IL CANNIBALISMO IN AFRICA
Tema solo in apparenza scabroso e inquietante, il cannibalismo è una lente preziosa attraverso cui leggere l’esperienza umana. Se è vero che sono esistite tribù che vi hanno fatto ricorso per
autosostentamento, ma più spesso per fini rituali, per molto tempo è sopravvissuto un «mito del cannibalismo» che ha spinto gli occidentali ad attribuire fantasiosamente questa pratica a
popolazioni ritenute inferiori, semplicemente perché lontane dalla loro comprensione.
Il cannibalismo di Ewald Volhard, uscito nel 1939, è stato il primo
studio veramente scientifico sull’antropofagismo, frutto di anni di osservazioni in diverse aree del globo, e rimane a tutt'oggi l’opera antropologica più autorevole, completa e documentata
sull'argomento.
Distinguendo tra cannibalismo profano, giuridico, magico e rituale, e adducendo una ricca serie di esempi per ciascuno, Volhard contribuì in maniera decisiva a demitizzare il fenomeno e a
riportarlo nella sua corretta cornice storica, geografica e culturale.
Per molto tempo è esistito un vero e proprio "mito del cannibalismo", una forma di paura e di "razzismo" che spingeva molti europei ad attribuire questa pratica in maniera fantasiosa a
popolazioni lontane dalla loro comprensione.
Siamo in Africa ed in Kenya in particolare, quindi ci occuperemo di una tribù di cannibali che è stata capace di terrorizzare tutta l’Africa sub-sahariana, di mettere Mombasa a ferro e fuoco ed
in un battibaleno di piombare su Malindi.
Fu solo grazie alle forze unite di portoghesi e tribù locali che i terribili Zimba (Jagga per i portoghesi, conosciuti anche come Jaga o Giaghi) vennero sconfitti e ricacciati
indietro.
Cronistoria in breve:
Originari dell'area dei grandi laghi e del Kilimanjaro tra Kenya, Uganda e Tanzania gli Zimba si mossero in lungo ed in largo per tutta l'Africa distruggendo, massacrando e saccheggiando tutti i
popoli che incontrarono sul loro cammino dalla Sierra Leone allo Zambesi, dall'Etiopia al deserto del Kalahari.
Durante le loro invasioni furono conosciuti in molti Paesi col nome di Zimba o Ma-Zimba, dal nome del loro capo Zimbo.
Assalirono anche gli europei in Congo costringendoli ad abbandonare la città di São Salvador. Si divisero poi in diversi gruppi, alcuni dei quali giunsero verso il 1570 sino in Abissinia e nel
1587, provenienti dal nord del fiume Zambesi, sulla costa degli Zanj (o Zengi, vedi La costa Zanguebar), a Kilwa, dove passarono a fil di lancia tremila musulmani (Costa degli Zanj, è un vecchio
nome della parte della costa dell'Africa orientale che si distribuisce oggi tra il Mozambico, la Tanzania, il Kenya e la Somalia).
Poi un’orda di 15 mila cannibali Zimba invase Mombasa. Gli antropofagi devastarono l’isola e massacrarono gli abitanti. Decimata la popolazione di Mombasa, attaccarono Malindi, ma il re di quella
città si difese e, con l’aiuto della allora numerosa, bellicosa e feroce tribù dei Segeju, riuscì a fare di loro una carneficina.
Gli Zimba sopravvissuti ripartirono verso ovest. Zimbo in persona raggiunse il Capo di Buona Speranza e poi risalì la sponda atlantica, sino al Kunene, dove fondò un nuovo kilombo (accampamento).
Il terribile Zimbo morì mentre preparava una nuova campagna militare, ma forgiò alla spietata crudeltà la figlia Temba N'dumba, tanto che la fama di spietatezza ereditata, dal
cannibalismo all'infanticidio, così come nel comportamento disumano in battaglia, fu la base del terrore che le truppe Jagga ispirarono. Anche i loro successori, Kulembe e la moglie
Bombaikase-Kizura, lasciarono dietro di loro un alone di ferocia, tanto che padre Giovanni Antonio Cavazzi ne parla come di "mostri assetati di sangue".
Infine la loro violenta spinta devastatrice si esaurì e conobbero la loro fine sul campo di battaglia per mano dell'esercito guidato dalla regina di Ndongo (Angola), Nzingha Mbandi Ngola (nota anche come Nzinga o
Zingha), che con gli Zimba superstiti e asserviti tolse ai portoghesi Matamba, fondando uno stato libero.
Gli Zimba erano preceduti da una fama che incuteva ancor più terrore nelle popolazioni: si diceva fossero cannibali. In battaglia si presentavano, oltre agli uomini ed alle stesse donne Zimba,
anche gli stregoni che vestiti di pelle di coccodrillo lanciavano incantesimi.
I guerrieri erano decorati con copricapi piumati, corna, ossi, teschi umani, becchi o zampe d'animali mentre le piume rosse, il cui numero corrispondeva a quello dei nemici uccisi, erano un
privilegio esclusivo del re.
I Jaga (si pronuncia quasi come "Giaga") furono un popolo che tra il sec. XVI e il XVII mise a ferro e fuoco gran parte del continente africano, dalla Sierra Leone allo Zambesi, dall'Etiopia al
deserto del Kalahari. Si ritiene che provenissero dal nord dell'attuale Congo-Zaire, ma sembra probabile che in origine essi provenissero dalla regione dei grandi laghi e del Kilimanjaro.
Il loro ricordo si tramanda nelle varie regioni ed essi sono considerati come gli antenati dei Ba-Yaka del Congo, dei Jinga d'Angola, degli Azimba dello Zambesi, dei Vazimba del Madagascar, dei
Galla-Oromo dell'Etiopia, dei Fundhi del Sennar, dei Timene della Sierra Leone, dei Makalaka dello Zimbabwe, degli Zulu, ecc. I Wachanga (o Chaga, Chagga, Jagga, Jaga, Dschagga, Waschagga),
presso il Kilimanjaro, sarebbero i loro discendenti rimasti nelle terre d'origine. Il professore di storia guineano Ibrahima Baba Kaké li identifica come parenti prossimi degli attuali
Masai.
Le loro invasioni sconvolsero i gruppi etnici esistenti e provocarono la formazione di nuovi stati. Secondo Adolf Bastian, la prima menzione della loro apparizione nel Congo fu nel 1491. I primi autori riferiscono che essi chiamavano sé stessi Agag o
Gaga, nome mutato dagli abitanti del Congo in Giaka (Ba-Giaka) e poi in Jagga dai Portoghesi.
Nel Congo essi sconfissero tutte le truppe che cercavano di fermarli, e infine lo stesso re Alvaro I (1568-1587), fu costretto ad abbandonare la sua capitale di São Salvador (Mbanza Congo) per rifugiarsi su un'isola in mezzo al
fiume Congo, detta "Isola dei Cavalli" per il gran numero d'ippopotami che vi si trovavano. Molti abitanti fuggirono verso le montagne.
Mbanza Congo è una città dell'Angola, capoluogo della provincia dello Zaire. Fu la sede del Manikongo, il sovrano del Regno del Kongo. Dal 1570 al 1975 era conosciuta come São Salvador (in portoghese).
La fama di crudeltà ereditata dagli Zimba li fece accreditare di cannibalismo, infanticidio, comportamento disumano in battaglia, e fu in gran parte alla base del terrore che le loro truppe
ispiravano.
Cavazzi descrive un "orribile unguento", "maji-a-samba", che si confezionava pestando dei neonati vivi in un mortaio. Esso era usato da Temba N'dumba per rendersi "immortale e
invincibile".
Come fecero gli Zulu alcuni secoli dopo, i guerrieri Zimba percorsero e razziarono in lungo e in largo la parte centro-meridionale del continente africano.
Sottomisero molti popoli, ai quali lasciarono in eredità alcuni prestiti linguistici, simili alle radici dell'odierna lingua dei Masai, ed almeno parzialmente la loro organizzazione militare e la
loro forma di Stato.
La religione, col culto dei morti, era molto importante nella società jaga. Il loro prete, nganga-ia-ita, fabbricava cinture di pelle di coccodrillo che dovevano proteggere dai
malefici.
In onore ai re ed ai principi, il gran sacerdote, nganga-ia-kimbanda, praticava il sacrificio (kiluvia).
Sul piano militare, la strategia jaga si basava su due punti:
- attacchi a sorpresa, accompagnati da una serie d'astuzie, manovre offensive alternate a ripieghi. Una stretta disciplina permetteva loro di raggrupparsi o disperdersi rapidamente in manovre
ordinate.
- accampamenti fortificati, dai quali provocavano l'avversario, per attaccare la battaglia da posizioni di forza. I Jaga combattevano a piedi, e non avevano cavalli. Usavano archi e frecce
avvelenate. Facevano pochi prigionieri, ma catturavano tutti quelli che potessero diventare buoni guerrieri o schiavi.
Gli accampamenti (kilombo) sostituivano i villaggi, come sarà poi per i kraal degli Zulu.
Il kilombo tipo, descritto da Cavazzi, comprendeva sette quartieri:
1 - Al centro dell'accampamento si trovavano le dimore del re e dei suoi consiglieri, circondate da palizzate.
2 - Il quartiere del generale delle guardie, ngolambole, detto anche mutue-a-ubumgo (capitano). Era il primo ufficiale del re, colui che attaccava per primo e che dirigeva la
marcia. Accompagnato da uno shinghila (indovino-stregone), sceglieva il sito ove fondare il kilombo, tracciava le sue vie e definiva tutti i particolari per la costruzione.
3 - Il quartiere del tandala, comandante della retroguardia, venerato come un principe, perché era anche il primo elettore del re e dirigeva il kilombo durante i periodi
d'interregno.
4 - Verso est, il mutunda, ove si trovava il ma-niluniu, specialista della costruzione di cinte di fortificazione e di trincee. Era il solo alto personaggio autorizzato ad
entrare dal re per parlargli, senza dover attendere.
5 - Dall'altro lato, ad ovest, il quartiere del ministro degli affari segreti, discreto e fedele.
6 - Il quartiere del kicumba o ilunda dipendeva dallo ngolambole. Egli si occupava delle armi, degli schiavi, e doveva essere particolarmente coraggioso e feroce in
combattimento.
7 - Il quartiere d'un altro ilunda doveva proteggere la casa del re e le sue ricchezze. Solo personaggi di fiducia potevano ricoprire tale carica.
Sotto il regno di Alvaro II (1587-1614), essi
tentarono una nuova invasione, e il regno del Congo si salvò solo grazie alle fortezze costruite dai Portoghesi.
Verso il 1660, come già detto, i Jaga (Ba-Yaka) furono duramente sconfitti da Nzingha Mbandi Ngola (nota anche come Nzinga, Zingha o N'Zingha, convertita al cristianesimo e
battezzata come Ana de Sousa), regina del regno di Ndongo (Angola), che confinava con loro a sud-est.
Con gli Zimba superstiti e asserviti tolse ai portoghesi Matamba, fondando uno stato libero.
Dal principio del sec. XVIII sino alla fine del XIX, essi continuarono ad occupare la riva destra del fiume Kwango (Kuango o Cuango) in Angola e una zona estesa sino al Kwilu-Djuma nella
Repubblica Democratica del Congo.
Ora concentreremo la nostra attenzione su un periodo postumo alla presa di Mombasa e all'attacco di Malindi, quindi quando gli Jagga, guidati dal loro capo Zimbo, risalirono la costa atlantica
sino agli altipiani dell’Angola dove scorre il fiume Kunene (La regione del Kunene o Cunene è una regione settentrionale dell’odierna Namibia confinante con l’Angola. Prende il nome dal fiume
Kunene che ha origine sugli altopiani in Angola).
Abitanti odierni di queste terre sono i Bangala (Nbangala o Imbangala), tribù negra di lingua bantu, che occupano la conca pianeggiante del medio Kuango (Cuango), fiume che trae origine negli
altipiani centrali dell'Angola per divenire in seguito confine naturale tra due paesi: Angola e Repubblica Democratica del Congo, ove si dedicano all'agricoltura, all'allevamento e al commercio,
ma conservano un'indole fiera e indocile, carattere irrequieto e bellicoso e praticano, o praticavano sino a poco tempo fa, largamente l'antropofagia.
Pare che essi discendano dalle orde dei feroci Jagga, il cui vero nome era, secondo Andrew Battel, Imbangolos, che devastarono l'Angola sino alle coste sul finire de sec. XVI. I Jagga, a giudicare dall'armamento (scudo cafro),
provenivano dal sud, convalidando la risalita della costa atlantica dalle regioni sudafricane.
L'EPOPEA DEGLI ZIMBA
Le imprese degli Zimba (Jagga) sono narrate a partire dalla fine del ’500, in quanto solo da quell'epoca, esploratori, antropologi, pionieri e religiosi di fama mondiale sono state fonti primarie
essenziali per la storia di questo popolo di quella regione teatro del cannibalismo più bestiale.
Nulla è stato tramandato di loro in epoche precedenti, se non notizie frammentarie che poc'anzi abbiamo documentato.
Alla fine della lettura delle notizie selvagge e sanguinarie che seguiranno, dovremo chiederci come fu possibile, da parte degli indigeni della costa malindina, respingere queste bestie feroci e
crudeli.
Unica verità possibile è quella che i locali abbiano letteralmente “trovato pane per i loro denti”!
Certamente non furono da meno della regina Nzingha Mbandi Ngola.
Ecco trovata la ragione per cui Vasco da Gama non mise mai “piede a terra” a Malindi!
Invero, già nel secondo secolo dC, Tolomeo, l'astronomo e cartografo greco, scrisse circa le misteriose terre a sud della Somalia (la costa di Zanguebar) di cui fanno parte "barbari che mangiano l'uomo" e una "grande montagna di neve" (il Kilimanjaro).
Andrew Battel, che nel 1601-02 visse per 21 mesi fra gli Jagga e al quale noi dobbiamo notizie molto ampie, chiama gli Jagga “I più grandi cannibali del mondo; poiché essi si nutrono
soprattutto di carne umana (ma non di quelle dei propri) quantunque abbiano a disposizione tutto il bestiame della terra”. Essi preferiscono la carne umana a quella del manzo e della capra.
Quando si impadroniscono di una città uccidono e divorano uomini e donne e portano via i ragazzi di 13/14 anni, per tirarli su come loro propri. Ma anche chi nelle loro file si comporta male In
battaglia viene condannato a morte e divorato.
Prima di partire per una guerra, come prima di ogni impresa importante, viene al levar del sole portata una vittima tra cerimonie solenni con la collaborazione dello stregone. Per esempio, il
capo Kalandola uccise, come narra Battel, in una tale occasione un ragazzo e due uomini dei quattro che gli furono portati dinnanzi “all'incirca come gli andò il colpo”, mentre gli altri
due vennero uccisi fuori dal campo.
Battel non fu ammesso a vedere questo bagno di sangue. Poi vennero macellate cinque vacche nel campo e altre cinque fuori, e altrettante pecore e cani. “Il sangue venne sprizzato sul fuoco e
divorarono i cadaveri con grande allegrezza”.
I morti vengono seppelliti con tutti loro ornamenti e con la maggior parte delle loro suppellettili, in posizione seduta. Agli uomini vengono date come compagne due delle loro donne, alle quali
vengono infrante le braccia. Tre giorni del mese si riuniscono i parenti presso la tomba, che annaffiano con il sangue di capra e vino di palma.
Il capo degli Jagga si faceva, secondo Battel, spalmare giornalmente il corpo, dipinto di rosso e di bianco, con grasso umano. Battel non parla di riti d’iniziazione; tanto più interessante è
l’osservazione che il giovane diviene gonso, cioè soldato, quando ha consegnato la testa di un nemico.
Anche Dionigi Carli di Piacenza conosce gli Jagga come un popolo irrequieto e selvaggio, che non può mai restare a
lungo in un posto. Essi si fanno spezzare due denti di sopra e due di sotto, e si nutrono di carne umana. “I prigionieri, che non fossero più adatti alla guerra, li uccidevano, facendoli in
pezzi come bestiame e divorandoli”.
Carli dichiara di essere stato presente nel Cassangi (nell'odierna provincia di Malanje, in Angola) alla festa per il compleanno del sovrano, nella quale festa per divertimento della corte,
vennero lanciati contro una grande quantità di schiavi quattro leoni. Gli abbattuti vennero cotti e divorati in “modi differenti” dai sopravvissuti. Ma anche a sud di Benguela
esisterebbero, secondo Carli, dei Benguela che si nutrono di carne umana.
La provincia di Malanje (il suo nome originale è Cassangi), Angola: le cascate di Kalandula, ma anche le rapide del fiume Kwanza a monte della città di Malanje, altra meraviglia acquatica, e Pedras Negras, luogo dove la regina angolana Nzinga combatté contro le truppe coloniali portoghesi nel diciassettesimo secolo.
Notizie più complete le fornisce padre Giovanni Antonio Cavazzi. “Mangiare carne umana, scrive, e stato permesso in ogni momento a questo popolo
ingordo; in quanto la legislatrice (la figlia del defunto capo Zimbo) ha incuorato e ammonito i suoi seguaci a non averne alcuna paura o ritegno; perciò il loro maggiore impulso alla guerra è
sempre stato quello di cercare di ottenere i più robusti schiavi e divorare la carne dei più teneri. Tuttavia essa ha del tutto proibito di mangiare le donne, che servono invece per i sacrifici
dei morti, con questa avventurosa fantasia che gliele inviano per il servizio nell'altro mondo, per cui è da ammirare assai che proprio le più belle e appariscenti vadano incontro alla morte. Ma
questa proibizione di mangiare le donne, che più stuzzicano l’appetito il desiderio, mette a molti l'acquolina in bocca; per cui, a dir la verità, tale proibizione non viene poi osservata da
tutti… Io ne ho conosciuti molti che ne erano ghiottissimi, come ad esempio lo Jaga Cassange che era un signore molto ricco e potente, e non riusciva mai a saziarsene, perché gli pareva che tal
cibo fosse molto più saporito; e a questo fine faceva giornalmente macellare molte donne”.
Oltre il cibarsi dei nemici uccisi o al semplice gusto della carne umana, che viene dipinto come deviazione illegale, Cavazzi conosce il cannibalismo in rapporto alle cerimonie di sepoltura.
Uomini e bestiame vengono uccisi mediante decapitazione sul sepolcro del defunto, durante il qual rito il sangue deve sgorgare sulla tomba. Ci si immagina di poter così soddisfare la sete del
morto. Tuttavia anche i sacrificanti “hanno secondo questo pensiero superstizioso i loro vantaggi, in quanto riservano per sé un piatto pieno: in questo modo dopo tante crudeltà, le vittime
vengono divorate sia dagli uomini che dalle donne e mangiate senza orrore, tanto crude che cotte, tanto fresche che putrefatte, in quanto niente li trattiene dal compiere tali orrori, sia che si
tratti di cosa paurosa o di trasgressione della legge: per dirla in breve, non si lasciano trattenere da nessun’altra superstizione, all'infuori di quella di onorare i morti e saziare la loro
propria bramosia; e del vino e delle vivande, quante se ne porti e se ne versi o ponga sopra i sepolcri, essi trattengono la parte migliore per sé, finché, dopo aver pianto e cantato o aver
mutato il dolore In un altro piacere di insana soddisfazione, essi prendono congedo da quel terribile sacrificio, sazi nell'animo e pieni del sangue bevuto”.
Le cerimonie compiute per la tumulazione della sovrana Temba-N-Dumba vengono dipinte con precisione da Cavazzi. Al termine del solenne corteo per il trasporto delle defunta, venivano anche
“le vittime tanto volontarie che costrette, liete secondo l'aspetto esteriore; come coloro che per un lungo tempo e con la maggior gioia avrebbero dovuto servirla nell'altro mondo”. Fra
urla e salti, danze e canti, la donna crudele venne seppellita dei suoi sudditi. “Dopodiché questi vennero molto spietatamente uccisi e fatti in pezzi: il loro sangue, dopo che la terra e
l’apparato funebre ne era stato spruzzato, lo bevvero tutti gli astanti, mentre la carne ne venne in parte sepolta, in parte distribuita fra i notabili, mentre il popolo bramoso si saziava delle
interiora calde e fumanti”.
La vita futura dei defunti esigeva ricche offerte e l’accompagnamento di una corte, ciò che viene documentato anche da altre cerimonie, come quella della semina e del raccolto. Dato che la ricca
raccolta di frutti del campo dipende dal “favore dei defunti”, questi debbono venire propiziati mediante sacrifici.
Nessuno può seminare e raccogliere prima che il capo abbia intrapreso le cerimonie necessarie, nelle quali “il miglio della prima raccolta deve venire come cosa sacra bagnato col sangue e
consacrato con la carne umana” e poi mangiato.
Così la regina Zingha, Nzingha Mbandi Ngola, faceva uccidere e mangiare dal suo seguito chiunque avesse tagliato il raccolto prima del tempo. Dato che anch'Essa prese parte alla mietitura, così in
quell'occasione mangiò anch'essa carne umana e si lavò le mani nel sangue.
Istituire un contatto coi trapassati è il compito principale degli stregoni, shinghila, che posseggono sconfinato potere. Essi hanno la capacità di incarnare in sé stessi, mediante loro
scongiuri e con l’aiuto dei canti di scongiuro del popolo, lo spirito dei morti. In loro nome essi dettano poi le leggi, annunciano fortuna o sventura e predicano l’avvenire.
Cavazzi descrive in modo esauriente come il shinghila a poco a poco entri nel suo estatico stato di trance, come ruotando gli occhi infuri e si agiti, si rotoli per terra e sbatta le
braccia intorno finché gli viene la schiuma alla bocca, come egli cerchi difendersi dalla volontà del defunto che di lui si impossessa, e come infine si metta a correre con un grande coltello fra
il popolo circostante, al culmine della furia: “E dove la sua rabbia tocca, abbatte uno col pendolo nel fianco, un altro trapassandolo nel petto scoperto, a un altro stacca la testa del
corpo, a questo spacca le spalle dividendole d’un sol colpo, a un altro apre il ventre e, completamente coperto di sangue, si riempie di sangue anche la gola. Dopo che con le sue proprie mani ha
fatto in pezzi tutti i cadaveri, ne sparisce la carne, quantunque ancora tutta rossa e fumante, fra la turba bramosa, la quale poi, senza un senso di orrore o di ritegno, in breve la divora e
mangia”.
Un costume singolare degli Jaga merita ancora menzione: “Tutti i neonati venivano immediatamente sepolti vivi. L’orda si accresceva con i bambini e le bambine più forti delle terre
conquistate”. (Marquardsen- Stahl nel libro "Angola").
Secondo Battel le donne degli Jaga sono prolifiche, ma seppelliscono i bambini subito dopo averli partoriti, onde questa stirpe non ha per mezzo loro nessun incremento. “Esse non voglio
occuparsi di educare i loro figli né caricarsi di pesi durante la marcia”.
È possibile che il lettore dubiti che questo possa essere vero, altrimenti queste terre sarebbero da tempo completamente spopolate. Questa regola, tra l’altro riservata ai neonati di sesso
maschile, in realtà era compensata dall'uso di sottomettere come schiavi i nemici catturati, introducendoli così nella comunità.
Tuttavia Carli sostiene la veridicità di questa usanza come la peggiore crudeltà degli Jaga: “Essi cacciano le loro donne gravide al tempo del parto nella foresta, onde queste uccidono i
neonati o li lascino ovunque qua e là per la foresta in preda alle belve; poi la madre dopo il delitto ritorna a casa, mentre l’uomo le va incontro con le sue amiche e compagne, accogliendola con
la maggior gioia, dopodiché organizza una festa per il fatto che il bambino è stato ucciso, e così entrambi si sono sgravati della pena della sua educazione”.
Cavazzi in fondo sostiene che la legge principale degli Jaga sia questa: che i bambini non devono venire né tirati su, né tenuti nascosti. Sotto minaccia di grave pena viene anzi ordinato a ogni
donna che “dopo aver partorito deve uccidere subito il bambino con la spada o annegarlo nell'acqua, o lasciarlo in prenda alle belve”. Si trova un accenno anche un’altra spiegazione del
costume all'infuori dei motivi della comodità, giacché Cavazzi continua: “In quanto vengono ritenuti disonorati e diseredati coloro che in qualche modo siano stati conservati e allevati delle
loro madri”. Fino a circa 100 anni fa, sostiene Cavazzi nel 1693, questo costume sarebbe stato rigidamente osservato; successivamente tuttavia sarebbe stato addolcito. Sembra che l'usanza
rimonti alla leggendaria legislatrice (la figlia del defunto capo Zimbo) che avrebbe fatto in pezzi con le sue mani il suo unico frutto, esigendo di venire in tal modo imitata da tutte le altre
donne. “E subito dopo la tribù si è messa all'opera, in quanto ogni padre, senza alcun sentimento di compassione facendo le veci del boia, fa a pezzi il suo figliolino, del cui sangue ancora
caldo si riempie la bocca, e con la cui carne ancora tenera sazia la brama del ventre”.
GLI AFRICANI E LA BIBBIA
«Già nell'ambiente colonialista era in voga l'abitudine di gettare in mare la Bibbia non appena attraversato il canale di Suez. Pure i missionari, affascinati dal "Continente Nero", non gettavano in mare la Bibbia, ma solo la tonaca.»
«Quando i missionari giunsero, noi africani avevamo la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare ad occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia.»