jazeera, ha riferito che la barca trasportava anche il carico quando è affondata. "Quello che sappiamo anche dai testimoni - ha detto - è che il traghetto, con una capacità di 100 persone, sembrava sovraccarico".

Nel 1996, una simile tragedia nella stessa regione del lago Vittoria, fece oltre 500 vittime.
Nel 2012, 145 persone sono morte in un analogo disastro nell'arcipelago semi-autonomo di Zanzibar, nell'Oceano Indiano, su un traghetto sovraffollato.

L’espressione spietata e arrogante di uno sterminatore. Chi gli fornisce il mitra che impugna? Facile, Israele!
L’espressione spietata e arrogante di uno sterminatore. Chi gli fornisce il mitra che impugna? Facile, Israele!

20 settembre 2018
SUD SUDAN. MACELLAI IN AZIONE. STUPRI, MASSACRI E BAMBINI ACCECATI E BRUCIATI VIVI

 

Il precedente rapporto di Amnesty International sul Sud Sudan risale a poco più di quindici giorni fa e già riportava dettagli sulle atrocità commesse nei confronti di civili inermi, da parte delle forze armate fedeli al presidente Salva Kiir, ma l’orrore di questa interminabile mattanza sembra tutt'altro che destinato a estinguersi, anzi, divampa con sempre maggiore recrudescenza, sia ad opera delle truppe regolari, sia da parte delle milizie fedeli a Riek Machar, ex vice-presidente di Salva Kiir e oggi suo acerrimo oppositore.
Oggi un nuovo rapporto di Amnesty International porta ulteriori notizie sulla disumana ferocia che gli sgherri dei due contendenti mettono in atto contro la popolazione civile, benché le quasi quotidiane proclamazioni del governo in carica, parlano ipocritamente di incontri e di tentativi per portare la pace in questa terra martoriata dall'indigenza e dalla persecuzione.
Gli stupri, attuati con brutale disinvoltura, anche nei confronti di bambine che non hanno ancora raggiunto l’età puberale, sembrano ormai rappresentare il crimine di minor rilevanza, nell'orripilante scenario di crudeltà dei bravacci armati che invadono i villaggi come un castigo biblico. Uomini, donne e bambini, sono rinchiusi nei propri tradizionali tukul di paglia e fango, che vengono quindi incendiati. Gli occupanti bruciano vivi come torce umane. I bimbi anche di tre o quattro anni, vengono impiccati agli alberi e lasciati oscillare di fronte ai propri familiari finché non vengono graziati dalla morte.

Sembra incredibile che in un mondo lanciato verso una sempre più sofisticata tecnologia, vi siano ancora angoli di mondo, in cui la spietatezza umana ricalchi le deprecabili gesta e la ferocia della più oscura epoca medievale. Eppure quello stesso mondo aveva gioito quando il Sudan meridionale era stato sottratto alle persecuzioni dell’etnia araba del nord guidata dal dittatore Al Bashir, poi ricercato dal tribunale Internazionale per crimini contro l’umanità. Eppure il Sud Sudan era giunto all'indipendenza nel 2011 grazie a un referendum popolare che esprimeva ben il 98 per cento dei consensi a favore dell’attuale presidenza di Salva Kiir, il quale, solo due anni dopo, riportava il proprio paese in un’atmosfera di terrore, uguale, se non peggiore, di quella subita dalla vecchia dominazione araba.

L’ultimo rapporto di Amnesty contiene riscontri del tutto agghiaccianti. Una madre, che cercava di mettersi in salvo con il figlioletto di pochi mesi di vita, veniva uccisa con una sventagliata di mitra e il piccolo, rimasto miracolosamente illeso, veniva più volte sbattuto contro un albero fino a che il suo piccolo cranio si frantumava. “Per impedire che i bambini crescano e si uniscano ai ribelli”, sono le macabre giustificazioni per queste atrocità. Le persecuzioni maggiori si concentrano nelle contee di Mayendit e Leer, ritenute da parte delle forze regolari, quelle più fedeli all'opposizione. Ma anche questa giustificazione non regge alla prova dei fatti visto che la ferocia degli assalitori si compie sgozzando pubblicamente anche ultra novantenni i quali non possono certo rappresentare un pericolo bellico nei loro confronti.
Nel villaggio di Thonyoor, i soldati hanno rastrellato un folto numero di bambini, alcuni di soli due o tre anni, li hanno rinchiusi in un tukul che quindi hanno dato alle fiamme. Quei pochi che sono riusciti a fuggire, sono stati inseguiti con veicoli che li hanno travolti e uccisi. Una bambina di soli tredici anni è stata violentata dai componenti di un plotone di soldati che l’hanno tenuta a loro disposizione per un’intera settimana. Per sperimentare ogni sorta di perfidia, gli assalitori si compiacciono, a volte, di lasciare in vita le loro vittime, dopo averle evirate, mutilate in altre parti del corpo o accecate.

Può il mondo restare indifferente di fronte a questo raccapricciante scenario? Ahimè, a parte le solite accorate e sterili riprovazioni, pare proprio di sì, anzi, in quel mondo ci sono potenti Paesi che armano e si arricchiscono proprio grazie alle azioni di questi innominabili macellai. Sfruttano le loro ingenti risorse petrolifere e lasciano che tutto proceda as usual. “Non c’è belva tanto feroce che non abbia qualche senso di pietà – scrive Shakespeare nel suo Riccardo III – ma io non ne ho alcuno, giacché non sono una belva”.
By Africa Express

Il presidente del Sud Sudan Salva Kiir che doveva portare il Paese al progresso e alla pace
Il presidente del Sud Sudan Salva Kiir che doveva portare il Paese al progresso e alla pace
Il leader dei ribelli Riek Machar. In quanto a crudeltà non teme il confronto con il rivale Salva Kiir
Il leader dei ribelli Riek Machar. In quanto a crudeltà non teme il confronto con il rivale Salva Kiir

Bambini e adolescenti sud sudanesi implorano i loro aggressori per aver salva la vita
Bambini e adolescenti sud sudanesi implorano i loro aggressori per aver salva la vita
Richiedenti asilo africani protestano contro il piano di espulsioni del governo israeliano a Gerusalemme, il 26 gennaio 2017
Richiedenti asilo africani protestano contro il piano di espulsioni del governo israeliano a Gerusalemme, il 26 gennaio 2017

20 settembre 2018
Breve cronaca dell’industria bellica israeliana che ha prodotto migliaia di profughi

 

Il 2 aprile 2018 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è tirato indietro da un accordo con l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR). L’intesa avrebbe determinato il destino di 42mila africani – in gran parte provenienti da Eritrea e Sud Sudan – che vivono in Israele.
L’UNHCR avrebbe trasferito 16.250 rifugiati africani in paesi occidentali come Canada, Germania e Italia. In cambio, Israele avrebbe concesso uno status legale temporaneo a un numero equivalente di profughi. Il 2 aprile, però, Netanyahu ha dichiarato che l’accordo era ormai morto.
Negli ultimi anni il governo israeliano ha inviato numerose notifiche di respingimento agli africani, che sono stati messi davanti a una scelta difficile: accettare una modesta cifra e trasferirsi in Ruanda o Uganda, oppure essere incarcerati in Israele per il resto della vita. Tra dicembre 2013 e giugno 2017 quattromila eritrei e sud sudanesi residenti in Israele sono stati trasferiti in Ruanda e Uganda in base a questo “programma di rimpatrio volontario”.

Nel 2009 Israele si è arrogato il diritto di scegliere chi deve essere considerato un rifugiato. 
Quando sono arrivati in Ruanda e Uganda, però, hanno scoperto che non esisteva alcun accordo. Non hanno ricevuto documenti di soggiorno né alcuno strumento per adattarsi alla loro nuova vita. La promessa era un imbroglio. Anziché tornare in Eritrea e Sud Sudan, i migranti hanno cominciato a spostarsi verso la Libia, a nord, per poi tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo.
Israele fa parte dei firmatari della Convenzione sui rifugiati dell’Onu del 1951, di conseguenza deve rispettare le regole della Convenzione e fornire un rifugio sicuro ai profughi. Ma non è stato così. Nel 2009 Israele si è arrogato il diritto di scegliere chi deve essere considerato un rifugiato. Da allora, il governo israeliano ha riconosciuto come rifugiati soltanto otto eritrei e due sud sudanesi. Tutti gli altri, secondo Netanyahu, sono “infiltrati”.
Nel frattempo il governo non ha nemmeno preso in considerazione le dodicimila richieste d’asilo presentate dagli eritrei e dai sud sudanesi. C’è un motivo per cui Israele ha ignorato le richieste: i richiedenti asilo provenienti da Eritrea e Sud Sudan presentano un alto tasso di accettazione della domanda in base ai numeri degli altri paesi (84 per cento per gli eritrei e 60 per cento per i sud sudanesi).
Gli africani sono stati chiusi nel carcere di Saharonim, nel deserto del Negev, o sono stati ospitati nelle aree più povere a sud di Tel Aviv. Il carcere è stato costruito nel 2012 per accogliere gli africani ed è considerato il più grande centro di detenzione di migranti al mondo. I detenuti hanno protestato spesso contro la loro incarcerazione e le condizioni di vita all'interno del carcere.
Gli scioperi della fame sono molto comuni. Eppure in nessun momento ai detenuti africani è stato concesso d’incontrare un funzionario del governo. Le istituzioni carcerarie israeliane hanno utilizzato gli scioperi come pretesto per negare ai detenuti qualsiasi concessione, come per esempio la possibilità di consumare il cibo in cella.

Razzismo.
Israele ha un problema serio. I nuovi dati demografici mostrano che la popolazione dei territori che vanno dal fiume Giordano al mare è divisa quasi in parti uguali tra israeliani e palestinesi. Il parlamento ha analizzato questi dati lunedì scorso. Cosa significano per lo stato ebraico?
La soluzione dei due stati è stata compromessa dall'aggressiva politica degli insediamenti di Israele in Cisgiordania e dall'annessione di ampie aree di Gerusalemme Est, e all'atto pratico Israele/Palestina è un unico stato con una popolazione equamente divisa tra palestinesi e israeliani. Le leggi, però, trattano i palestinesi e gli israeliani in modo molto diverso.
Non c’è da stupirsi se Israele è considerato quasi universalmente come uno stato di apartheid. La segregazione come condizione sociale evidenzia il comportamento delle persone nei confronti di quelli che vengono percepiti come “stranieri”. Gli africani non devono essere integrati nello stato di Israele, anche se molti parlano fluentemente ebraico, perché non sono bianchi e non sono ebrei. È l’essere neri e non-ebrei che li distingue.
Uno stato di apartheid è uno stato in cui vengono costruite barriere sociali per negare ad alcune persone l’esercizio dei propri diritti. Le politiche di apartheid di Israele nei confronti dei palestinesi plasmano inevitabilmente l’atteggiamento del governo verso i profughi africani: sono accettabili se si fermano per brevi periodi e fanno lavori sottopagati, ma sono assolutamente inaccettabili se cercano di ottenere i documenti necessari per restare nel paese.

Israele in Africa.
A metà marzo 2018 il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha visitato il Ruanda. In vista del suo viaggio, i funzionari della difesa israeliani si sono recati nel paese per vendere armi e tecnologia militare. In Ruanda sono arrivati il Direttorato per la cooperazione per la difesa internazionale di Israele e i funzionari dell’industria degli armamenti (Elbit Systems, Israel Aerospace Industries, IMI Systems, Soltam Systems), per firmare accordi per la vendita di armi dal valore complessivo sconosciuto.
Secondo l’Istituto internazionale di ricerca per la pace di Stoccolma (Sipri), le vendite di armi da parte di Israele nel continente africano sono aumentate esponenzialmente, con una crescita del 70 per cento tra il 2015 e il 2016 (ultimi dati disponibili). Tra le apparecchiature vendute ci sono droni, sistemi di comunicazione, fucili d’assalto, cannoni e veicoli corazzati. Tra i paesi che hanno comprato da Israele figurano Angola, Camerun, Etiopia, Nigeria, Ruanda e Senegal.
In ogni caso si tratta soltanto della punta dell’iceberg. Esiste un altro aspetto relativo alla vendita di armi da parte di Israele sul continente africano. Lo stato ebraico vende armi in Sud Sudan, sia ai ribelli sia al governo. L’arma più diffusa in Sud Sudan è il fucile Micro Galil ACE di fabbricazione israeliana (conosciuto nello stato dell’Alto Nilo come Galaxies), venduto da Israele prima e durante il terribile conflitto che ha stravolto il paese.
Nel 2016 un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha presentato un rapporto molto critico rispetto al ruolo dei commercianti d’armi israeliani ed europei nel conflitto. Il rapporto ha evidenziato che i fucili israeliani ACE sono stati consegnati alla milizia Mathiang Anyoor, responsabile per lo scoppio della guerra nel dicembre del 2013. Israele non ha collaborato con l’Onu per rintracciare i fornitori di armi.
In sostanza Israele contribuisce ad alimentare la devastazione in Sud Sudan. Questo caos ha prodotto una delle più ampie migrazioni del mondo, con 2 milioni di profughi. Una piccola parte di queste persone ha affrontato con coraggio il viaggio attraverso il Sudan e l’Egitto, fino a Israele. L’industria israeliana delle armi ha guadagnato sul loro dramma. Ora i profughi sono rinchiusi in prigione o minacciati di deportazione. La causa produce l’effetto, che nega la causa.

L’ingresso del Pumwani Maternity Hospital di Nairobi
L’ingresso del Pumwani Maternity Hospital di Nairobi

19 settembre 2018
KENYA. DODICI BAMBINI TROVATI MORTI E NASCOSTI IN SCATOLE DI CARTONE

 

Una visita a sorpresa del governatore di Nairobi Mike Sonko presso il Pumwani Maternity Hospital della capitale keniota, ha portato a una macabra scoperta: i corpi di dodici infanti, avvolti in sacchetti di plastica, sono stati trovati nascosti in scatole di cartone. I decessi sarebbero stati provocati dall'inspiegabile decisione della direzione ospedaliera di fermare i macchinari nel reparto maternità. L’intera direzione è stata immediatamente sospesa dal servizio, ma il raccapricciante evento resta per ora avvolto nel mistero.
Sonko avrebbe deciso l’incursione nella struttura sanitaria martedì scorso, allertato da un video apparso su Facebook che mostrava alcuni membri del personale ospedaliero transitare nei corridori del reparto maternità trasportando corpi di bimbi deceduti. La visita del governatore ha anche accertato altre gravi disfunzioni nell'attività medica, come l’irresponsabile assenza del ginecologo di servizio che, senza nessun preavviso o giustificazione, non si era semplicemente presentato in ospedale per attendere alle proprie funzioni.
La scoperta ha creato enorme sconcerto e indignata riprovazione nel pubblico e la notizia, dalle pagine dei media locali, è immediatamente rimbalzata sui giornali internazionali. L’intento di nascondere la tragedia è risultato di tutta evidenza quando il personale responsabile, interrogato dal governatore, ha ammesso la morte di un solo bambino avvenuta per cause naturali, ma la perlustrazione eseguita dallo staff di contea ha poco dopo svelato il tentativo di depistaggio.

Si attendono ora le iniziative che saranno prese dalla procura generale in relazione al terrificante accaduto. Ciò che è certo è che la già scarsa fiducia nell'efficienza ospedaliera nel Paese, come in tutto il resto, ha subito un ennesimo e non indifferente discredito.
Ovviamente i colpevoli non verranno mai puniti. Infatti, mentre i rapporti indicano tentativi di nascondere le morti per evitare la colpevolezza, i funzionari della salute della contea affermano che nessuno dei neonati è morto per negligenza, oltre a contraddire la presunta scoperta di corpi di neonati del governatore Sonko nelle scatole di cartone.
Vero è che l'ospedale è noto per la scomparsa dei neonati in quella che è una truffa ben congegnata che coinvolge il personale e la malavita nel traffico di bambini. Le testimonianze abbondano di terrificanti condizioni in cui vengono trattati bambini e madri in attesa. Medici e infermieri sono stati regolarmente accusati di maltrattare i pazienti. Scioccante ed inimmaginabile che la principale struttura di maternità della città non abbia neppure un obitorio.

Una semplice riflessione è d’obbligo: si parla di “scomparsa dei neonati”, “traffico di bambini”; la gente pensa ad esseri umani “vivi” perché non presta la dovuta attenzione che qui si tratta di esseri umani “morti”, incellofanati ed inscatolati, pronti per essere recapitati, come i loro predecessori, a chi …se non a coloro che di quei corpicini ne fanno materia di studio o forse è meglio dire oggetto di pratiche antropofaghe? Meditate gente! Meditate…

Il Tibesti è una regione nel nord del Ciad ai confini con la Libia
Il Tibesti è una regione nel nord del Ciad ai confini con la Libia

16 settembre 2018
CIAD. RICOMINCIA LA GUERRA CIVILE, ATTACCHI DEI RIBELLI E CONTRATTACCHI DELL’ESERCITO

 

Secondo alcune fonti locali, giovedì scorso due elicotteri dell’aviazione ciadiana hanno bombardato un accampamento a Kouri Bougoudi, città al confine con la Libia. Durante il raid sarebbero stati feriti parecchi civili.
L’intervento dell’aeronautica di N’Djamena è la risposta all'incursione di un gruppo di ribelli, avvenuto lo scorso 11 settembre a Kouri Bougri nella regione di Tibesti, poco distante dal confine libico. Si è trattato di uno dei peggiori attacchi subiti dal Ciad dal 2009. Le forze armate hanno diramato un comunicato nel quale sostengono di aver completamente sotto controllo la situazione. Non è chiaro se ci sono state perdite di vite umane e/o feriti.
In un documento video, un ribelle in abiti civili del gruppo armato Conseil de commandement militaire pour le salut de la République (CCMSR) ha raccontato: “Alle 2.23 del mattino dell’11 agosto scorso le nostre milizie hannao attaccato la città di Kouri Bougri e respinto le forze armate ciadiane”. Dal canto suo Kingabé Ogouzeïmi de Tapol, ex ministro del governo ciadiano, in esilio all'estero dal 1990 e ora segretario generale del gruppo ribelle, creato nel 2016 con base in Libia, ha sottolineato: “Questa città martire è la prima ad essere stata liberata. Tre colonne di combattenti sono partiti dalla Libia. Il nostro scopo è quello di mettere fine alla crisi economica e alla dittatura”.

Una settimana fa, lo Stato maggiore delle forze armate dell’ex colonia francese aveva diffuso un comunicato ufficiale nel quale sosteneva di aver respinto il nemico. Altre fonti della sicurezza hanno invece minimizzato l’attacco dei ribelli, declassandoli a briganti o trafficanti di droga. Mentre membri del gruppo armato CCMSR hanno confermato l’incursione, precisando di aver persino catturato alcuni soldati ciadiani.
Già i primi di settembre il Movimento Yina (parola araba che significa “siamo stanchi”) aveva denunciato bombardamenti che l’aeronautica militare ciadiana avrebbe effettuato nel Tibesti, tra Miski e Yebibo, ferendo una decina di civili. In effetti, fonti della difesa hanno ammesso di aver confuso una processione di nozze con un convoglio di ribelli del CCMSR. Da metà agosto il governo di N’Djamena ha messo in atto operazioni militari per la messa in sicurezza dell’area al confine con la Libia.

Proprio perché preoccupati delle loro frontiere a nord, a fine maggio Ciad, Niger e Sudan hanno firmato un accordo di cooperazione con la Libia per la lotta contro i trafficanti e il terrorismo. I quattro Paesi si sono impegnati di collaborare strettamente non solo scambiandosi informazioni; l’intesa prevede anche l’autorizzazione per le truppe di ciascun Stato a penetrare limitatamente nel territorio dell’altro. In pratica sono stati creati due coordinamenti distinti, uno militare, l’altro politico. Un terzo, quello giudiziario per facilitare le estradizioni è ancora in elaborazione. Ognuno dei governi assumerà il comando a rotazione per la durata di sei mesi.

Da tempo i confini di questi quattro Paesi sono molto controllati e sorvegliati, anche a causa della politica di esternalizzazione delle frontiere, messa in atto dall’Europa, per arginare il flusso migratorio.

Un recente rapporto dell’Istituto olandese per le relazioni internazionali Clingaendel ha spiegato perché molti stranieri si trovano nelle miniere aurifere ciadiane al confine con la Libia: i minatori sono liberi di circolare e dunque, per arginare i controlli, i migranti si qualificano come cercatori d’oro, altri invece, per necessità restano qualche mese ad estrarre il prezioso minerale per poter pagare la continuazione del viaggio. Altri ancora sono partiti dalle loro terre senza un soldo, così chiedono ai trafficanti di portarli a lavorare nelle miniere per poter finanziare il viaggio.
Per questo motivo questi ultimi vengono portati a Kilinje, nel sud della Libia, dove le condizioni di vita sono estremamente difficili e spesso il sogno dell’Europa termina qui. Ridotti in stato di quasi totale schiavitù, condannati ai lavori forzati per pagare i loro debiti, i più non riescono a racimolare sufficientemente denaro per il proseguimento del loro tragitto.
Il rafforzamento dei controlli alle frontiere arricchisce non solo le tribù che gestiscono le miniere, ma sopratutto i mercanti di uomini, sempre a spese dei poveracci, in fuga da guerre, conflitti interni, fame.
By Africa Express

La marcia su Tripoli della Settima brigata
La marcia su Tripoli della Settima brigata

6 settembre 2018
LIBIA. IL TRADIMENTO DI MISURATA SEGNA LA FINE DEL GOVERNO DI SERRAJ

 

L’evasione, durante gli ultimi scontri di Tripoli, di circa 400 detenuti vicini al regime di Mu'ammar Gheddafi, rimasti sotto chiave in Libia nonostante le turbolenze dal 2011, è un fatto strano.
Un altro degli aspetti che dà alla tregua, raggiunta con la mediazione dell’ONU, il sapore acre della sconfitta per il premier del governo riconosciuto internazionalmente, Fayez al Serraj, è il ruolo defilato della potente Città-Stato di Misurata. In teoria le brigate che guidarono la guerra a Gheddafi e che avrebbero poi espugnato, nel dicembre 2016, la vicina Sirte dall’ISIS, restano la colonna portante del governo virtuale di unità nazionale di Serraj.

Ma in pratica le brigate di Misurata, che sul campo sono anche la massima forza militare dell’esecutivo di Tripoli, sono accorse in aiuto di al Serraj solo una settimana dopo l’esplosione dei gravi scontri nella capitale del 27 agosto scorso, in cui sono rimaste uccise 60 persone. Quel che è peggio è che lo hanno fatto solo in minima parte: i comandi centrali non si dicono convinti di appoggiare ancora il premier in carica e stanno anzi coltivando rapporti sotterranei indicibili con il generale rivale Khalifa Haftar.
Il tradimento può presto staccare la spina ad al Serraj, cambiando la geografia politica della Libia come non accadeva dalla caduta di Gheddafi. L’esecutivo di Tripoli fu composto grazie al cartello delle forze islamiste e filo-islamiste di Alba libica che, al contrario delle forze armate del governo rivale guidato, nell'Est della Libia, dal generale Haftar, nel 2016 accettarono il compromesso dei negoziati dell’ONU in Marocco.

A Misurata si instaurò anche la missione italiana dell’ospedale militare, insieme con diverse unità di intelligence straniere, presenti anche per la guerra all’ISIS. E ad al Serraj e ai suoi alleati, diventati legittimi interlocutori dell’Occidente, iniziarono ad affluire finanziamenti ufficiali dell’UE e dei principali governi occidentali (oltre a quelli occulti alle milizie islamiste contro Gheddafi dal 2011). In Italia, e non solo, fecero scalpore i 5 milioni di euro che si raccontò inviati segretamente alla milizia di Ahmad Dabbashi operante nella zona di Sabratha, un leader significativo nelle attività illecite legate al traffico di migranti, per il piano dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, per fermare in Libia i migranti (Vedi “Accordo tra l’Italia e i trafficanti libici per fermare i flussi migratori”.

Gli appetiti delle altre milizie di Sabratha, escluse dalla torta, scatenarono una guerra nella cittadina peggiore dei precedenti attacchi subiti dall’ISIS. La logica della marcia su Tripoli di questa estate delle milizie islamiste entrate in collisione con al Serraj è la stessa. Dalla nascita del governo Serraj, le brigate di Tripoli hanno guadagnato - con metodi criminali come il taglieggio e con l’appoggio dello stesso consiglio presidenziale riconosciuto dall’ONU - sempre più potere economico nelle istituzioni chiave della Banca centrale libica e della Compagnia nazionale del petrolio (NOC), controllando anche i vertici di diverse società petrolifere, delle infrastrutture e dei trasporti nella capitale tornata centro del potere.

Nei quartieri che la Settima brigata ribelle di Tarhuna, a sud di Tripoli, e altre milizie saltate sul carro, promettono di liberare, a suon di cannonate, dalla «corruzione e dal racket» createsi ad opera di gruppi armati della capitale o di milizie lì distaccate che hanno creato un cartello delinquenziale imponendo tasse ai residenti e alle aziende ancora aperte, nonostante i black out di 9 ore al giorno.

La razzia delle risorse della Libia da parte, in questo momento, soprattutto delle milizie incaricate dal governo Serraj della sicurezza nella capitale è illustrata dettagliatamente nella mappa del giugno 2018, ricostruita dal massimo esperto di gruppi armati libici e delle loro fluidissime alleanze, il ricercatore tedesco del German Institute for International and Security Affairs (SWP) Wolfram Lacher, in collaborazione con l’ex tecnico del ministero dell’Interno libico Alaa al Idrissi, destituito nel 2014 proprio dal nascente blocco islamista di Alba libica che assaltò l’aeroporto di Tripoli.
Da allora gli islamisti hanno fatto il bello e il cattivo tempo nella capitale: un dominio del banditismo narrato con precisione a Internazionale dall'osservatore diretto, il regista tripolino Khalifa Abo Khraisse. Tre intraprendenti signori della guerra hanno progressivamente marginalizzato le brigate di Misurata e di altre località dagli affari nella capitale. E a loro, stanche e frustrate, nell'ultimo anno si è avvicinato il generale Haftar che ha sempre più esteso il suo controllo dei Comuni nell'Est e nel Sud della Libia, con l’obiettivo finale della presa di Tripoli.

Non è nell'interesse dei francesi scatenare il caos a un passo dalle elezioni che l’Eliseo vuole far tenere in Libia il 10 dicembre 2018. Ma in molti vedono nell'improvvisa marcia su Tripoli della Settima brigata lo zampino del generale Haftar e, dietro di lui, dell’intelligence francese che, per controllare i giacimenti petroliferi dell’ex colonia fascista, dal 2011 ha appoggiato prima le rivolte islamiste contro Gheddafi, poi l’ex gheddafiano Haftar contro la lobby di Tripoli, con un doppio gioco sempre più evidente a svantaggio degli alleati nell'UE e nella NATO.
Fonti contattate da Africa ExPress in Libia descrivono la più grave situazione di caos e guerriglia mai vissuta nei quartieri di Tripoli, assaltati in modo brutale dalla Settimana brigata che, negli anni precedenti, si era limitata a tenere in sicurezza la città di Tarhuna. La milizia ha sparato indiscriminatamente contro i civili e suoi rinforzi sarebbero presto affluiti da varie città. Una situazione «molto complicata», raccontano dalla Libia, che potrebbe finire «molto male per Serraj». A Misurata c’è chi si dice pronto a trattare non solo con Haftar, indicato per anni dagli islamisti come il padre di tutti i mali, vicino ai gheddafiani e dietro nientemeno che all’ISIS, ma con Saif al Islam Gheddafi, secondogenito del leader libico Mu'ammar Gheddafi, graziato dalla milizia di Zintan alleata con Haftar e in odore di candidatura politica.
By Africa Express

Xenofobia in Sudafrica. Residenti attaccano negozi di stranieri
Xenofobia in Sudafrica. Residenti attaccano negozi di stranieri

31 agosto 2018
SUDAFRICA. CACCIA ALLO STRANIERO: TRE MORTI E VENTI ARRESTI

 

È tornata la caccia allo straniero a Soweto, un’area urbana di Johannesburg. Finora sono state uccise tre persone, una ventina gli arrestati.

Molti commercianti sono stati accusati dai residenti del grande sobborgo sudafricano di vendere alimenti scaduti o addirittura avariati. Inoltre, un cittadino somalo, secondo una prima ricostruzione della polizia, avrebbe sparato contro due ragazzi, uno dei quali adolescente, che tentavano di introdursi nel suo negozio. Le forze dell’ordine ritengono che questo episodio sia stata la causa principale delle violenze xenofobe, che presto si sono propagate anche in altri quartieri della township.
La polizia ha usato proiettili di gomma e gas lacrimogeni per disperdere la folla. Molti negozi sono stati danneggiati, vetrine distrutte con spranghe di ferro e martelli e i proprietari, sotto scorta di agenti della polizia, hanno preferito imballare la loro merce, caricarla su furgoni e chiudere, almeno temporaneamente la loro attività. I gestori delle attività commerciali presi di mira vengono per lo più da Etiopia, Somalia, Zimbabwe, Pakistan e Bangladesh.

Anche in passato si sono verificati incidenti del genere, nell'aprile 2015 attacchi xenofobi si sono verificati a Johannesburg, ma soprattutto nella città portuale di Durban, dove 5 persone sono state uccise e altre ferite gravemente, ma da marzo 2018 le vittime totali nel Paese sono oltre 80. E di certo non aiutarono le dichiarazioni del re degli Zulu, Goodwill Zwelithini, che a marzo 2015 disse che gli immigrati “dovrebbero prendere le loro borse e andarsene”.
Una guerra tra poveri, dovuta alla crisi economica e l’alto tasso di disoccupazione che a fine luglio 2018 ha raggiunto il ventisette per cento. Ovviamente la colpa viene attribuita in gran parte ai migranti che giungono in questo Paese in cerca di lavoro. 

È così che gli africani trattano altri africani.
Il nostro è un mondo complicato da affrontare con sano realismo.
A proposito: come si chiamano gli africani che non vogliono altri africani? ... italiani? No?!
... scusate, confondevo una società realista con un popolo di ignoranti perbenisti!


L'occidente ha creato una crisi economica internazionale per poi andare in vari paesi più poveri creando governi ad hoc al fine di poter espropriare beni privati e pubblici.
In Italia il parlamento legifera da anni con il fine di non permettere al popolo più alcun diritto e sottomettendolo ad una oligarchia fatta di un diritto contorto e facilmente manipolabile. I governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno tolto il diritto alla formazione e soprattutto alla cultura, creando una scuola che prepara in modo dozzinale e dove gli studenti non possono più scegliere, senza veti, di essere correttamente informati, ma solo subire notizie manipolate. Parimenti, hanno portato i commercianti a livelli di tassazione asfissianti, dando come concorrenti le mafie che riciclano denaro e quindi possono tenere aperte attività che altrimenti mai potrebbero restare in piedi. I mass media hanno messo gli uni contro gli altri attraverso il calcio, il "grande fratello", i vari talent e ogni forma di gara e competizione, dove chi vince è l’eletto e gli altri il nulla.
Ora, dopo aver abbattuto le frontiere prima con i paesi dell'est poi con l'Africa intera, la gente è rimasta senza la minima possibilità di difesa, derubata e violentata da un’orda di immigrati affamati, disperati e senza la minima base ideologica e culturale per poter condividere una società fatta di scambi costruttivi. E i manipolatori parlano pure di razzismo e di umana comprensione!
Purtroppo, anche se il tempo degli stupidi è finito, in Italia, solo in Italia, la madre dell'idiota rimane sempre incinta e per quanto la società italiana possa evolversi, essa non sarà mai priva di sciocchi ed imbecilli.
Ironia della vita: per quelli come me non rimane che l'imbarco per l'Africa!
From collaboration with Africa Express

Rabbia xenofoba in Sudafrica, immigrati uccisi col machete (aprile 2015)
Rabbia xenofoba in Sudafrica, immigrati uccisi col machete (aprile 2015)
Africani ‘macellano’  per strada un immigrato mozambicano di nome Emmanuel Sithole, è morto il giorno dopo in ospedale per le ferite riportate (aprile 2015)
Africani ‘macellano’ per strada un immigrato mozambicano di nome Emmanuel Sithole, è morto il giorno dopo in ospedale per le ferite riportate (aprile 2015)

Modello della nave FNLG (courtesy Eni)
Modello della nave FNLG (courtesy Eni)

24 agosto 2018
MOZAMBICO. PRONTA LA PRIMA PARTE DEL PIANO DELL’ENI PER LO SFRUTTAMENTO DEL GAS

 

Mozambique Rovuma Venture, di cui ENI è partner al 70 per cento con ExxonMobil e la cinese CNPC, il 9 luglio scorso ha sottoposto al governo mozambicano la prima fase del Progetto Rovuma LNG.

Nel documento ci sono le proposte dettagliate che riguardano la progettazione e la costruzione di due treni per la liquefazione del gas naturale dei giacimenti di Mamba situati nell'Area 4, una cinquantina di km nell'offshore della città di Palma, nel nord est del Paese al confine con la Tanzania.
Secondo il comunicato pubblicato da ENI, il Progetto Rovuma LNG, dal 2024 sarà in grado di produrre liquefare e commercializzare oltre 16 milioni all'anno di GNL. La costruzione degli impianti della liquefazione sono sotto la guida di ExxonMobil mentre Eni guiderà la gestione dello sviluppo e la gestione delle attività upstream.

Upstream Online, sito specializzato sugli idrocarburi, scrive che dal progetto Mamba, si sarebbe ritirato il consorzio formato da TechnipFmc, Samsumg Engineering e China Huanqiu.
Purtroppo, nell'area di Macimboa da Praia e di Palma, nella provincia di Cabo Delgado, dove operano ENI e ExxonMobil, dal mese di ottobre 2017 la situazione della sicurezza si è deteriorata. La causa sono i continui attacchi dei gruppi jihadisti che seminano morte e terrore tra la popolazione e bruciano i villaggi.
Un’indagine sull'estremismo islamico in Mozambico ha confermato che i componenti di questi gruppi armati sono addestrati nella regione dei Grandi laghi dalle milizie pagate da al Shabaab in Tanzania, Kenya e Somalia.
La conferma che la questione è nel nord-est del Paese è estremamente seria viene dalla decisione del presidente mozambicano Filipe Nyusi, originario di Cabo Delgado, che ha schierato le forze armate per risolvere una volta per tutte la grave situazione.
Fino ad oggi gli estremisti islamici hanno causato almeno un centinaio di morti, molti dei quali decapitati con il machete e oltre mille sfollati. Nel giugno scorso l’ambasciata USA di Maputo ha invitato i suoi cittadini a lasciare l’area mentre il Regno Unito ha sconsigliato i suoi cittadini i viaggi, nei distretti di Palma, Mocimboa da Praia e Macomia. Anche la Farnesina ha raccomandato agli italiani di evitare gli spostamenti fuori dai principali centri urbani della Provincia ed evitare i luoghi affollati.
È del 13 agosto la notizia, confermata dall'emittente di Stato, Radio Moçambique, che la polizia mozambicana ha identificato sei persone a capo dell’organizzazione jihadista che la gente chiama al Shabaab. Il capo della polizia ha chiesto aiuto alla popolazione invitatola a collaborare per localizzare i ricercati e poterli arrestare.
By Africa Express

Mappa dell’Area 4 di intervento Eni a nord est del Mozambico (courtesy Eni)
Mappa dell’Area 4 di intervento Eni a nord est del Mozambico (courtesy Eni)
Uno dei villaggi distrutti da al Shabaab a Cabo Delgado
Uno dei villaggi distrutti da al Shabaab a Cabo Delgado

L’attivista ivoriano Mohamed Konare
L’attivista ivoriano Mohamed Konare

23 agosto 2018
SVELATO IL BLUFF DELLA POLITICA UMANITARIA DI EMMANUEL MACRON IN AFRICA

 

Le tonanti e appassionate concioni di Macron contro l’atteggiamento dell’Italia a guida giallo-verde nei confronti dei profughi africani, stanno per subire un solenne smacco, svelando tutta l’ipocrisia del progetto di sfruttamento dell’Africa da parte del presidente francese. Verso la metà di settembre l’ivoriano Mohamed Konare guiderà una davvero peculiare manifestazione davanti all'ambasciata francese di Roma, ponendosi alla testa di giovani africani, da tempo emigrati in Italia, cui e previsto si uniranno anche altri provenienti da alcuni paesi europei.

Konare, che si proclama un “attivista panafricano”, accusa la Francia di mantenere una politica coloniale, allo scopo di depredare le risorse di quattordici paesi africani, i quali, pur avendo ottenuto l’indipendenza dagli anni ’60, continuano nei fatti a subire l’egemonia degli antichi dominatori. Le nazioni soggette a questo sfruttamento sarebbero Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. La proclamata indipendenza di questi paesi, secondo l’attivista ivoriano, si ridurrebbe a un inutile pezzo di carta, in quanto il loro assoggettamento monetario ed economico alla Francia, risulterebbe, a favore di questa, ancora più redditizio di quello ottenuto in epoca coloniale.

Secondo alcune stime, questa sorta di moderno asservimento, attuato attraverso un rigido controllo delle valute monetarie dei Paesi in questione e all'esclusivo monopolio delle loro ricchezze – uranio, gas, cacao, petrolio, oro, caffè e altri minerali preziosi – produrrebbe, a favore della Francia di Macron, oltre quattrocento miliardi di euro all'anno e arricchirebbe oltre misura l’imprenditoria della potenza d’oltralpe, ma impoverirebbe sempre di più i già diseredati popoli africani che si trovano così costretti a fuggire verso l’Europa (Italia in particolare) in cerca di migliori condizioni di vita.

“Cominciamo dall’Italia – ha detto Konare – ma poi continueremo le nostre proteste davanti a tutte le sedi diplomatiche francesi presenti in Europa. Il nostro traguardo, che può sembrare utopico, ma sono convinto sia invece realizzabile, è quello di creare gli Stati Uniti d’Africa (SUA). Solo cosi i quattordici stati oggi sfruttati da una Francia parassita e dai governi fantoccio da lei insediati, diverranno realmente sovrani e liberi di gestire le proprie risorse, le proprie monete e le propria economie”. L’aspettativa di Konare è senz'altro ambiziosa e non certo sorretta da elevate possibilità di realizzarsi, ma se non altro serve già da ora a smascherare il disgustoso e demagogico buonismo ostentato dal premier francese.
Il controllo denunciato dall'attivista ivoriano, ha il suo punto di forza nell'unità monetaria imposta dalla Francia alle proprie colonie fin dal 1945 attraverso la creazione della moneta "Franco CFA" che all'origine stava per “Colonie francesi d’Africa”, ma che, dopo l’indipendenza concessa da Charles De Gaulle, fu convertita in “Comunità Finanziaria Africana”. Questa moneta è rimasta di fatto la valuta corrente usata in quasi tutte le ex colonie francesi ed è attualmente utilizzata da circa 160 milioni di persone. Essa è coniata in Francia e continua a sottostare a tutte le regole che le erano state imposte al momento della sua creazione. Regole assolutamente vessatorie e di sapore feudale che appaiono del tutto anacronistiche con il dichiarato intento francese di aiutare l’Africa verso l’emancipazione.
Uno di questi obblighi capestro, è rappresentato dall'imposizione francese alle sue ex colonie di versare il 50 per cento delle loro riserve monetarie presso la Banca Centrale di Francia, nonché il cinquanta per cento di ogni transazione internazionale che produca un introito al Paese interessato. Per fare un esempio; se il Congo vende agli Stati Uniti una partita di diamanti del valore di 500 mila euro, 250 mila di questi dovranno essere accreditati come fondo garanzia al tesoro francese. Il rispetto di questi adempimenti, non può essere disatteso poiché rappresentanti francesi siedono in permanenza sia presso i consigli di amministrazione degli istituti finanziari dei quattordici Paesi in questione, sia presso quelli dei vari organi di sorveglianza.
Questo imponente gettito di denaro che affluisce nella Banca Centrale di Francia, viene investito tramite la massiccia emissione di propri titoli di Stato e quindi utilizzato per sostenere la spesa pubblica, con una buona dose di disinvoltura circa gli accordi europei di Maastricht. In più occasioni l’Europa ha tentato di convincere la Francia a far confluire questi fondi nella BCE, la Banca Centrale Europea, ma Parigi ha risposto sempre con un perentorio no. In virtù di questi accordi vessatori, la Francia mantiene anche il diritto prioritario d’acquisto su ogni risorsa mineraria scoperta nelle sue ex colonie, ma anche ove non eserciti questo diritto, quasi tutte le grandi società d’affari presenti in quei Paesi sono a conduzione francese e quindi i benefici restano pur sempre in famiglia.

È questa la situazione che fa dire a Konare: “I Paesi africani in cui viviamo sono di proprietà francese, ma a noi, Macron, lascia soltanto gli avanzi e non sempre si mostra così generoso”. Come riporta il quotidiano finanziario “Italia Oggi”, l’attivista ivoriano ha parole di apprezzamento anche per Salvini: “Il ministro degli interni – dice – ha fatto bene a chiudere i porti. I giovani africani devono restare nei propri paesi d’origine e impegnarsi di più contro il colonialismo moderno che li impoverisce”. Ma non spiega perché lui, il suo Paese, l’ha invece abbandonato da tempo.
By Africa Express

L’ambasciata francese a Roma, luogo dell’annunciata manifestazione
L’ambasciata francese a Roma, luogo dell’annunciata manifestazione
Il presidente francese Emmanuel Macron in una recente visita in Burkina Faso
Il presidente francese Emmanuel Macron in una recente visita in Burkina Faso

Campo per sfollati nel nord-est della Nigeria
Campo per sfollati nel nord-est della Nigeria

20 agosto 2018
UCCISI DALLA FAME E DAGLI STENTI OLTRE TRENTA BAMBINI IN UN CAMPO PER SFOLLATI IN NIGERIA

 

Oltre trenta bambini sotto i cinque anni sono morti per malnutrizione, diarrea, malaria nel campo per sfollati a Bama, nel nord-est della Nigeria nelle prime due settimane di agosto.
A lanciare l’allarme è stata la ONG Medici senza Frontiere. Bama, una volta la seconda città del Borno State, ora trasformata in un immenso campo per sfollati, a fine luglio ospitava venticinquemila anime, il massimo della sua capienza. Sono almeno seimila i bambini presenti e uno ogni duecento è morto di stenti e malattie per l’assenza di cure adeguate nelle ultime settimane. La gente continua ad affluire a causa delle incessanti incursioni, violenze e attacchi dei miliziani di Boko Haram in tutto il nord-est della ex colonia britannica.
In un comunicato MSF afferma che i piccoli arrivano in condizioni terribili e il loro stato di salute peggiora anche nel campo per la mancanza di una corretta assistenza sanitaria, assolutamente insufficiente per il numero di persone presenti. E Isabelle Mouniaman, portavoce di MSF, da Parigi ha specificato: “Il centro di Bama sta scoppiando, deve essere ingrandito quanto prima”.

All'alba di ieri, almeno diciannove persone sono state brutalmente ammazzate a Mailari, un villaggio nella regione di Guzamala nel Borno State. Un sopravvissuto ha raccontato che tre giorni prima dell’attacco gruppi di miliziani sarebbero stati avvistati nelle vicinanze. Le truppe nigeriane, stanziate nella vicina base di Gudumbali, sarebbero state informate dai residenti. Sempre secondo il testimone oculare, che ha perso anche un fratello durante l’assalto, i militari non si sarebbero fatti nemmeno vedere. Nel novembre del 2015 il contingente di Gudumbali aveva perso oltre centocinquanta uomini durante i combattimenti contro i sanguinari terroristi.
Eppure il governo nigeriano sostiene da tempo che i Boko Haram non rappresentano più un pericolo primario. Muhammadu Buhari, il presidente del Paese più popolato dell’Africa ha sostenuto proprio a giugno, che ormai il nord-est si trova in una “fase di stabilizzazione postbellica”. Propaganda politica, visto che le elezioni sono alle porte e Buhari, candidato alle presidenziali del prossimo anno, aveva promesso che avrebbe sconfitto i jihadisti entro il 31 dicembre 2015.
In seguito alle dichiarazioni del presidente, un portavoce dell’esercito nigeriano aveva annunciato che duemila persone sono state invitate a lasciare i campi per sfollati, perché ormai la situazione nel distretto di Guzamala si è stabilizzata, grazie ai ripetuti interventi della missione anti-Boko Haram “Operation Lafiya Dole” (missione che ha cambiato ben quattro comandanti in soli ventisette mesi, l’ultimo, Ahmed Dikko, è stato nominato a fine luglio).
Il ritorno a casa degli sfollati era stato ampiamente pubblicizzato in ogni dove della Federazione nigeriana. L’esercito aveva precisato che avrebbe scortato i rifugiati e distribuito materiale edile. I poveracci sono stati costretti a tornare nei villaggi completamente distrutti, a ricostruire da soli le proprie case, ricominciare dal niente, con la costante paura di essere ancora una volta soggetti agli attacchi dei terroristi, fuggire nuovamente, se non addirittura essere ammazzati.
By Africa Express

Abitanti di Ngolo, Tanzania
Abitanti di Ngolo, Tanzania

17 agosto 2018
ARRESTATI PER ATTI VANDALICI GLI ABITANTI DI UN INTERO VILLAGGIO IN TANZANIA

 

Albert Chalamila, governatore della regione Mbeya, nel sud della Tanzania, ha ordinato alla polizia di arrestare tutti gli abitanti di un villaggio. Le milleseicento anime di Ngolo sono accusate di atti vandalici perché avrebbero manomesso e in parte distrutto le condotte che portano acqua in una comunità vicina, creando così un danno di oltre ventimila dollari. Non è ancora del tutto chiaro cosa abbia scatenato la furia dei residenti. Sta di fatto che in tutta l’area l’acqua scarseggia e sembra che a Ngolo non arrivi per nulla, perché ubicato in un pendio.
L’ordine del governatore è stato perentorio: tutti gli abitanti devono essere arrestati, senza distinzione di sesso o del loro ruolo all'interno della comunità. Infatti, le manette sono scattate anche per i consiglieri del villaggio.
Chalamila ritiene che l’intera comunità sia responsabile di questi atti vandalici e ha precisato: “Devono imparare a rispettare le infrastrutture. I cittadini devono proteggere i progetti realizzati e una parte della responsabilità è da attribuire anche ai comitati responsabili per l’acqua dei vari villaggi".

Le forze dell’ordine sono già sul luogo con diverse macchine e hanno iniziato ad eseguire gli ordini di arresto giovedì. Lo ha confermato il comandante della polizia regionale di Mbeya e ha sottolineato: “Hanno commesso un sabotaggio economico. Il governo ha speso molto denaro per questa condotta e loro hanno distrutto tutto. Devono pagare per questo atto vandalico”.
La polizia è autorizzata a trattenere per quarantotto ore nel commissariato tutti cittadini fermati, prima che vengano sentiti da un giudice. Chissà se la polizia regionale dispone di celle sufficienti per milleseicento persone.
By Africa Express

Il prestigioso terminal ferroviario di Nairobi
Il prestigioso terminal ferroviario di Nairobi

14 agosto 2018
IN KENYA 18 MAXI ARRESTI TRAVOLGONO LA NUOVA FERROVIA MOMBASA-NAIROBI

 

Costata poco meno di tre miliardi di euro; aspramente criticata dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale perché incrementava il già eccessivo debito pubblico del Kenya stimato nel 55 per cento del PIL; contestata dal personale africano per gli atteggiamenti razzisti dei colleghi cinesi; criticata dal pubblico per l’inspiegabile distanza delle stazioni dai centri urbani, la nuova ferrovia, realizzata grazie a un investimento cinese, doveva costituire l’orgoglio nazionale del Paese ed è invece diventata oggetto dell’ennesimo scandalo per corruzione.
Il procuratore della repubblica, Noordin Mohamed Haji, ha ordinato la scorsa settimana, l’arresto di diciotto alti funzionari per essersi appropriati d’ingenti fette di pubblico denaro, alterando varie operazioni connesse alla realizzazione del progetto ferroviario. Tra questi emergono due nomi d’indubbio rilievo: quello di Mohammed Abdalla Swazuri, presidente della National Land Commission e quello di Atanas Kariuki Maina, amministratore delegato della ferrovia incriminata. Abdalla Swazuri avrebbe artificiosamente aumentato i compensi riconosciuti ai proprietari dei terreni espropriati per il passaggio della ferrovia, mentre Kariuki Maina avrebbe a sua volta gonfiato altri costi della gestione generale.
Al momento non risulterebbero coinvolgimenti di funzionari cinesi nel malaffare, pur se questi sono presenti in gran numero nella nuova ferrovia, ma gli accertamenti sono ancora in corso e si attendono altri sviluppi. Appare del resto difficile ritenere che i partner orientali fossero totalmente all'oscuro di ciò che avveniva sotto i loro occhi, visto che la conduzione del progetto è ancora saldamente nelle loro mani. Peraltro i proventi attesi per la gestione della nuova ferrovia, si stanno rivelando molto inferiori a quelli preventivati, forse proprio a causa della scomoda localizzazione delle stazioni che costringe gli utenti a sobbarcarsi, oltre al costo del biglietto, ulteriori spese e perdite di tempo per raggiungere le rispettive destinazioni a Nairobi e Mombasa.

In uno dei suoi più recenti rapporti, la Banca Mondiale aveva già stimato che circa un trenta per cento delle entrate del Kenya era falcidiato dalla corruzione e solo nell'anno corrente, le malversazioni di questo tipo avevano sottratto ai contribuenti molti milioni di euro. Solo tre mesi fa, un altro mega-scandalo aveva sconvolto l’assetto dell’organizzazione paramilitare del Kenya’s National Youth Service per un ammanco di poco inferiore agli ottanta milioni di euro. “L’Operazione Trasparenza” lanciata dal presidente Uhuru Kenyatta, poco dopo la sua rielezione, esprimerebbe un intento certamente lodevole, se non fosse che lo stesso governo da lui presieduto, non è stato in grado di fornire valida prova per circa quattrocento milioni di dollari spesi, non si sa bene a quale scopo.
La sostanza è che malgrado ripetute e autorevoli dichiarazioni di voler combattere la corruzione, questa cresce e si solidifica imperterrita anno dopo anno, ma soprattutto il peggio in questo sconfortante scenario, è che mai i vari scandali vengono compitamente sviscerati. Non lo fanno le autorità e neppure lo fanno i media locali che, dopo aver fornito notizia del fatto, abbandonano lo stesso al suo destino, senza tenere il pubblico aggiornato sugli sviluppi e sulle conclusioni dello stesso. Recentemente abbiamo letto d’illeciti conferimenti di visti d’ingresso, di licenze commerciali non dovute, di cittadinanze improprie, di rilascio di porto d’armi a persone prive dei necessari requisiti… In questi casi si sa sempre chi è il corruttore, ma quasi mai viene rivelato il nome del corrotto.

Uno dei più significativi riscontri che fa mettere in dubbio la reale volontà di combattere la corruzione, è dato dal sistema che sanziona le infrazioni al codice della strada. Un tempo l’agente di polizia elevava un verbale, sul quale il presunto contravventore, aveva diritto di far riportate le proprie osservazioni. Qualora, invece, non contestasse l’addebito, poteva semplicemente dichiarare tale intenzione in un apposito quadro sul retro del verbale e quindi spedirlo alla sede giudiziaria competente, questa gli avrebbe poi notificato a mezzo posta l’ammontare della sanzione, che avrebbe potuto essere pagata in qualsiasi ufficio postale. Questo sistema assicurava al Tesoro di Stato il necessario introito e non consentiva – o quantomeno limitava – il fenomeno della bustarella.
Oggi, invece, questa ragionevole procedura non esiste più e l’agente di polizia ha assunto un’autorità eccezionale. Se a un abitante di Nairobi che sta andando a Mombasa, viene contestata un’infrazione mentre è in transito nella cittadina di Voi, dovrà presentarsi allo ore otto del mattino successivo alla corte locale. Sarà quindi costretto a pernottare in zona, sempre che non sia stato contravvenuto il venerdì poiché, in questo caso, dovrà spendere a Voi, l’intero week-end. È comprensibile che in questa ipotesi, lo sventurato automobilista non potrà fare altro che aprire il portafoglio e adempiere all'antica pratica del kitu kidogo (bustarella). Sarebbe però interessante confrontare il volume delle sanzioni incassate dall'erario, prima della modifica del sistema con quelle incassate oggi. Ma perché farlo, se questo non interessa a nessuno?
By Africa Express

Il Procuratore della Repubblica Noordin Mohamed Haji che ha ordinato gli arresti
Il Procuratore della Repubblica Noordin Mohamed Haji che ha ordinato gli arresti
Il presidente della “National Land Commission” del Kenya Mohammed Abdalla Swazuri
Il presidente della “National Land Commission” del Kenya Mohammed Abdalla Swazuri
L’amministratore delegato della “Kenya Railways” Atanas Kariuki Maina
L’amministratore delegato della “Kenya Railways” Atanas Kariuki Maina

Gruppo paramilitare etiopico
Gruppo paramilitare etiopico

14 agosto 2018
VIOLENZE ETNICHE TRA OROMO E SOMALI. OLTRE QUARANTA MORTI IN ETIOPIA

 

Sono una quarantina le persone barbaramente uccise dal controverso corpo di polizia Liyu – creato nel 2007 per contrastare la ribellione di Ogaden National Liberation Front – nella regione Oromia, nel distretto di Hararghe est.
Negeri Lencho, portavoce del governo regionale dell’Oromia, ha fatto sapere ieri mattina che uomini appartenenti ad un gruppo paramiltare, pesantemente armati, provenienti dalla regione somala hanno ammazzato almeno quaranta persone appartenenti all'etnia oromo, molti altri sono stati feriti. Tra le vittime ci sarebbero anche donne, bambini ed anziani.
Autorità del governo centrale sostengono che l’attacco potrebbe essere collegato a quanto avvenuto la scorsa settimana nella regione somala. In quell'occasione alcuni funzionari regionali e il governatore Abdi Mohamoud Omar sono stati costretti a rassegnare le dimissioni. Omar era stato accusato recentemente da Human Rights Watch di abusi e torture effettuate con l’aiuto del controverso corpo di polizia Liyu. E anche Amnesty International aveva chiesto alle autorità di Addis Ababa di sciogliere immediatamente il corpo paramilitare della regione somala, formato dal governo regionale come forza anti-terrorista, ma in molte occasioni accusata di complicità nei conflitti etnici tra somali e oromo.

I primi scontri sono scoppiati lo scorso settembre al confine tra le due regioni che si accusano reciprocamente di brutalità. Le autorità dell’Oromia lamentano come il territorio sia stato attaccato più volte da forze paramilitari della regione vicina. Le insinuazioni sono state respinte, anzi, gli oromo son stati accusati di attaccare i suoi residenti.
Le regioni somala e oromia sono le più estese dell’Etiopia. I conflitti tra le due popolazioni nelle zone di confine – lungo oltre millequattrocento chilometri – per questioni di risorse, pozzi e pascoli non sono nuove. I somali sono per lo più allevatori e pastori, mentre la maggior parte degli oromo si occupano di agricoltura. Le dispute tra popolazioni agro-pastorali non sono mai di facile risoluzione.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 3 agosto scorso, a causa del conflitto tra contadini e pastori oltre un milione di persone sono state costrette a lasciare le loro case e i propri villaggi. Gli sfollati hanno raccontato di aver assistito a violenze indescrivibili durante gli attacchi: uccisioni indiscriminate, stupri, razzie di viveri e case incendiate. “La maggior parte degli sfollati hanno perso tutto, ma sono vivi”, ha sottolineato Andrej Mahecic, portavoce dell’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR) durante una conferenza stampa all'inizio di questo mese.
A giugno alcune organizzazioni umanitarie e il governo etiopico avevano stanziato fondi per aiuti di prima necessità per ben ottocentoventimila persone e garantito la loro protezione.
Il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, si era recato a Giggiga, capoluogo della regione somala, subito dopo il suo insediamento, proprio a causa dei violenti scontri inter-etnici. In tale occasione Abiy aveva parlato in pubblico con la popolazione e aveva evidenziato che: “Una tragedia del genere non si deve più verificare”. Aveva quindi chiesto la collaborazione di tutti per trovare in breve tempo una soluzione sostenibile e durevole.
Durante il suo primo discorso da premier, dopo il suo giuramento che si è tenuto il 2 aprile ad Addis Ababa, Abiy aveva richiamato l’attenzione degli etiopici sulla necessità dell’unità del Paese.
By Africa Express

Mappa della regione etiope
Mappa della regione etiope
Abiy Ahmed, presidente dell’Etiopia
Abiy Ahmed, presidente dell’Etiopia

Soldati delle forze armate camerunensi
Soldati delle forze armate camerunensi

12 agosto 2018
VIDEO CON ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIALI IN CAMERUN. AMNESTY INTERNATIONAL ACCUSA!

 

Esecuzioni extragiudiziali senza fine nel Camerun; lo conferma Amnesty International in un suo comunicato del 10 agosto 2018.
Esperti dell'ONG dichiarano di avere "prove credibili" che gli uomini armati responsabili delle raccapriccianti esecuzioni civili di due donne e due bambini accusati di essere complici di Boko Haram (sic!), nel video virale apparso su Internet, sono militari del Camerun.


Dopo la diffusione di questo video di luglio, che vi mostriamo, le autorità di Yaoundé in un primo momento avevano negato tutto, bollando il filmato come “fake news”. Ma con l’avvicinarsi delle elezioni,  che si terranno il 7 ottobre, forse qualche ripensamento c’è stato. Sarebbero (infatti non si sa per certo) stati arrestati sette militari camerunensi ed elencati anche i loro nomi. Paul Biya, il dittatore del Camerun ormai ottantacinquenne, al potere dal 1982 e nuovamente tra i candidati delle prossime presidenziali, avrebbe (sempre al condizionale) chiesto esplicitamente che venga fatta luce su questi abusi, che potrebbero essere stati perpetrati da soldati che non rispettano le regole (sic!).

Sia chiaro che le uccisioni extragiudiziali in Camerun non sono certo un fatto inconsueto, così come in altre occasioni, gli analisti della ONG affermano di avere esaminato ogni singolo dettaglio dei video finiti in rete: armi, uniformi e dialoghi degli uomini, elementi che sono poi, dicono, stati confrontati con tecniche digitali e testimonianze raccolte sui luoghi. I risultati così ottenuti, a loro dire, indicano chiaramente i soldati delle forze armate camerunensi come autori delle atroci esecuzioni.

Commenti
Alcuni affermano che non siano soldati camerunensi: "Non è l'esercito del Camerun che è solo una bugia dei media! I nostri soldati non usano Kalashnikov! " - "Lo stesso video circola in Mali e accusa i soldati maliani di abusi".
Altri: "Con quello che ho appena visto non c'è differenza tra i Boko Haram e questi soldati!"
Ed ancora: "Amnesty International è una ONG di sinistra finanziata dal pedofilo democratico Georges Soros che ha anche finanziato la prostituta di Clinton. Quale credito dovrebbe essere dato a questa associazione che profuma di letame, che ha ancora prove inconfutabili (!) che mostra raramente e che non sopportano cinque minuti di analisi attenta? No, Amnesty non è mai stata credibile e non lo sarà mai!".

Le mie osservazioni, ovvero le osservazioni di un negro del sub-Sahara
Indubbio il fatto che il video mostri una regione del Sahel, la riconoscerei fra mille.
Il Sahel, (dall'arabo Sahil, "bordo del deserto"), è una fascia di territorio dell'Africa sub-sahariana che si estende tra il deserto del Sahara a nord e la savana del Sudan a sud, e tra l'oceano Atlantico a ovest e il Mar Rosso a est. Essa costituisce una zona di transizione tra l'ecozona paleartica e quella afrotropicale, ovvero un'area di passaggio climatico dall'area arida (steppica) del Sahara a quella fertile della savana arborata sudanese (asse nord-sud).
Il Sahel copre i seguenti stati (da ovest a est): Gambia, Senegal, la parte sud della Mauritania, il centro del Mali, Burkina Faso, la parte sud dell'Algeria e del Niger, la parte nord della Nigeria e del Camerun, la parte centrale del Ciad, il sud del Sudan, il nord del Sud Sudan e l'Eritrea.
La scena orribile che il video presenta al mondo intero potrebbe essere stata ripresa in una qualsiasi delle zone sopra elencate. Che l'esercito camerunense non usi il Kalashnikov bensì il Galil, un fucile d'assalto di design israeliano, non è vero. I corpi addetti alla salvaguardia delle acque e delle zone boschive utilizzano anche il fucile d'assalto AK-47. Quanto all'abbigliamento dei "soldati", che alcuni contestano essere troppo malconcio rispetto a quello usato dai militari camerunensi, è certamente vero, ma solo quando costoro lo indossano per la prima volta! Infine, circa le presunte dichiarazioni del dittatore Paul Biya, credetemi... sono vere "FakeNews"!

Guarda il video e conoscerai le vere "bestie umane"! ... l'ignoranza e l'indifferenza della popolazione!

Il Camerun sull’orlo di un conflitto civile. I separatisti delle regioni anglofone scelgono la via delle armi. Durissima la repressione attuata dal governo
Il Camerun sull’orlo di un conflitto civile. I separatisti delle regioni anglofone scelgono la via delle armi. Durissima la repressione attuata dal governo
Pipistrelli della frutta, serbatoio naturale più probabile del virus Ebola,in vendita in un mercato alimentare a Brazzaville, Repubblica del Congo
Pipistrelli della frutta, serbatoio naturale più probabile del virus Ebola,in vendita in un mercato alimentare a Brazzaville, Repubblica del Congo

2 agosto 2018
NUOVA EMERGENZA EBOLA IN CONGO-KINSHASA: VENTISEI CASI SEGNALATI NELL’EST DEL PAESE

 

La decima epidemia di ebola ha colpito la Repubblica Democratica del Congo (Congo-K), questa volta il temibile virus si è presentato nell’est del Paese, nel Nord-Kivu, dove sono già stati registrati ben ventisei casi. E solo una settimana fa Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva dichiarato il Paese “ebola free”. Questo focolaio era esploso nel nord-ovest della ex colonia Belga.
Il ministro della Sanità, Oly Ilunga Kalenga, ha confermato la nuova epidemia, sottolineando che venti persone sarebbero già decedute nella zona di Mangina, nel territorio di Beni, vicino al confine con l’Uganda e al momento attuale non ci sono indicazioni che il nuovo focolaio sia in qualche modo collegato al precedente, le due aree distano oltre duemilacinquecento chilometri l’una dall’altra.
Sei campioni di sangue, prelevati a pazienti ricoverati in ospedale con i sintomi della febbre emorragica, sono stati analizzati da Institut National de Recherche Biomédicale (INRB) di Kinshasa, la capitale del Paese e quattro di essi sono risultati positivi al test dell’ebola.
Il ministero della Sanità di Kinshasa invierà già oggi un primo team di dodici operatori sanitari specializzati nella cura del micidiale virus.
È la decima volta che questa malattia si ripresenta nel Congo-K dal 1976. La prima epidemia di ebola è infatti scoppiata il 26 agosto, 1976, a Yambuku, una città nel nord di quello che allora si chiamava Zaire e ora RDC. Il virus colpì un’insegnante di 44 anni, Mabalo Lokela, dopo un viaggio nell’estremo nord del Paese. Immediatamente si pensò che la donna fosse affetta da malaria. Ben presto si presentarono altri sintomi. Loleka mori l’8 settembre 1976. I morti durante questa prima epidemia apparsa in Congo, nella Valle dell’Ebola, furono 280.
By Africa Express

Emmerson Mnangagwa, confermato presidente dello Zimbabwe
Emmerson Mnangagwa, confermato presidente dello Zimbabwe

1 agosto 2018
ZIMBABWE: MNANGAGWA VINCE LE ELEZIONI MA L’OPPOSIZIONE DENUNCIA BROGLI

 

L’annuncio della vincita di Emmerson Mnangagwa è arrivato dalla ZBC, la televisone di stato dell’ex colonia britannica, nel tardo pomeriggio.
Lo ZANU-PF di Mnangagwa ha ottenuto 144 seggi su 210 mentre il maggior partito di opposizione, MDC Alliance di Nelson Chamisa ne ha avuti 61. Dato significativo è che il partito del presidente nella capitale, Harare, non abbia preso nessun seggio mentre Chamisa ne ha avuti ben 26.
“In questo momento cruciale, invito tutti a evitare dichiarazioni provocatorie. Dobbiamo tutti dimostrare pazienza e maturità e fare in modo che il nostro popolo sia al sicuro. Ora è il tempo per la responsabilità e, soprattutto, della pace”, con questo tweet il neo presidente, ha cercato di tenere ferma la piazza degli oppositori di Chamisa che accusano lo ZANU-PF di avergli rubato i voti. Un copione comune in Africa (e non solo) in tutti i turni elettorali.

La notizia che allo ZANU-PF erano andati 109 seggi sui 210 era stata pubblicata stamattina da The Herald, quotidiano di Stato, confermando così la continuazione del mandato a Emmerson Mnangagwa.
Un po’ troppo presto forse, cosa che l’opposizione non ha digerito ed è scesa in piazza per protestare davanti alla sede della ZEC, Commissione elettorale dello Zimbabwe, e di fronte alla sede dello ZANU-PF, il partito al potere da 38 anni.
Secondo testimonianze dalla BBC, nella capitale Harare, camion militari hanno disperso la folla con cannoni ad acqua, gli agenti hanno sparato lacrimogeni mentre mezzi blindati pattugliano la città e un elicottero militare volteggia nel cielo della capitale. Nei disordini della capitale un uomo è stato ucciso, colpito allo stomaco da un proiettile. L’esercito utilizza proiettili veri.
Il corrispondente dell’emittente britannica racconta che sono stati visti militari a piedi a caccia di persone che hanno distrutto l’attrezzatura fotografica di un giornalista mentre a poca distanza di sentivano colpi d’arma da fuoco.
Critiche sulle elezioni arrivano dagli osservatori degli Stati Uniti che denunciano lo ZEC di essere di parte. Nella prima relazione dicono che la Commissione elettorale ha rifiutato la richiesta dell’opposizione di controllare la qualità dell’inchiostro indelebile con cui vengono tinte le dita degli elettori per evitare il doppio voto.

Intanto Emmerson "il Coccodrillo" (soprannome conquistato durante la lotta di liberazione) si è ripreso la presidenza con i due terzi dei seggi in parlamento. Con questa maggioranza ha fermato la scalata dei quarantenni che hanno cercato di rottamare la vecchia classe dirigente. Ora Mnangagwa ha ben saldo il Paese con il controllo delle Forze armate e del Partito. Difficilmente verrà spodestato.
By Africa Express

Isole Comore e Mayotte (amministrata dalla Francia, ma pretesa dalle Comore)
Isole Comore e Mayotte (amministrata dalla Francia, ma pretesa dalle Comore)

1 agosto 2018
COMORE. DEMOCRAZIA AZZOPPATA. AMPI POTERI AL PRESIDENTE ISLAMICO EX GOLPISTA

 

Lunedì scorso i comoriani sono stati chiamati alle urne per un referendum costituzionale che permette a Azali Assoumani, attuale presidente e ex golpista, a ripresentarsi per un secondo mandato consecutivo. L’opposizione aveva chiesto ai cittadini di boicottare il voto.
Secondo il ministro degli Interni comoriano, Mohamed Daoudou, il referendum è stato approvato con il 92,74 per cento e il “sì” è destinato a dare ampi poteri al presidente. La partecipazione dei trecentomila iscritti alle liste elettorali è stata del sessantatré per cento.
Nella capitale Moroni le operazioni di voto sono iniziate con oltre due ore di ritardo per mancanza del materiale elettorale e sempre nella capitale, due seggi dello stesso quartiere sono stati attaccati da un gruppo di persone armate di spranghe di ferro e machete. Un poliziotto è stato gravemente ferito.
Assoumani è diventato presidente nel 1999 dopo aver condotto un colpo di Stato ai danni dell’allora Presidente Tadjidine Ben Said Massounde, rimanendo al potere fino a gennaio 2002. A maggio dello stesso anno vince le elezioni e rimane alla guida dello Stato insulare fino al 2006. Dieci anni dopo riesce nuovamente a farsi rieleggere.
La riforma costituzionale prevede l’abolizione della carica del vice presidente e della Corte costituzionale, la più alta istanza giudiziaria del Paese e infine, con questo referendum, se approvato, sara soppressa una clausola costituzionale che riguarda la laicità e l’islam diventerebbe così la religione di Stato, inoltre permette al presidente di candidarsi per altri due mandati.
Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha espresso la sua preoccupazione per le restrizioni delle libertà civili e dei diritti democratici nelle Comore e ha chiesto al governo di Moroni di rispettare lo Stato di diritto e i diritti umani.
In virtù della Costituzione (prima del referendum) il potere si alternava ogni cinque anni tra le tre isole principali – Grande Comore, Mohéli e Anjouan-, un sistema adottato per dare stabilità a questo Stato insulare, che in passato è stato oggetto di parecchi colpi di Stato.
La Repubblica Federale islamica delle isole delle Comore è uno Stato insulare che si trova nell'estremità settentrionale del Canale del Mozambico, nell'Oceano Indiano. È composto da tre isole, Grande Comore, Mohéli e Anjouan, che hanno ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1975. La quarta isola, Mayotte, ha sempre rifiutato di far parte della Repubblica Federale Islamica ed è rimasta fedele alla Francia, cioè territorio d’oltremare.
La stabilità politica delle Comore è fragile. Dal giorno dell’indipendenza ad oggi ci sono stati una ventina di tentati colpi di Stato. Il più famoso quello del 1975, poche settimane dopo l’indipendenza. I golpisti, che rovesciarono il presidente Ahmed Abdallah, erano assistiti dai mercenari guidati dal colonnello francese Bob Denard. Dal 1997 al 2001 le isole Mohéli e Anjouan si erano separate dalla Grande Comore, dove si trova anche la capitale Moroni. Solo grazie all'intervento della comunità internazionale e alla promessa di una nuova costituzione che garantisse larga autonomia, le tre isole si sono ricongiunte in una confederazione.
Gli abitanti vivono in un paradiso terreste ma sono tra i più poveri del mondo. L’economia si basa sull'esportazione di chiodi di garofano, vaniglia e qualche altra spezia profumata. Nell’arcipelago si sopravvive grazie alle rimesse di parenti e amici che lavorano in Francia o in Mozambico. E sono molti i comoriani che cercano di raggiungere Mayotte, in cerca di una vita migliore, rischiando la propria vita. Morti non solo nel Mediterraneo, ma anche qui, nel Canale di Mozambico. Morti dimenticate da tutti.
By Africa Express

Soldati francesi nella Repubblica Centrafricana
Soldati francesi nella Repubblica Centrafricana

31 luglio 2018
DOPO CHE PUTIN, CON IL CONSENSO DELL’ONU, INVIA ARMI ALL’ESERCITO CENTRAFRICANO IN CAMBIO DI LICENZE MINERARIE, TRE GIORNALISTI RUSSI VENGONO AMMAZZATI NELLA REPUBBLICA CENTRAFRICANA

 

La notte scorsa due giornalisti russi e uno di nazionalità ucraina sono stati brutalmente ammazzati da un gruppo di uomini armati nella Repubblica Centrafricana, dove si consuma una sanguinosa guerra civile nel quasi totale silenzio del mondo.
La notizia è stata resa nota Henri Depele, sindaco di Sibout, situata a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale Bangui. L’autista dei tre giornalisti è sopravvissuto all'imboscata e ha riferito che la vettura è stata attaccata a ventitré chilometri da Sibout. I giornalisti sono morti sul colpo. Albert Yaloke Mokpeme, portavoce della presidenza, ha fatto sapere che tre uomini, verosimilmente europei, sono stati ritrovati dalle forze dell’ordine. Il portavoce ha sottolineato che la loro nazionalità e professione risultano sconosciuti. Ma una fonte della polizia, che non ha voluto rivelare la sua identità per motivi di sicurezza, ha rivelato che sono stati ritrovati tessere identificativi rilasciati dalla stampa russa e uno dei giornalisti morti aveva con sé un biglietto aereo Mosca – Casablanca – Bangui.
I tre giornalisti, molto conosciuti nel loro Paese, Aleksandr Rastorguev Orkhan Dzhemal e Kirill Radchenko, si trovavano a Sibout per realizzare un servizio inchiesta sugli istruttori russi e la società militare privata Wagner nella Repubblica Centrafricana.
Dall'inizio dell’anno Faustin-Achange Touadéra , presidente del CAR e Vladimir Putin hanno iniziato una stretta collaborazione. Mosca potrà godere di licenze per lo sfruttamento minerario, in cambio metterà a disposizione equipaggiamento industriale, materiale per l’agricoltura e altro. Insomma, anche il Cremlino, come molti altri Paesi, è solamente interessato alle ricchezze del sottosuolo del Centrafrica e, quando serve, come in questo caso, non esita chiedere appoggio all'ONU, che ha concesso al Cremlino una parziale abolizione sull'embargo delle armi – embargo che era stato imposto alla Repubblica Centrafricana dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con risoluzione numero 2399 (2018).
La crisi della Repubblica Centrafricana comincia alla fine del 2012: il presidente François Bozizé dopo essere stato minacciato dai ribelli Séléka (in maggioranza musulmani) alle porte di Bangui, chiede aiuto all’ONU e alla Francia. Nel marzo 2013 Michel Djotodia, prende il potere, diventando così il primo presidente di fede islamica della ex-colonia francese. Dall'ottobre dello stesso anno i combattimenti tra gli anti-balaka e gli ex-Séléka si intensificano e lo Stato non è più in grado di garantire l’ordine pubblico, Francia e ONU temono che la guerra civile possa trasformarsi in genocidio. Il 10 gennaio 2014 Djotodia presenta le dimissioni e il giorno seguente parte per l’esilio in Benin. Il 23 gennaio 2014 viene nominata presidente del governo di transizione Catherine Samba-Panza, ex-sindaco di Bangui.
Il 15 settembre 2014 arrivano anche i caschi blu dell’ONU della Missione Multidimensionale Integrata per la Stabilizzazione nella Repubblica Centrafricana. Le forze dell’Unione Africana del contingente MUNISCA, presenti con 5250 uomini (850 soldati del Ciad hanno dovuto lasciare il Paese qualche mese prima, perché accusati di aver usato la popolazione come scudi umani) affiancano le truppe francesi dell’operazione Sangaris. Il 31 ottobre 2016 la Francia ritira ufficialmente le sue truppe dell’operazione Sangaris, che si è protratta per ben tre anni.
Ancora oggi oltre ottocentocinquantamila persone non hanno ancora potuto fare ritorno nelle proprie case: 383.000 sono sfollati, mentre 468.000 hanno cercato rifugio nel Ciad, nel Congo-K, nel Congo Brazzaville e nel Camerun, che ha accolto oltre la metà dei cittadini centrafricani in cerca di protezione. Secondo l’UNICEF, il quarantuno per cento dei bambini al di sotto dei cinque anni soffre di malnutrizione cronica e si stima che dal 2013 ad oggi tra sei e diecimila minori siano stati reclutati dai vari gruppi armati come bambini-soldato.
By Africa Express

Una strada nel Sud Sudan durante il periodo delle piogge
Una strada nel Sud Sudan durante il periodo delle piogge

28 luglio 2018
SUD SUDAN. DOVE LA POPOLAZIONE È ALLO STREMO, PRIVA DEI SERVIZI ESSENZIALI COME OSPEDALI, SCUOLE, CIBO, CASE, OGNI PARLAMENTARE RICEVE IN REGALO 40 MILA EURO

 

Quarantamila dollari per ciascun parlamentare del Sud Sudan per l’acquisto di una macchina: il regalo del presidente Salva Kiir ai membri delle due Camere, dopo aver approvato la modifica della Costituzione, permettendo in questo modo l’estensione del suo mandato, quello del vice presidente e di tutti gli onorevoli fino al 2021. Il mandato del presidente era in scadenza quest’anno, ma a causa della sanguinosa guerra civile che si sta consumando nel Paese dal 2013, Salva Kiir ha sottolineato che la situazione attuale non permette lo svolgimento di libere elezioni. La popolazione non può recarsi alle urne per problemi di sicurezza.
Una somma considerevole, quella che Salva ha regalato ai deputati, supera abbondantemente i dieci milioni di dollari per l’acquisto di veicoli in un Paese dove le strade nemmeno esistono. Eppure il presidente ha giustificato tale spesa perché i legislatori devono avere la possibilità di muoversi liberamente. E il portavoce del presidente ha fatto sapere che i parlamentari non possono continuare a spostarsi in moto. Ma vista la condizione delle vie di comunicazione forse sarebbe stato meglio investire quel denaro per rendere praticabile qualcuno degli sterrati.
Lo scorso luglio il Sud Sudan celebrava il settimo anniversario di indipendenza. Nel 2011 la sua gente sperava di trovare pace dopo decenni di guerra civile sanguinosa. Speranza e gioia sono presto stati sepolti da un nuovo conflitto interno che si combatte dal dicembre 2013. Una guerra etnica combattuta a colpi di macete e kalashnikov, ma le peggiori armi sono gli stupri e la fame. Da anni si susseguono inconcludenti dialoghi di pace. A fine giugno la capitale etiopica ha ospitato i due protagonisti, Salva Kiir Mayardit e Riek Machar, di questa inutile, lunga, infinita guerra, il cui prezzo viene pagato solamente dalla popolazione ormai allo stremo.
Il conflitto è cominciato quando il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, ha accusato il suo vice Riek Marchar, un nuer, di aver complottato contro di lui, tentando un colpo di Stato. Sono così cominciati i combattimenti tra le forze governative e quelle degli insorti fedeli a Machar. I primi scontri si sono verificati il 15 dicembre 2013 nelle strade di Juba, la capitale del Paese, ma ben presto hanno raggiunto anche Bor e Bentiu. Vecchi rancori politici ed etnici mai risolti, non fanno che alimentare questo conflitto.
Dal 2013 ad oggi sono morte decine di migliaia di persone, oltre tre milioni hanno dovuto lasciare le loro case e i loro villaggi. Attualmente oltre il settanta per cento della popolazione necessita di assistenza umanitaria. Il conflitto ha portato con sé abusi dei diritti umani su larga scala nei confronti dei civili. A farne le spese sono sopratutto donne e bambini. Violenze e abusi sessuali, reclutamento di bimbi soldato, distruzione di ospedali, scuole, razzie delle scorte alimentari sono all'ordine del giorno.
In questi anni di guerra sono stati barbaramente ammazzati anche 101 operatori umanitari, altri sono stati sequestrati e molte donne sono state stuprate, tra loro anche un’italiana, che con molto coraggio ha reso testimonianza durante il processo a carico di una dozzina di militari dell’esercito sud sudanese.
Riek Marchar e Salva Kiir hanno firmato a Khartoum, la capitale del Sudan, un ennesimo accordo proprio in questi gironi sulla suddivisione dei poteri. Potere e opposizione si sono accordati su una ripartizione dettagliata dei posti chiave. Un governo di transizione, che resterà in carica per trentasei mesi, sarà composto da trentacinque ministri (venti di loro di Kiir, nove per Machar e i restanti saranno a disposizione degli altri partiti all'opposizione).
Nel frattempo la guerra non cessa. Nel Sud Sudan le violenze proseguono, gli stupri non danno tregua alle povere donne. La fame, le pallottole, armi potenti entrambe, mietono vittime ovunque nel più giovane Paese della terra, dove si continua a morire nell'indifferenza dei suoi politici.

Scontri tra giovani a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo
Scontri tra giovani a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo

25 luglio 2018
TREDICI RAGAZZI TROVATI MORTI IN UN COMMISSARIATO DI POLIZIA DI BRAZZAVILLE

 

Uno di loro aveva solo diciannove anni. Si chiamava Urbain Durbagne era uno studente delle superiori e nipote di Steve Bagne, un avvocato all'opposizione. Urbain è stato arrestato domenica scorsa insieme ad altri ventisei giovani e giovanissimi dell’età compresa tra i quattordici e ventidue anni a Djiri, un quartiere popolare di Brazzaville, la capitale della Repubblica del Congo.
Secondo le forze dell’ordine, i ragazzi sarebbero stati arrestati per disordini scoppiati tra gang di giovani, chiamati “bébés noirs” (bimbi neri), adolescenti e giovani disoccupati che rendono insicure le città congolesi con le loro scorribande.
Testimoni oculari hanno invece dichiarato che i giovani sarebbero morti per asfissia, causata dalle pessime condizioni igieniche della prigione.
Non c’è nessuna prova che i giovani appartenessero ai bébés noirs, fenomeno che a Brazzaville è diventata una scusa per commettere abusi.

Unione Africana
Unione Africana

9 luglio 2018
NON VOGLIAMO EUROPEI SUL NOSTRO TERRITORIO!

 

Durante il trentunesimo vertice dell’Unione Africana, che si è svolto la scorsa settimana a Nouakchott, capitale della Mauritania, i delegati presenti hanno espresso forti perplessità sulle richieste dell’Unione Europea per l’apertura di piattaforme di sbarco e centri per i migranti in Africa. L’UA dubita che tali richieste siano in contrasto con le leggi internazionali vigenti. Pierre Bouyoya, ex presidente golpista del Burundi e ora rappresentante dell’organizzazione per il Mali e il Sahel, ha precisato: “Non è sufficiente che siano gli europei ad affermare che queste proposte siano fattibili; noi africani dobbiamo prendere queste decisioni, inoltre dobbiamo essere convinti e certi di poterle realizzare”.

Il rifiuto della Mauritania è stato categorico, vista l’esperienza negativa del centro per migranti di Nouadhibou, nel nord del Paese, aperto nel 2006 con finanziamenti spagnoli, una vera e propria prigione di Madrid in terra mauritana.

Anche il Marocco non ha dato la sua disponibilità e Nasser Bourita, ministro degli Esteri del Paese nordafricano ha respinto categoricamente le richieste dell’UE e anche la Tunisia non ha accettato la proposta di Bruxelles. La Libia aveva già espresso il suo parere negativo al ministro degli Esteri italiano, Matteo Salvini, in occasione della sua prima visita a Tripoli il 25 giugno scorso.

L’unico “outsider” è il Niger. Il presidente Mahamadou Issoufou ha sottolineato proprio l’altro giorno che il suo Paese continuerà ad accogliere i migranti, le persone in difficoltà. “Siamo un popolo generoso, aperto all'ospitalità – ha precisato il leader nigerino. E ha aggiunto – Il passaggio dei migranti deve essere però veloce e non protrarsi nel tempo. È la sola condizione che poniamo, perché i fondi non sono sufficienti. Il finanziamento messo a disposizione dal fondo fiduciario dell’UE non copre le spese. Abbiamo accolto nei centri gestiti dall’UNHCR e dall’OIM persone vulnerabili dalla Libia, ma in sei mesi solo pochi sono stati ricollocati altrove, mentre altri migranti arrivano qui in continuazione”. Comunque anche il Niger non accetta gli hotspot, perché implicherebbe l’invio di personale europeo su un territorio non europeo. E ovviamente questo non è gradito agli Stati africani, che sono state ex colonie proprio di quei Paesi che hanno espresso tali richieste.

I delegati presenti al vertice a Nouakchott hanno infine deciso di voler aprire un osservatorio delle migrazioni in Marocco, controllato dall’UA. Il capo del dicastero degli Esteri marocchino ha precisato: “Non abbiamo mai raccolto dati sulle migrazioni africane. È importante che l’Africa stessa sia ben informata su questo fenomeno, deve sviluppare una maggiore conoscenza e prima di tutto il problema migratorio africano deve essere assolutamente discusso all'interno del continente”.

Insomma l’UA vuole essere al centro della discussione anche per quanto concerne il controllo delle frontiere volto ad arginare il flusso migratorio. A questo proposito all'inizio di giugno Libia, Ciad, Sudan e Niger hanno firmato un accordo a N’Djamena, la capitale del Ciad per una sorveglianza congiunta dei confini. Tale documento prevede la stretta collaborazione dei quattro Paesi per combattere il terrorismo, la criminalità organizzata transnazionale, arginare il flusso di migranti illegali e mercenari, contrabbando di armi, droghe e derivati del petrolio. Il confine sud della libia, ex colonia italiana, è infatti un punto strategico per il traffico di migranti e di gruppi di miliziani. Eppure in Niger sono presenti molte forze straniere impegnati nel compito di repressione del terrorismo e della criminalità organizzata. In particolare l’operazione francese Serval, poi sostituita con Berkhane, attiva in tutto il Sahel, con quasi quattromila uomini, con base operativa a N’Djamena. Millesettecento soldati della missione francese si trovano a Gao, nel centro del Mali. Dispongono di due basi aeree, la prima nella capitale del Niger, Niamey, mentre la seconda, poco lontana dal confine con la Libia, a Madama, che sarebbe dovuta essere d’appoggio anche alla missione italiana, della quale non si parla più da tempo.

Gli Stati membri dell’UA non vogliono più solamente eseguire le proposte ricevute dall'esterno, in particolare da Bruxelles, vogliono essere protagonisti del proprio destino.

Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, presidente della Guinea Equatoriale
Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, presidente della Guinea Equatoriale

6 luglio 2018
IL REGIME DELLA GUINEA EQUATORIALE FINGE DI APRIRE AL DIALOGO, MA INTANTO UCCIDE GLI OPPOSITORI

 

Mercoledì 4 luglio il Presidente della Repubblica della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo ha approvato un provvedimento di amnistia generale in favore di tutti i prigionieri politici e di tutti gli oppositori del regime, la dittatura più longeva d’Africa.
L’amnistia si rivolge ad ogni persona “privata della libertà personale o impedita nell'esercizio dei suoi diritti politici del Paese” e suona, alle orecchie di chi non vive in Guinea, come una vera e propria ammissione di colpa da parte della presidenza. L’obiettivo manifesto del Presidente è garantire ampia partecipazione al dialogo nazionale che a luglio vedrà governo e opposizione fronteggiarsi attorno a un tavolo.
Peccato che finora ne sia stato liberato solamente uno: per Julian Abaga si sono finalmente aperte le porte del carcere giovedì scorso, dopo sette mesi trascorsi nelle putride galere equatoguineane, per aver criticato su internet il presidente e i suoi collaboratori.

L’opposizione, defenestrata dal Parlamento per decreto presidenziale pochi mesi fa, chiede un percorso chiaro e democratico che conduca il Paese a nuove elezioni per chiudere per sempre il capitolo dittatoriale che va avanti dal 1976 con Macias e dal 1979 con suo nipote, Teodoro Obiang.
Ma il dialogo politico riguarderà “solo il governo e i partiti legalizzati” che è solo uno, il Partido Democratico de Guinea Ecuatorial fondato da Teodoro Obiang Nguema Mbasogo e controllato dalla sua famiglia.
L’amnistia serve a coprire quella che è la vera notizia degli ultimi giorni: Juan Obama Edu, membro di Ciudadanos por la Inovacion (principale partito di opposizione messo fuorilegge dal regime in quanto nelle scorse elezioni aveva ottenuto un solo seggio al parlamento, ma a quanto pare uno di troppo per il dittatore che, dunque, il 26 febbraio scorso ha pensato bene di scioglierlo) e prigioniero nelle carceri della città guineana di Evinayong, è morto lunedì scorso in seguito alle torture inflittegli nel commissariato di Aconibe. Obama Edu era stato arrestato nel novembre 2017 ad Aconibe con altri 30 attivisti del partito CI ed era stato condannato per sedizione, disordine pubblico e lesioni gravi ad autorità militare. Avrebbe dovuto scontare 30 anni di carcere.
Nel marzo scorso era stata resa nota la dipartita di Santiago Ebee Ela, torturato fino alla morte in un commissariato di Malabo, e il leader del partito Gabriel Nse Obiang nel maggio scorso aveva denunciato “l’assassinio di Stato” di un suo parente, Evaristo Oyague Sima, detenuto nella prigione di Black Beach a Malabo.
In questo clima il governo di Malabo pretende di raccordare tutti gli attori politici del Paese attorno a un tavolo ma non certo per attivare un processo democratico. Piuttosto per rafforzare il suo potere assoluto distribuendo qualche briciola ai suoi oppositori.

Agoli-Agbo, re di Abomey
Agoli-Agbo, re di Abomey

5 luglio 2018
MUORE IL SOVRANO DEL VODOO E DI ABOMEY, EX CAPITALE DEL REGNO DI DAHOMEY

 

Dédjalagni Agoli-Agbo, il re di Abomey, ex capitale del regno di Dahomey nell'attuale Benin, è morto lunedì mattina, dopo solo otto anni di regno. Il monarca aveva ottantasette anni, le cause del decesso non sono state rese note; lo impone la tradizione e una sorta di sacralità avvolge sempre il mistero della scomparsa del re.
Prima di salire sul trono nel 2010, Agoli-Agbo è stato un poliziotto. Come monarca aveva una corte, un primo ministro; portava sempre una scopa, si spostava seduto su un’amaca sorretta da portantini durante le cerimonie ufficiali. Il suo abito regale era costituito da un perizoma e da un guscio metallico perforato che proteggeva il naso, simbolo del suo potere. Era il sovrano di Abomey, la città di re Béhanzin, grande figura della resistenza africana che si era opposta all'imperialismo europeo. Ma oggi le cose sono cambiate. Il Benin è una Repubblica e gli antichi sovrani di Abomey sono stati “declassati” a leader religiosi. La religione di Stato in Benin è il vodoo, di cui Agoli-Agbo era uno dei più alti rappresentanti.

I social network, che hanno immediatamente ripreso la notizia della dipartita di Agoli-Agbo, hanno scritto “la notte è caduta su Dahomey”, essendo vietato scrivere “il re è morto”.
Nel 1685 Abomey, fondata dalla popolazione Fon, è diventata la capitale del Dahomey, uno dei regni più importanti dell’Africa occidentale. Dal diciassettesimo fino al diciannovesimo secolo i dodici re che si sono susseguiti fino al 1900, hanno fatto costruire palazzi, realizzati in materiale tradizionale, su una superficie di quarantasette ettari. Nel 1985 sono stati dichiarati dall'UNESCO patrimonio dell’umanità. Anticamente la città era circondata anche da un muro costruito di fango.
Non bisogna dimenticare che i fon sono stati grandi commercianti di uomini; la ricchezza e il potere di Abomey era dovuta sopratutto alla tratta degli schiavi che praticavano in cambio di armi. Infatti Dahomey sorge proprio sul luogo tristemente chiamato “Costa degli Schiavi”.
Nel 1892 la città è stata parzialmente distrutta da un terribile incendio, appiccato da Behanzin, l’ultimo sovrano del regno, prima di cedere la città ai francesi. Behanzin era stato incoronato nel 1800 anno che coincide con l’espansione coloniale francese nel Dahomey. Per contrastare l’invasore, il re aveva formato un esercito di venticinquemila uomini e truppe speciali, composte da cinquemila donne, le Amazzoni. Erano intoccabili e vergini giurate. Si identificavano con il nome di “N’Nonmiton”, tradotto in italiano “nostre madri”. Erano armate di moschetto olandese e di machete e decapitavano velocemente le loro vittime. Venivano reclutate ancora bambine, tra gli otto-nove anni. Se un francese tentava di avvicinare una delle amazzoni, il giorno dopo lo si trovava morto nel suo letto. Furono sconfitte sola dalla Legione Straniera con l’aiuto delle mitragliatrici.

Miliziani Boko-Haram
Miliziani Boko-Haram

14 giugno 2018
ATTORNO AL BACINO DEL LAGO CIAD SI CONSUMA UNA DELLE PEGGIORI CRISI UMANITARIE

 

L’esercito nigeriano, in collaborazione con quello camerunense, ha ucciso ventitré miliziani Boko Haram nella regione del lago Ciad lunedì scorso. Il portavoce delle forze armate dell’ex colonia britannica, Texas Chukwu, ha fatto sapere che durante l’operazione militare congiunta è stato possibile sequestrare anche un’ importante quantitativo di armi e munizioni, nonché due motociclette. Purtroppo molti terroristi, anche se feriti, sono riusciti a sfuggire alla cattura. E proprio attorno al Lago Ciad si sta consumando la peggiore crisi umanitaria del momento nel quasi più totale silenzio dei media. Il bacino è situato nella parte centro-settentrionale dell’Africa sui confini di Nigeria, Niger, Ciad e Camerun.
Dal 2014 ad oggi le persone in fuga dai sanguinari terroristi Boko Haram – sempre molto attivi nel nord-est della Nigeria e nei Paesi confinanti – cercano rifugio e protezione in quest’area. Alla popolazione residente, già tra le più povere al mondo, si sono aggiunti ora anche questi infelici. Attualmente il bacino è abitato da 17,4 milioni di persone, tra loro 2,4 milioni di profughi.
La siccità, la condizione del lago stesso, che un tempo era tra i più grandi del continente africano, si è ridotto negli ultimi cinquant'anni del novanta per cento per l’eccessivo utilizzo delle sue acque, la prolungata siccità e i cambiamenti climatici. Nel 1963 la superficie del lago era di ventiseimila metri quadrati oggi non raggiunge nemmeno millecinquecento metri quadrati.
Sopratutto i profughi vivono in una situazione di grave disagio e l’insicurezza alimentare impedisce la ripresa di una vita relativamente normale. Moltissimi giovani sono pronti a raggiungere le fila dei jihadisti, spinti da fame e povertà estrema. Così pure alcuni allevatori, per proteggere le proprie mandrie, sono passati dalla parte del nemico, ma in questo modo non fanno altro che finanziare questi terroristi.
Un gatto che si morde la coda: da un lato la Task Force Multinazionale (Multinational Joint Task Force, MNJTF) lancia continue offensive contro i Boko Haram, d’altro canto questi trovano senza difficoltà nuove leve in quest’area dove la gente vive nella miseria più totale. È un conflitto che non si risolve solo con l’uso delle armi, perché la vera lotta sta nel combattere fame e povertà con uno sviluppo sostenibile.

Inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. (Courtesy Amnesty International)
Inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. (Courtesy Amnesty International)

21 marzo 2018
NIGERIA: I DATI DI AMNESTY INTERNATIONAL CONTRO ENI E SHELL SULL’INQUINAMENTO DEL DELTA DEL NIGER

 

Grazie alla tecnologia Amnesty International smentisce i dati diffusi per anni da Eni e Shell sull'inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. Le prove di gravissime negligenze delle due multinazionali sono state scoperte grazie al progetto “Decode Oil Spills”, piattaforma sviluppata dall’ong per condividere la ricerca sui diritti umani.

Coinvolti oltre tremilacinquecento decoders di 142 Paesi
Nel progetto sono stati coinvolti attivisti e volontari: 3.545 ricercatori specializzati – chiamati “decoders” (decodificatori) – di 142 Paesi, soprattutto Francia, Olanda, Nigeria, Regno Unito e Svezia che hanno portato avanti un’investigazione innovativa sulle fuoriuscite di petrolio nell'ex colonia britannica. Le indagini mettono le compagnie petrolifere di fronte alle loro gravi responsabilità sul devastante inquinamento causato dalle “disattenzioni” e il deturpamento di un territorio immenso con incalcolabili danni alle popolazioni.
I decodificatori di dati hanno analizzato quasi 3 mila documenti e fotografie che riguardano le fuoriuscite di greggio nel periodo che va dal 2011 al 2017. I risultato dell’indagine sono quindi stati verificati da Accufacts, organismo indipendente di esperti petroliferi.

Le accuse a Shell ed Eni
Amnesty accusa Shell ed Eni di dare informazioni fuorvianti riguardo al pesantissimo inquinamento causato. Per esempio Shell, dai suoi pozzi e oleodotti, nel 2011 ha segnalato 1.010 con fuoriuscite per oltre 110 mila barili che corrispondono a circa 17,5 milioni di litri. Eni invece ha dichiarato 820 fuoriuscite di petrolio con oltre 26 mila barili equivalenti a oltre 4 milioni di litri di greggio.
Secondo i due giganti dell’industria petrolifera la maggior parte delle perdite dalle pipeline sono causate da furti della popolazione. Le analisi dei dati dei decoder smentiscono e le fotografie mostrano fuoriuscite dovute alla corrosione degli impianti.
La maggioranza dei ricercatori ha identificato 89 fuoriuscite di greggio (46 di Shell e 43 di Eni) che dipendevano da problemi tecnici al gasdotto più che da ruberie della popolazione. Inoltre, attribuire le perdita di petrolio a un furto evitava alle compagnie di pagare i risarcimenti alle decine di comunità colpite dal disastro ambientale.
“A peggiorare le cose è il fatto che Shell ed Eni paiono pubblicare informazioni non credibili sulle cause e le dimensioni delle fuoriuscite. – ha dichiarato Mark Dummett, ricercatore su imprese e diritti umani di Amnesty International – La popolazione del Delta del Niger paga da troppo tempo il prezzo della sconsideratezza di Shell ed Eni. Grazie ai Decoders, siamo un passo più vicini all'obiettivo di chiamare le due aziende a rispondere del loro operato”.

I ritardi nell'intervento aumentano l’inquinamento
Amnesty denuncia anche i ritardi nell'intervento in caso di perdita di greggio. Secondo i regolamenti vigenti in Nigeria le aziende devono recarsi sul sito dove è avvenuta la fuoriuscita entro 24 ore dalla segnalazione per un sopralluogo e quindi ripulire l’area prima che il petrolio contamini terra e falde acquifere. Secondo i documenti analizzati, se Eni ha rispettato quel termine temporale nel 76 per cento dei casi, Shell lo ha fatto solo nel 26 per cento. Non solo, la compagnia petrolifera anglo-olandese – con la riduzione delle fuoriuscite riportate – ha reagito più lentamente. È stato segnalato anche un incredibile ritardo: prima di visitare uno dei siti contaminati sono passati 252 giorni.
Poca cosa rispetto ad Eni che invece, prima di reagire, ha fatto registrare la reazione più lenta mai documentata: 430 giorni per una perdita nella provincia di Bayelsa, 700 km a sud della capitale Abuja. “C’è un motivo per cui ci sono quei regolamenti: più le aziende ci mettono a reagire alle fuoriuscite, più aumenta il rischio che il petrolio finisca per inquinare le fonti alimentari e idriche – ha commentato Dummett – Shell lo sa bene. Di sicuro, se il loro petrolio inquinasse terreni in Europa, non si comporterebbero in un modo così irresponsabile”.

Le compagnie petrolifere non accettano le accuse
Eni e Shell, come prevedibile, hanno rispedito le accuse al mittente. Secondo Shell le informazioni pubblicate da Amnesty sono false e non tengono conto della complessità del territorio e del contesto in cui l’azienda opera. Invece Eni ha respinto l’accusa di non prendere misure immediate per prevenire l’inquinamento.
In una lettera di risposta, l’azienda italiana afferma che il 13 per cento delle perdite di greggio degli anni recenti sono da attribuire a ragioni operative. Spiega che utilizza tecnologie innovative per il monitoraggio dell’integrità dell’oleodotto compresa l’osservazione aerea del territorio con i droni. I dati del 2017 rispetto al 2014 sulle fuoriuscite di petrolio registrano -74 per cento e un abbattimento del volume (-51 per cento).
Amnesty ha deciso di presentare i risultati dello studio al governo nigeriano e di chiedergli di rafforzare la normativa sull'operato delle aziende petrolifere. Suggerisce anche di fornire maggiori strumenti al Nosdra, l’agenzia governativa che si occupa delle fuoriuscite di petrolio, per fare in modo che le multinazionali petrolifere prendano tutte le possibili misure per prevenire o bonificare i danni causati.