LA VERA STORIA DI MALINDI: LA SCOPRIRONO I ROMANI
Racconto semiserio e tragicomico
di Freddie del Curatolo
Alcuni secoli prima di Cristo, Malindi e il Kenya erano luoghi incontaminati: nessuna strada, nessuna palazzina, neanche un bresciano o un bergamasco.
A quei tempi l’impero romano, dopo la presa di Cartagine e la presa per i fondelli di Annibale, aveva esteso le sue colonie in Africa fino alla Nubia, risalendo buona parte del fiume Nilo.
Mentre un ingente numero di legionari assaporava la bella vita all’ombra delle piramidi, ballando con bellezze d’Egitto dal colore brunito, dalle forme sinuose e dal perenne torcicollo, alcuni centurioni scaltri e impavidi attraversarono il deserto alla ricerca dei leoni, con l’intenzione di aprire un import-export con Roma.
La richiesta di parchi di divertimento di moda, come il Colosseo e il Circo Massimo, era tanta: un leone poteva arrivare a valere anche dieci cristiani. Uno dei legionari con più fiuto per gli affari era senza dubbio Flavius.
Formatosi alla scuola dei centurioni cunensis, si era inventato il titolo di “millurione”, poi quello di “centomillurione”, infine era stato lo stesso imperatore Luciano I Benettonius a conferirgli il titolo di “Billionarius”.
Flavius Billionarius era partito per l’Africa alla ricerca di leoni. Ne avrebbe portati a migliaia a Roma e sarebbe diventato ricchissimo e si sarebbe regalato una laurea in ingegneria “cum laude”, anzi come diceva lui stesso, con il suo latino approssimativo, “cum Lauda”.
Convinto della sua missione, aveva deciso che per primo sarebbe andato oltre la Nubia, a vedere dove finiva il Nilo.
“Sono tutte piste, nel deserto. Sarà un gioco da ragazzi…”
“Flavius, tu sei matto”, lo apostrofarono i colleghi legionari Rubens Barrichellus e Michelium Alboretum, grandi esperti di bighe e, come lui, di... (ma questa è un’altra storia).
“Resta qui con noi, qui in Egitto non ci manca nulla, abbiamo le bianche spiagge di Sharm El Shaker, con i favolosi cocktail, le coste di Mar Salam con i suoi affettati, e donne a volontà che amano il mar e il salam! Possiamo fare un salto a Hurgada dove si balla la Lambada o al Cairo a bere un Don Bairo. Ahò, Flavius, sarai mica diventato gaius? Cosa vuoi di più dalla vita, un nubiano?”
E giù risate.
In realtà Flavius sognava in grande, ma si era anche innamorato di una regina africana, Naoma, fiera, elegante e assatanata come una pantera, che l’aveva sedotto, amato, picchiato e se n’era tornata nel Centro Africa, per l’importante sfilata della collezione Tuareg.
“Flavius, di donne come quella ne trovi quante ne vuoi…ci sono le veline delle Piramidi, le letterine col papiro, guarda che pezzi di Sfinge…”
L’ex centurione non li ascoltò, convinto della buona riuscita della sua prima missione e di rivedere un giorno la pantera Naoma.
Salì sulla sua biga Minardia, trainata da duecento pecore, e partì, da solo, verso l’ignoto.
Dopo tre giorni di marcia, le pecore sopravvissute al deserto erano meno della metà.
Flavius fu anche costretto a mangiarsene una, già abbondantemente cotta dal sole. Ne aveva anche tosate una decina e si era fabbricato un sacco a pelo.
La quarta mattina il sole sembrava prosciugare il fiume e colorava tutto il deserto di un rosso irreale, quando a Flavius apparve un’oasi con cespugli verdissimi, dune mosse, canne da zucchero e un cartello in caratteri arabi che recitava: “Circuit di Al-Maranell”.
Sulla duna più alta c’era l’indicazione “Mont El Zemol” e alle spalle un verde palmeto.
Legati alle palme sostavano tre piccoli cavalli che cercavano di arrampicarsi, volendo forse staccare delle noci di cocco dalla cima.
“Odio i cavallini rampanti – pensò Flavius – però potrei amputargli le zampe anteriori e sostituirle con la biga!”
Flavius in un colpo solo aveva inventato i cavalli-motore e la trazione posteriore.
Due giorni durò il lavoro, un ardimentoso e difficile intervento di anatomia meccanica applicata e chirurgia sperimentale.
La seconda sera si sdraiò ai bordi del laghetto di Al-Maranell, la luna sembrava sorridere maliziosa e la stanchezza era mitigata da una brezza solleticante. Flavius Billionarius si fece una canna da Zucchero, cantò “Dune mosse” e scivolò in una pericolosa depressione, data dalla solitudine. Cambiò canzone e cercò di mitigare la tristezza.
“Senza una donna…come siamo lontani….senza Naoma, sto bene anche domani…senza una donna, io non voglio i nubiani…senza una donna…mi alleno con le mani…”
Come se qualcuno avesse ascoltato le sue preghiere, dalle dune di Mihlan Marittim, apparve all’orizzonte un nugolo di sabbia che piano piano prese le sembianze di un piccolo esercito a cavallo. Sulle prime Flavius ebbe un fremito di paura, poi vide folte chiome more e grossi seni che seguivano i movimenti ritmici dei destrieri.
Erano amazzoni!
“Ammazza che amazzoni!”
Undici favolose guerriere a petto nudo, dirette verso la “sua” Oasi!
In formazione come una squadra di calcio.
Il Queens Park Rangers della gnocca!
Velocemente Flavius agghindò le palme con fiori colorati, cambiò l’insegna “Al-Maranell” con “Billionarius” a caratteri cubitali, poi aggiunse un cartello con scritto “Ingresso libero per le donne, uomini 10.000 sesterzi”. Infine intonò le pecore restanti e fece cantare loro “Roma Caput mundi” del menestrello Antonellus Vendutus, avvolse un pareo intorno ai fianchi e si presentò loro col torace villoso in bella mostra.
“Piacere, Flavius”
Seguì una risatina molto poco amazzone di undici cavallerizze.
“Ehm…come vi chiamate?”
Ecco una risposta a cui le amazzoni erano preparate.
“Noi siamo le Gregoraci, le coraggiose guepiere…ehm, guerriere del deserto”
Il ghiaccio era rotto ed essendo nel deserto, già sciolto.
Dopo una notte bollente più del sole di giorno, tanto che il sacco a pelo di pecora prese fuoco e i cavalli-motore diventarono leoni dell’Agip, la mattina seguente Flavius informò le amazzoni della sua grande impresa, catturare centinaia di leoni.
“Entrerete a Roma da vere principesse”, promise loro, “sarete accolte in pompa magna, i sottosegretarius faranno follie per voi”
Ma il pensiero volò alla sua regina nera.
Partirono con i cavalli, e le bighe spinte dai cavalli-motore.
Attraversarono i miasmi del Sudan fino a El-Deodorant, dove ci fu ristoro e una doccia per le ragazze, passarono Karthum, Animatt e l’oasi di Ratatuille, le gole di Tex e il canyon di Rin-Tin-Tin, le montagne di Cortin D’Ampezz e finalmente giunsero al lago della Pole Position, che in seguito, dopo le grandi affermazioni di Flavius in patria, verrà ribattezzato “Lago Vittoria”.
Davanti a un paesaggio straordinario, godendo finalmente di frutta e verdura e pesce d’acqua dolce, Flavius si passò in rassegna le dieci amazzoni.
“Dieci?”
Una di loro, Turkana, salutava le amiche da lontano con uno sguardo dolorante ma gaudente ed il busto rigido, dietro di lei, sul nero cavallo, un selvaggio ancor più nero si teneva attaccato e pareva essere felice. Si trasferirono sulle rive di un altro lago, che ancora oggi porta il nome dell’amazzone.
“Turkana, sei proprio una…”
Anche ad altre Gregoraci gli indigeni non dispiacevano, e Flavio rischiava di rimanere solo un’altra volta.
Seduto sotto una palma, Flavius vide partire una ad una le belle gregoraci del deserto.
Perega si appartò con uno slanciato maasai, Venturia con un tozzo pigmeo, che aveva sospettabilissime doti.
Un paio si fermarono in una grotta dalle parti del Monte Kenya, chiamata “Fermentus” e aprirono una proficua attività.
Si sa che in Kenya era nata Lucy, la prima donna della storia, di conseguenza anche il mestiere più antico del mondo.
Non c’erano ancora i soldi, in Africa, le ragazze si facevano pagare con preziosissimi diamanti. Girava anche una canzonetta a loro dedicata: “Lucy can i pay you with diamonds…”
Rimase solo un’amazzone.
“Lisbeth…vieni qui, almeno tu non mi lasciare. Lo vedi quel Falco che vola lassù, è un segno del destino, dobbiamo restare insieme”
“Se m’intesti quell’atticus vicino al Colosseum…”
Come faceva l’amazzone a sapere dell’atticus? Misteri del sesto senso femminile.
In ogni caso, con una biga e una…fidanzata, Flavius riprese la sua proverbiale energia e si rimise in marcia per trovare i leoni. Ma la savana era grande, sconfinata, e anche pericolosa. Vedevano animali di cui non avevano mai immaginato l’esistenza: leopardi, facoceri, gnu, iene, cinesi. Lisbeth era audace e generosa, ma anche un po’ viziatella.
“Guarda Flaviettus, un croccodillus! Mi ci fai una borsetta da viaggio?”
Ma il centurione era un uomo d’affari, mica un volgare cacciatore. Così, oltre a non poter commercializzare la pelle del croccodillus, arrivata la sera non c’era niente da mangiare.
“Ehi Cocco, sono stufa del cocco…se qui non ti dai da fare, mi trovo anch’io un samburu, me ne basta uno piccolo. Un san burino…”
Flavius non sapeva che pesci pigliare, anche perché nella Rift Valley ci sono solo i tilapia, che fanno un po’ schifo.
Cercarono conforto sotto un grande baobab, ai piedi di un vulcano che si specchiava in un grande lago. La disperazione prendeva il sopravvento, quando udirono un verso di animale, ma più che un verso era una voce.
“Uè, uaglioncelli, tenete fame?”
“Chi ha parlato”, disse Flavius, scattando in piedi.
“Parlato!”
“Ho detto: chi ha parlato?”
“Parlato!”
“Dev’essere un pappagallus”, disse Lisbeth.
“No, sono Gino Parlato”, rispose l’esemplare parlante.
Era un evolutissimo discendente dell’homo sapiens, l’homo napoletanensis.
“Ci pienz’ je!”, disse ancora nella sua lingua preistorica, prendendo i semi del baobab e macinandoli. Poi creò un impasto con l’acqua del lago, foglie di moringa oleifera e radici di kassava. Inserì il tutto in una fessura rovente del vulcano e cominciò a cantare.
“Jambubbuà abarigà ‘sta farina cuocerà”
Si produsse in una danza propiziatoria, pianse davanti al vulcano che sembrava il Vesuvio.
“Ecco a’ pizza!”, esclamò.
“Pizza?”, fece Flavius stupito.
“E’ buona!”, gridò Lisbeth, a cui dalla fame, dalla foga e dall’emozione si slacciò il vestito da amazzone.
“E’ bbona!”, confermò l’homo napoletanensis.
“Sei assunto - confermò Flavius, ringraziando con un bel ruttone – parti oggi stesso per Costantinopoli e inizia a lavorare nel mio Billionarius, in attesa che ne apra uno anche in Africa”
“Vabbuò…ma come ci vag’ a Chesta Antinopoli?”
Flavius estrasse dall’armatura un sacchetto di sesterzi.
“Comprati un cavallo, un cavaliere, un cavallerizzo…un cavolo di mezzo di locomozione e vai!”
La sera scese, la pancia era piena e quella sera Flavius e Lisbeth non consumarono.
Dopo una dormita altrettanto ristoratrice, bisognava pensare a catturare i leoni.
L’unico sistema era entrare in contatto con qualche popolazione di indigeni per farsi aiutare. Ma come trovarli?
Preso da questi pensieri si mise ad ammirare Lisbeth che, come mamma l’aveva messa al mondo, stava facendosi una doccia.
Ebbe pensieri impuri, tipo nominarla amministrator delegatus di una finanziaria in Gallia.
Sgranò gli occhi: non si trattava di una doccia, ma della proboscide di un enorme elefante, che attingeva acqua dal lago.
“Attenta Lisbeth, può essere ostile!”
“Ma no, Flavius, è molto gentile, mi ha fatto segno di salire sulla sua groppa, ci porterà lui in cerca dei leoni!”
Lo chiamarono Mauritius.
Mauritius era grande e grosso ma non stupido. A lui i leoni facevano paura, appena ne avvertiva la presenza, cambiava strada e faceva segno con le orecchie che prima o poi li avrebbero trovati. In realtà Mauritius aveva un sogno: da giovane era stato al mare ma ben presto per poter sopravvivere aveva scelto i dintorni di Nairobi. Prima di morire aveva promesso a se stesso che sarebbe tornato ai piedi dell’Oceano Indiano per dimostrare a tutti che anche un elefante può godersela sguazzando davanti alla barriera corallina.
Così attraversarono lo Tsavo Ovest, s’inerpicarono sulle colline di Voi, entrarono nello Tsavo Est e arrivarono nella piana di Aruba.
“Ma Aruba sarà un paradisus fiscalis?”, si chiese Flavius.
“Fiscalis non lo so – disse Lisbeth – ma guarda che spettacolo!”
Davanti ai loro occhi, l’immensità della savana, branchi di zebre, gazzelle, antilopi, bufali e giraffe. In groppa al grande Mauritius i due non temevano nulla. I rinoceronti salutavano, i ghepardi si tenevano alla larga sbranando giovani impala, le iene guardavano la scena e scrivevano articoli per i giornali locali. Di leoni, però, nemmeno l’ombra.
“Strano – pensò Flavius – dovrebbero essercene a centinaia”
Mauritius era riuscito ad evitarli, il suo obbiettivo era arrivare sulla costa e aprire un casinò, un ristorante e un cimitero di elefanti prima che ci pensasse il suo ospite romanus.
Dopo giorni e giorni di marcia, una mattina, finalmente, approdarono a Malindi.
“Che meraviglia, mio Billionarius. Il mare!”
Ma gli occhi di Flavius erano altrove, rapiti dalle decine di Naome nere e sinuose che vide sulle spiagge e nei locali dove ci si inebriava con il vino di palma.
“Vai al mare, Lisbeth, abbronzati un po’ che arrivo…ho da sbrigare due cosette”
La città fortificata era abitata da mercanti arabi, con cui Flavius tentò subito di fare affari.
“Io vi do le bighe motorizzate, voi mi date il petrolius”
“Petrolius? E che cos’è?”, disse il sultano.
“Ma come fate i soldi voi qui?”
“Con lo zafferano, la curcuma, la frutta, il pesce, la gnocca”
“Sarà meglio aprire un ristorante con discoteca, qui, piuttosto che un circus con i leoni o un autodromus per le bighe”, pensò il centurione.
Nel frattempo Lisbeth era scomparsa.
Sguazzava e prendeva il sole nell’isolotto di Magna Grecia 2, mangiava papaya a chili e ogni tanto cercava una palma dove nascondersi per eliminarla.
Da qui le nostre notizie si perdono. Poco si sa della storia di Flavius, che mai più tornò a Roma. Alcuni storici assicurano che sia rimasto a Malindi e abbia avuto figli da Lisbeth, di nome Falco, Aquila, Isernia, Bonolis, Pierinus, Sabinam e Parcomarino.
Altri raccontano che, rapito dalle Naome, dopo aver spedito Lisbeth nel Principatus Monacensis, abbia invece aperto un bagno turco e sala massaggi chiamandolo con il nome del Re della foresta, che mai riuscì a trovare “Lion donde sei?” (che poi diventerà Lion in the sun”). Altri ancora giurano di averlo visto salpare su un vascello battente bandiera portoghese con al timone il navigatore Alonso.
L’ultima immagine che abbiamo di questa leggenda è però quella di un enorme elefante che sorseggia con la proboscide una birra a lui dedicata, nel suo locale in riva al mare, insieme ad altri animali neanche troppo pericolosi.
GLI AFRICANI E LA BIBBIA
«Già nell'ambiente colonialista era in voga l'abitudine di gettare in mare la Bibbia non appena attraversato il canale di Suez. Pure i missionari, affascinati dal "Continente Nero", non gettavano in mare la Bibbia, ma solo la tonaca.»
«Quando i missionari giunsero, noi africani avevamo la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare ad occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia.»