Gli Arabi chiamavano Bilâd ez Zenj (Bilâd al Zanj) la costa dello Zanguebar o
Zanghebar ("Paese degli Zanj", o "Paese dei negri") ed era anche l'espressione cui facevano ricorso gli arabofoni, per identificare l'area geografica dell'Africa orientale a sud
dell'Abissinia, e in particolare Zanzibar, in cui gli Arabi e i Persiani, forse fin dall'inizio del II secolo dell'Egira (VIII-IX secolo del calendario cristiano), imbarcavano le popolazioni
indigene da essi catturate per destinarle alla schiavitù e trasferirle nel califfato, al fine di sfruttarne a infimo prezzo la forza-lavoro.
Inevitabilmente il vocabolo conobbe una trasformazione semantica, finendo con l'identificare sommariamente gli "schiavi di pelle nera", mentre gli africani di colore, ampiamente presenti
nella storia e nelle istituzioni islamiche venivano di norma identificati col termine sūdān ("neri").
La costa Zanguebar o Zanj o Zingium o costa Swahili, dall'arabo Swahil che significa "Le Sponde", sono vecchi nomi
nella stessa parte della costa di Africa orientale che oggi è divisa tra il Mozambico, la Tanzania, il Kenya e la Somalia. In particolare la Costa d'Ajan, la Costa di
Zanguebar e la Costa dei Cafri rappresentano rispettivamente l'odierna Somalia, Kenya e Tanzania, Mozambico.
La costa dello Zanghebar era visitata non solo da Arabi, ma anche da Persiani e Indù. Lo stesso nome di Zanghebar non è arabo. È formato alla maniera persiana dal termine
"bâr, parola dell’India – dice il viaggiatore Soleiman – che designa al tempo stesso un regno ed una costa” e dal nome proprio Zang o
Zendj (Zenj, Zengi, plur. Zunùj); Zanghebar significa “paese o costa degli Zanj (Zengi)”, così come Hindubar significa costa o paese degli Indù.
In particolare, l'area si estendeva lungo l'Oceano Indiano tra la costa di Ajan nord e il Mozambico a sud, vale a dire dal 5° grado di latitudine nord al 11° grado di latitudine sud e comprendeva
popolazioni di origine Bantu.
Il termine è venuto a significare Zanguebar l'area controllata dal sultanato di Zanzibar (Zanjibar), prima di cadere in disuso. Questa costa ospita la cultura
swahili. È stata a lungo sotto l'autorità del Sultanato dell'Oman, e si distinguono gli stati Magadoxo (Mogadiscio), Mélinde (Malindi), Zanzibar, Kilwa, etc.
Zanj, dall'Arabo: زنج (vedi Vocabolario arabo-italiano dell'Istituto per l'Oriente), dal Persiano: زنگ zang, significa "negro". È un nome
usato da geografi musulmani medioevali e nella letteratura araba vocabolo che s'incontra sia per riferirsi ad una certa porzione del territorio a sud-est dell'Africa (in primo luogo la costa Swahili), sia agli abitanti di origine Bantu che popolavano quella zona. Probabilmente non è di origine araba, ma
persiana, vista l'esistenza dell'identico vocabolo persiano: زنگی, zangī, che significa "di pelle nera". Questa parola è anche l'origine
del toponimo "Zanzibar".
Zengi (زنگی) è una derivazione come lo sono Zanji (زنجي) in Arabo e Zencî in Turco.
Zingium è la traslitterazione latina, un nome arcaico per indicare quella parte della costa dell'Africa orientale che in tempi moderni è costituita dal Kenya e dalla
Tanzania.
I geografi medievali arabi e antichi greci hanno storicamente diviso la costa orientale dell'Africa in diverse regioni sulla base dei rispettivi abitanti. La Somalia, che era la terra orientale dei Baribah o Barbaroi (Berberi), era chiamata Barbara. In tempi moderni l'Eritrea e l'Etiopia erano chiamate al-Habash o 'Abissinia, poiché abitate dai Habash o Abissini, che erano i progenitori degli Habesha.
Arabi e cinesi chiamavano come Zanj, o il "paese dei negri", l'area a sud degli altipiani abissini e Barbara. Traslitterato anche come
Zenj o Zinj, questa zona ad est dell'Africa era abitata da popoli di lingua bantu, chiamati Zanj.
L'area centrale di Zanj si estendeva dal territorio a sud dell'attuale Ras Chiambone a Pemba Island in Tanzania. A sud di Pemba si trovava Sofala nel moderno Mozambico, il cui confine settentrionale poteva essere Pangani. Al di là di Sofala, in Mozambico, c'era l'oscuro regno di Waq-Waq (Il mito di questo albero antropogenico e
fantasmatico situato, secondo autori musulmani, all'estremità remota dell'Oceano Indiano è stato ampiamente diffuso in vaste aree culturali. Il mito dell'albero di waq-waq è legato alla Persia,
ma di lontana origine indiana, i cui rami o frutti si trasformano in teste di uomini, donne o animali mostruosi (secondo le versioni) che gridano "waq-waq", che in persiano significa "guaito".
L'albero antropico è un elemento familiare in tutti i racconti e leggende persiani, che può assumere varie forme ed è legato al mistero della rigenerazione e della vita, evoca l'energia vitale
rilasciata dall'albero e i suoi grandi poteri divinatori).
Lo storico e geografo arabo del X secolo Abu al-Hasan 'Ali
al-Mas'udi descrive Sofala come il limite estremo di insediamento Zanj.
La confusione era costante al principio dei tempi moderni. “Tutti quelli che provenivano dalla zona torrida erano chiamati Indiani” dice Ludolf. Gli Arabi però non commettevano tale confusione.
Si stabilisce persino una certa distinzione, pur senza caratteri definiti, tra i Neri del Sudan e gli Zengi più meridionali: “Agli Abissini è stato dato il
nome di Zengi e di Sudan rispettivamente ai popoli meridionali che abitano il primo ed il secondo clima, e tali denominazioni sono state usate indifferentemente per designare ogni popolo la cui
tinta sia alterata da una mescolanza col nero. È certo tuttavia che il nome Abissino debba specialmente applicarsi al popolo che vive nella terra di fronte alla Mecca ed allo Yemen, e che il nome
Zengi è proprio e soltanto di coloro che abitano sulla costa del mare Indiano” (Ibn Khaldun, p.
171).
“Diffusi sulla riva destra del Nilo, gli Zengi ed altri Abissini avanzano sino alle rive del mare di Habasha. Solo gli Zengi
attraversano il braccio che si stacca dall'alto Nilo e si getta nel mare che porta il nome stesso del loro popolo, si insediano sulle spiagge e spargono le loro case sino a Sofala, che è il
limite del loro paese” (Mas’udi, Praterie d’oro).
Su questa terra, ricca d’oro e di straordinari prodotti, gli Zengi stabilirono la sede del loro governo. Si diedero un re chiamato Waqlimi, appellativo che è rimasto ai loro sovrani. Il
Waqlimi è il loro capo supremo, sovrano di tutti gli Zengi, alla testa di trecento cavalieri. Il re degli Zengi prende sempre il nome del suo predecessore e lo trasmette ai propri successori.
Così il sovrano dell’India è sempre chiamato Bathâra, quello dei Turchi Khakhan, quello dei Rum Qaisar (Cesare), ecc.
Lo scrittore dal quale citiamo questi dettagli è il solo che si sia un poco dilungato sui costumi del popolo Zengi. Gli altri autori arabi si limitano molto spesso a riprodurre l’una o l’altra
parte dei suoi scritti, senza aggiungere nessuna nuova informazione.
Galeno, dice Zakariyya al-Qazwini (Athâr al Bilâd, p. 14), attribuisce agli Zengi dieci caratteri speciali: colore nero, capelli crespi, naso schiacciato, labbra spesse,
gracilità delle mani e dei piedi, odore fetido, intelligenza limitata, estrema petulanza, costumi antropofagi. La cosmografia araba spiega la qualità che noi traduciamo come “petulanza” e
aggiunge che non si vede mai uno Zengi preoccupato; incapaci di mantenere una durevole sensazione di tristezza, si abbandonano ad ogni occasione di risa. I medici dicono che sia a causa
dell’equilibrio del sangue nel cuore o, secondo altri, perché la stessa Soheil (Canopo) si leva ogni notte al di sopra delle loro teste, e si tratta d’un astro che provoca la giocondità.
“Quattro qualità sono sconosciute – dice un proverbio arabo citato da Dimashqi –presso quattro popoli: la liberalità presso i Greci, la buona fede presso i Turchi, il coraggio presso i Copti e la
tristezza presso gli Zengi”. Un altro proverbio dice che la gaiezza sulla terra si divide in dieci parti, delle quali nove sono toccate ai neri e la decima al resto
del genere umano. Quanto all'antropofagia, sulla quale ritorneremo, essa consiste nel fatto che “nelle loro guerre ciascuno mangia la carne del nemico che ha ucciso”.
Mas’udi, due secoli prima di Zakariyya al-Qazwini, riferisce ugualmente i dieci caratteri specifici dei Neri, secondo Galeno. La sua lista differisce in qualche stesso ordine, per permettere di
riconoscere immediatamente la differenza tra le due enumerazioni: tinta nera, capelli crespi, naso schiacciato, labbra spesse, mani e piedi gracili, puzza della pelle, eccessiva petulanza,
sopracciglia rade, grande sviluppo degli organi sessuali.
Infine, secondo l’analisi di De Guignes, El-Bakui (Meraviglie dell'Onnipotenza sulla
Terra), che nel resto della sua descrizione del Bilâd ez Zenj si limita al ruolo di copista di Zakariyya al-Qazwini, indica invece i dieci caratteri dei Neri in questi termini:
“Differiscono dagli altri uomini per il colore nero, il naso schiacciato, la grossezza delle labbra, lo spessore della mano, per il tallone, la puzza, la prontezza alla collera, la scarsezza di
spirito, l’abitudine di mangiarsi gli uni con gli altri, e quella di mangiare i loro nemici”.
Secondo l’autore delle Praterie d’oro, Galeno spiega la petulanza del Nero, così idonea a colpire la normale gravità dell’Arabo, con l’incompleta organizzazione del suo cervello e la conseguente
scarsa intelligenza. Tra le razze nere, lo Zengi è più particolarmente soggetto a questa petulanza, sino all'estremo di tendere alla giocondità.
Un’altra qualità specifica degli Zengi e degli Habasha, secondo Avicenna (Qanun), è di perdere molto tardi i loro capelli. La pelle del loro cranio è dura e difficilmente lascia spazio
ai capelli, che sono radi, ma li trattiene anche con energia, ed “è perciò che la calvizie è tarda, presso gli Zengi e gli Abissini”.
La diversità dei popoli compresi sotto il nome di Zengi è causa di descrizioni molto differenti. “I sapienti – dice Zakariyya al-Qazwini (Athâr al Bilâd, p. 14) – assicurano che essi
sono i più cattivi fra gli uomini, il che ha loro valso il soprannome di ‘leoni della specie umana’ (sabd al ins)”. Come dice Leone l’Africano (Della descrittione dell'Africa et delle cose notabili che ivi sono - Venezia 1550), “essi superano le bestie brute per
malvagità e natura perversa”.
Abbiamo visto due cosmografi porre l’antropofagia nel numero dei loro caratteri distintivi. Non sembra in dubbio, in effetti, che certe tribù degli Zengi abbiano avuto e mantenuto a lungo il
costume di mangiare la carne umana, se non come alimento ordinario, almeno in determinate circostanze. “Ci sono tra loro – dice Mas’udi – tribù di uomini dai denti d’acciaio (mohaddadat al
esnâm), che si mangiano gli uni con gli altri”.
Il capitano di mare persiano Buzurg Ibn Shahriyar autore di Ajaib al Hind (Le Meraviglie dell'India, uno dei primi racconti arabi che si occupano principalmente dell'Oceano Indiano),
riferisce che spesso le navi partite per Sofala degli Zengi, trascinate dai venti e dalle correnti, approdano su rive abitate da Neri mangiatori d’uomini. Zakariyya al-Qazwini, Ibn al-Wardi ed altri numerosi scrittori arabi
raccontano aneddoti sui neri antropofagi.
Ibn Battuta riferisce che un re nero, presso il quale egli soggiornò, aveva esiliato uno dei suoi
giudici, di razza bianca, presso dei neri kafir, ossia non musulmani, presso i quali egli rimase quattro anni. Essi erano antropofagi e “se non mangiarono lo straniero fu a causa del suo
colore, perché dicono che la carne dei Bianchi è nociva, perché non è matura (nâdeg); mentre quella dei Neri è matura”, e se ne cibano volentieri nelle feste. Un gruppo di quei Neri era
venuto a rendere visita al sultano nero Mansa Soleiman, ospite del nostro viaggiatore, “e quel principe li accolse onorevolmente e fece loro dono d’uno schiavo. Essi lo sgozzarono e lo
mangiarono; poi, dopo essersi sporcati volto e mani col sangue della vittima, vennero a ringraziare il sultano. È questo il loro comportamento usuale in questa visita di
cerimonia”.
Zakariyya al-Qazwini ne traccia un ritratto fisico dei meno invitanti: “La gente (dello Zanghebar) è grande e grossa, ma dovrebbero essere più lunghi, a la grossezza
che elli ànno, ché sono sì grossi e sì vembruti (membruti) che paiono giganti, e sono sì forti che porta l’uno carico per 4 uomini; e questo non è maraviglia, ché mangia l’uno bene per 5 uomini.
E sono tutti neri e vanno ignudi, se no che si ricoprono loro natura; e sono li capelli tutti ricciuti. Elli ànno grande bocca e’l naso rabuffato in suso, e le labra e li anare (le nari) grosse
ch’è maraviglia, che chi li vedessi in altri paesi parebbero diavoli... Qui si à le più sozze femine del mondo, ch’elle ànno la bocca grande e’l naso grosso e (corto), le mani (mammelle, nel
testo francese) grosse 4 cotante che l’altre”.
Ibn al-Wardi (Hylander, cap. I, p. 170) dichiara che tutti gli Zengi sono idolatri, malvagi e crudeli. Ne fa i più neri dei neri, d’accordo in tal punto con ciò che Ibn Battuta dice
degli Zengi di Kilwa.
Alcuni Arabi hanno testimoniato ripugnanza per gli Zengi. Taus al Yemani, luogotenente d’Abdallah figlio di Abbas, si rifiutava di mangiare la carne d’un animale ucciso da uno Zengi, che definiva
“schiavo schifoso” (Mas’udi, cap. VI)I; e il califfo Radi Billah, figlio d’El Moqtadir, condivideva tale profonda avversione, al punto che non avrebbe preso nulla dalla mano d’un Nero. Mas’udi
racconta: “Affamato, lo Zengi ruba; quando è sazio, viola”.
Oltre alla ragione che abbiamo fornito per spiegare la diversità di opinioni riportate sugli Zengi, occorre pensare che tra i popoli indicati con questo nome gli uni
avevano subito l’influsso civilizzatore dei musulmani stabiliti lungo le loro coste, mentre altri continuavano a vivere allo stato selvaggio.
Il ritratto che Mas’udi traccia degli Zengi ce li mostra governati da un sovrano detto Waqlimi, ossia, nella loro lingua, “figlio del Signore supremo”, costretto alla più severa equità.
Al primo atto di tirannia, alla minima ingiustizia, essi lo proclamano decaduto, l’uccidono e dichiarano la sua posterità esclusa dalla successione al trono, perché, con una tale condotta, egli
perde la propria qualità di figlio del Signore, re del cielo e della terra.
Gli Zengi non hanno leggi scritte (e nulla permette di supporre che né all'epoca di Mas’udi, né molto più tardi, essi avessero la minima conoscenza della scrittura); a difetto d’un codice
religioso, essi si governano in base al costume e a regole tradizionali. Essi hanno dei khatib o predicatori, che parlano nello loro lingua.
Oltre a questi predicatori, gli Zengi di Melenda hanno degli stregoni o incantatori, che chiamano Moqnefa. Queste abili persone “pretendono di conoscere l’arte d’incantare i serpenti più
velenosi, al punto di renderli inoffensivi per tutti, eccetto per coloro cui essi augurino il male o contro i quali vogliano vendicarsi. Essi pretendono pure che, grazie ai loro incantesimi, i
leopardi e i leoni non possano recar loro danno”.
Il vestito degli Zengi è dei più semplici. Per la maggior parte del tempo vanno nudi. Ma non disdegnano di indossare qualche ornamento speciale; poiché presso di loro l’oro è estremamente comune,
preferiscono perciò il ferro che – dicono – allontana il demonio e dà il coraggio a chi l’indossa.
Gli Zengi si avviano alla battaglia montati su buoi; quei ruminanti, con selle e briglie come i cavalli, svolgono molto bene il loro dovere. Abbiamo visto che il Waqlimi, o re degli re
degli Zengi, ha sotto i suoi ordini un esercito di trecento “cavalieri”: quei cavalieri hanno evidentemente per cavalcatura delle bestie cornute, perché il Bilâd ez Zenj
("Paese degli Zanj"), non nutre né cavalli né muli, né cammelli, e tutti quegli animali sono là ignoti. I buoi dello
Zengi hanno le pupille rosse, gli altri buoi ne hanno paura e fuggono.
L’alimentazione degli Zengi ha per base il cereale chiamato dura o dorra, nome che sembra comprendere diversi tipi di mais e di miglio. Certe varietà del prezioso cereale, che
per una parte dell’Africa è l’equivalente del grano per l’Europeo e del riso per l’Indù, presentano una pellicola più o meno nera, il cui colore dovette colpire i viaggiatori, abituati alla
sfumatura dorata dei loro cereali; derivò senza dubbio da ciò la credenza che i prodotti del paese degli Zengi fossero tutti neri, come la pelle degli indigeni.
Gli Zengi hanno banane in abbondanza, e di diverse qualità. Mangiano anche, come alimento ordinario, una pianta detta kalâdi, che si estrae dalla terra come i tartufi (kemâh),
parente prossima della colocasia d’Egitto e di Siria. Anche il miele e la carne figurano nei loro pasti.
Le isole abbondano in palme da cocco, il cui frutto è molto apprezzato da tutti i popoli zengi. Essi ne traggono una specie di vino (nebidh) che inebria, e che danno da bere a chi
vogliono ingannare.
Alcune tribù miserabili, come abbiamo già visto, vivono di rane, topi, serpenti, lucertole e d’altri rettili disgustosi. Zakariyya al-Qazwini cita un popolo di Sofala che mangia le mosche.
Gli abitanti delle rive del mare hanno nella pesca una grande risorsa; ve ne sono anche che salano il pesce per venderlo agli stranieri.
La caccia alle bestie selvatiche, per procacciarsi pelli, corna o zanne, fornisce carne agli abitanti, anche quando gli animali vengono uccisi con frecce
avvelenate.
“Ho saputo da diverse persone che hanno viaggiato nel loro paese – dice Yaqût – che hanno una specie di pianta, del
genere della malva, che fanno cuocere per spremerne il succo. Questo è poi ridotto al fuoco sino alla consistenza di resina. Per provarne il potere tossico, un uomo si procura una ferita ad una
gamba; quando il sangue cola, vi avvicina un po’ del veleno, con la punta del coltello: se la cottura è a punto, il sangue rifluisce verso la ferita e l’uomo si affretta a fermarlo, perché, se
arrivasse alla ferita, il ferito morirebbe. Se il sangue non ritorna verso la ferita, si riprende la cottura. Il veleno preparato viene chiuso in una scatoletta che si appende alla cintura. Il
cacciatore ne mette un po’ sulla punta della sua freccia. Ogni animale colpito muore...; si mangia la sua carne, che non fa alcun male”.
"Gli Zengi – dice questo contemporaneo di Mas’udi – obbediscono a diversi re, in guerra gli uni contro gli altri. Questi re hanno al proprio servizio degli uomini detti Mokhazzamùn (al
singolare mokhazzam), perché hanno il naso forato. Nella loro narice è stato passato un anello, cui sono attaccate delle catene. In tempo di guerra, quegli uomini vanno alla testa dei
combattenti; per ciascuno di loro c’è qualcuno che prende l’estremità della catena e la tira, per impedire all'uomo di andare avanti. Tra le due parti s’interpongono dei negoziatori: se si
accordano per un arrangiamento, ci si ritira; altrimenti la catena viene avvolta intorno al corpo del guerriero e il guerriero è lasciato a sé stesso; nessuno abbandona il campo, ma si fanno
uccidere tutti al loro posto di combattimento”.
Gli autori orientali dicono che gli Zengi hanno una straordinaria venerazione per gli Arabi.
“Quando vedono un Arabo, sia egli viaggiatore o mercante, si prosternano davanti a lui, esaltano la sua dignità e gli dicono nella loro lingua: ‘Siate il benvenuto, o figlio dello Yemen!’”. Abu
Zeid spiega questa profonda venerazione col fatto che gli Arabi portino datteri agli Zengi e che gli Zengi abbiano per quel frutto una viva passione. Il nero che si prosterna davanti all'Arabo
esclama: “Ecco un uomo del paese che produce i datteri!”
Gli Arabi, poco scrupolosi, rispondono a queste testimonianze di rispetto con ogni sorta d’inganni e di truffe commerciali. Uno dei loro peccatucci consiste nell'attirare da parte i ragazzi e –
con l’offerta di datteri – d’impadronirsi di loro, portarli via e venderli come schiavi.
Diciamo che gli schiavi Zengi erano molto apprezzati nei paesi musulmani. La loro estrema facilità a dimenticare la tristezza e a gioire per ogni minima cosa, come dei bambini, li rendeva molto
idonei a subire la schiavitù; sopportavano facilmente l’espatrio: “Se gli Zengi vengono da noi e il paese li accoglie bene – dice Zakariyya al-Qazwini – conservano buona salute e stanno
bene”.
L’India e la Cina fornivano ai paesi arabi la maggior parte dei generi, come perle, rubini, legni preziosi, canfora, stoffe di seta, zucchero candito, ecc. Ma il paese degli Zengi forniva
metalli, ambra, avorio, schiavi, pelli di leopardo, legname da costruzione.
Prima degli insediamenti arabi, gli Zengi della costa non possedevano imbarcazioni. Erano visitati dalle navi d’Oman e anche dai mercanti indiani. Al tempo d’Ibn Battuta, alcune città della costa
avevano acquisito una certa importanza commerciale. Il sottofondo della popolazione era sempre africano, ma gli Arabi, i Baniani dell’India, senza dubbio anche dei musulmani di sangue malese,
avevano in mano la direzione degli affari. Gli incroci multipli degli Arabi con donne indigene avevano per così dire creato una nuova razza, il cui il tipo caucasico attenuava più o meno i
caratteri fisici del nero purosangue.
La lingua
Sfortunatamente gli Arabi, come i Greci e i Romani, si preoccupano poco d’informarci sulle lingue dei popoli stranieri. Tutto ciò che si è potuto fare è stata la
raccolta dei quattro o cinque termini, specificamente attribuiti agli Zengi.
Allora come oggi, più d’oggi senza dubbio, una grande diversità regnava nel linguaggio dei popoli costieri. Una delle parole che rileviamo s’identifica con facilità in un termine dell’idioma
swahili, usato lungo quest’immensa costa che gli Arabi hanno chiamato “Le Sponde” (Swahil) e che, partendo a sud di Mombasa, si stende sino al capo
Delgado.
È il termine che i manoscritti d’Al Idrisi scrivono Moqnafâ, usato per indicare gli “incantatori” di Melenda. Anziché Moqnafâ io leggerei Meqanqâ, cambiamento che non
presenta nessuna difficoltà nella scrittura araba, perché si ottiene ponendo due punti anziché uno sulla penultima lettera. Meqanqâ non differisce in nulla dalla parola swahili
megangga che significa “stregone”.
Waqlimi è il re degli re degli Zengi. La parola significa “figlio del Signore supremo” (ibn ar Rabb al Kebir).
Maklangialu è il nome di Dio; Mas’udi l’interpreta “il maestro supremo” (ar Rabb al Kebir).
Er rahim, gigantesco tamburo adorato a El Bayas. È meglio leggere ar Rajim, secondo la maggioranza dei manoscritti.
Hawdi, uccello di Sofala, che ripete gradevolmente i suoni che intende e parla ancor meglio del Babbagha o pappagallo. In swahili, Hua significa piccione.
Giammùn (Jammùm), frutto che si mangia a Mombasa. Dalla descrizione che ne dà Ibn Battuta, si capisce che il giammùn è una varietà del giambù dell’India e
della Malesia, ben noto ai naturalisti col nome di Jambose. Dunque la parola non è di origine africana.
Kalâri o piuttosto Kalâdi, pianta orticola. Anche questo nome è straniero alla costa africana e originario dell’India.
Kushân, ragù di carni e verdure a Maqdeshu. Suppongo che non sia altro che la parola persiana Kushâb “brodo, salsa di carne”.
Qabliya, nome attribuito a una parte degli Zengi, secondo Dimashqi significherebbe “formiche”.
Zengiuya, altro nome degli Zengi, significherebbe “cani”.
Negri famosi
La storia politica particolare dei popoli Zengi, anteriormente ai tempi moderni, è del tutto sconosciuta, il loro ruolo nella storia completamente
nullo.
Tuttavia, gli Zengi fornivano molti schiavi ai musulmani. Durante il periodo del califfato, essi erano moltiplicati nell'Iraq, al punto che rischiarono di diventarvi gli strumenti d’una
rivoluzione, sotto gli ordini d’un certo Alī ibn Muhammad b. Abd
al-Rahīm (meglio noto come Alī ibn Muhammad al-Zanjī), che la storia ricorda come Sahib ez Zenj (Sāhib al-Zanj), “Signore degli Zengi”. La rivolta durò
circa quindici anni (869/883).
Era il sec. IX. L’impero dei califfi aveva raggiunto il suo apogeo di gloria e di potenza, sotto i regni di Harun ar Rashid e di suo figlio Al Mamun, protettori delle lettere e delle arti. I loro
successori Motasim e Wathek videro formarsi gli elementi d’una prossima dissoluzione.
Gli Alidi spossessati non avevano cessato di cospirare apertamente o in segreto contro i loro vincitori Abbassidi. Fermenti di rivolta si manifestavano in tutte le province, e persino a Bagdad,
centro dell’impero. Mostansir sgozzava suo padre e moriva di rimorsi (861); il suo successore Mostayn veniva rovesciato da una fazione che proclamava Motaz (866) e questi, a sua volta deposto,
lasciava il posto a Mohtadi, figlio di Wathek (869). Mohtadi fu massacrato l’anno dopo.
In tali circostanze scoppiò la rivolta d’Alī ibn Muhammad. Egli si diceva legittimo erede degli Alidi, discendenti dal genero di Muhammad (Ali bin Abi Talib, primo cugino paterno di Maometto, che
sposò Fatimah al-Zaharai, la figlia del citato Profeta islamico); ma il suo miglior argomento era una formidabile truppa di Zengi. Quegli schiavi neri, molto diffusi lungo le rive del Tigri e
dell’Eufrate, formavano un elemento considerevole dell’esercito. Soldati robusti, intrepidi, feroci, erano usati dai sovrani per le occorrenze più “sporche”. Così, più d’un secolo prima, quando
il primo degli Abbassidi, Abu’l Abbas il Sanguinario, dovette reprimere una rivolta degli abitanti di Mossul (132 Hegira, 749–750), suo fratello Yahya, incaricato del castigo, abbandonò la
popolazione alla ferocia d’un corpo di quattromila Zengi che aveva nel proprio esercito. Quei neri si abbandonarono in città a un’orgia cruenta in cui si dice che morissero dodicimila persone,
uomini, donne, vecchi e bambini.
L’esercito di Alī ibn Muhammad era ben più numeroso. Egli aveva raccolto i principali elementi tra gli Zengi dell’Iraq–Arabi, e specialmente a Sibâkh, non lontano da Bassora.
Nativo d’un villaggio della provincia di Rey, il “Signore degli Zengi” era musulmano, dice Mas’udi, ma eretico. Le sue truppe nere saccheggiarono il paese, s’impadronirono di diverse città e
commisero i più orribili eccessi. Ramla, Wasit, la stessa Bassora caddero in loro potere. Tra le vittime degli Zengi a Bassora, Ibn Khalliqan cita il saggio grammatico e professore Ar-Riashi.
“Gli Zengi – egli dice – entrarono in città al momento della preghiera del venerdì, il 16 shewal 257 (sett. 871). Quella notte e il sabato seguente saccheggiarono Bassora a ferro e fuoco. La
domenica, dopo aver posto in fuga la guarnigione, proclamarono un’amnistia generale; ma quando la popolazione si mostrò, venne massacrata. Pochi abitanti si salvarono. La grande moschea e tutti
coloro che vi si erano rifugiati furono dati in preda alle fiamme. In uno di quei tre giorni morì Ar-Riashi”. Un altro personaggio che godette d’una certa celebrità, il poeta Ibn Doreid, fu più
fortunato e riuscì a scappare da Bassora prima dell’entrata degli Zengi.
I rivoltosi occuparono l’Iraq e una parte dell’Ahwaz (Susiana) e del Khuzistan. Gli eserciti del califfo furono battuti in diversi scontri. La guerra durò così a lungo – dice lo storico Fakhr ed
Din – che ciascuno dei due partiti fondò delle città sul teatro della lotta, città in seguito distrutte, ma di cui rimanevano le tracce.
A Mohtadi era succeduto Mutamid. Il fratello di questo califfo ebbe la gloria di liberare l’impero dal suo temibile nemico. Dopo più di quattordici anni di lotta, in cui le vittorie si
alternavano alle sconfitte, il Sahib degli Zengi fu infine schiacciato e messo a morte nell’883 (sabato 2 di safar 270, dice Mas’udi). A lungo fu conservato il ricordo di quella formidabile
insurrezione e dei massacri che ne furono la conseguenza, perché in ogni occasione il capo degli Zengi massacrava senza pietà ogni creatura vivente e non risparmiava né l’età né il sesso,
lasciando ovunque rovine fumanti e cadaveri. In un solo scontro, presso Bassora, si dice che facesse morire trecentomila persone. Si faceva solo grazia della vita alle donne d’alto lignaggio, per
venderle all'asta tra i soldati. In tal caso, il venditore non trascurava la loro nobiltà e aveva cura di sciorinare i titoli genealogici: una tal giovinetta nobile fu così venduta al prezzo di
due o tre dirham (meno di tre franchi). Ogni Zengi ne aveva dieci, venti, trenta, che nel suo ménage occupavano tutte le funzioni più basse. Era una gioia per quegli schiavi in rivolta ridurre a
tali condizioni avvilenti le discendenti di Hassan, di Husseyn d’Abbas, e delle più illustri famiglie arabe.
La sconfitta degli Zengi fu seguita in Bassora da scene spaventose. Ecco, secondo l’autore delle Praterie d’oro, un angolo di quell'orribile quadro: “Poiché quelli di quel partito che
erano a Bassora parteggiavano ancora fermamente per le opinioni di Mohallebi (uno dei principali ufficiali del Sahib) e continuavano a riunirsi in certi venerdì, furono posti fuori legge. Gli uni
riuscirono a fuggire, gli altri furono massacrati o annegati. Un gran numero di loro si nascosero nelle case e nei pozzi; si mostravano solo di notte e davano la caccia a cani, topi e gatti, per
ucciderli e nutrirsene. Ma ben presto tale risorsa si esaurì e non trovarono più nulla da mangiare. Allora mangiarono i cadaveri di coloro tra i loro compagni che morivano: si spiavano e
attendevano la morte l’uno dell’altro; i più forti uccidevano i compagni e li divoravano. A questi mali si aggiunse la privazione d’acqua dolce. Si racconta che una donna si trovasse presso una
delle sue compagne in agonia; la sorella della morente era là; tutte quelle donne, sedute in tondo, aspettavano la sua morte per nutrirsi della sua carne.
Ecco il racconto d’un testimone: ‘Non aveva ancora reso l’ultimo respiro che ci gettammo su di lei, la tagliammo a pezzi e la divorammo. Sua sorella era con noi; mentre eravamo all'incrocio detto
di Yssa ben Abi Harb, essa corse verso il fiume e, con la testa della sorella in mano, si mise a piangere. Interrogata sul motivo del suo dolore, rispose: – Quelle donne si sono riunite intorno a
mia sorella e senza lasciarla morire di morte naturale l’hanno fatta a pezzi. Quanto a me, mi hanno derubata e del corpo di mia sorella m’hanno lasciato solo la testa. – E continuò a lamentarsi
così del dolo che le era stato fatto nella divisione del cadavere’.
Vi furono molte scene di tal genere, e ancora più atroci di quella che abbiamo appena raccontato”.
Fakhr ed Din pretende che la rivolta degli Zengi costasse la vita a due milioni e mezzo di persone. Mas’udi riporta una valutazione molto più ragionevole. “Il numero di coloro che perirono
durante quegli anni di guerra offre – egli dice – materia alla contestazione: gli uni lo valutano molto alto, gli altri con più moderazione. Secondo i primi, la cifra delle perdite sfugge a ogni
calcolo: solo Dio nella sua scienza infinita può sapere quanto siano costate le conquiste delle città, dei cantoni e delle borgate e i massacri che ne conseguirono. I più moderati stimano il
totale delle perdite a cinquecentomila anime; ma entrambe le opinioni riposano solo su dati vani e congetturali, ed ogni calcolo rigoroso è impossibile” (La redazione delle Praterie
d’oro è successiva di soli 60-70 anni alla morte del Sahib ez-Zenj).
La cifra di cinquecentomila vittime non sembrerà esagerata, se consideriamo la durata della guerra ed il carattere feroce dei belligeranti. Mas’udi, in gioventù, aveva potuto conoscere dei
testimoni oculari di quelle atrocità. Benché questi fatti siano conosciuti nella storia musulmana sotto il titolo di “Rivolta degli Zengi”, si crederà senza pena che gli Zengi
propriamente detti non formassero che una parte dell’esercito insorto. Oltre ai bianchi che vi s’immischiarono, si contavano molti neri che certamente non erano originari della costa orientale
d’Africa. Come è stato già detto, il nome di Zengi è stato abusivamente applicato ai negri d’ogni provenienza.
Oltre alla fama d’Alī ibn Muhammad, non conosciamo alcun avvenimento storico notevole in cui figuri il nome degli Zengi.
Per un maggior approfondimento sulla "Rivolta degli Schiavi Zanj", invito a leggere l'articolo che narra, sintetizzando, vicende della ribellione degli schiavi neri nell'Iraq meridionale del IX secolo. Una versione che poco si discosta da quella degli storici arabi sopra descritta.
GLI AFRICANI E LA BIBBIA
«Già nell'ambiente colonialista era in voga l'abitudine di gettare in mare la Bibbia non appena attraversato il canale di Suez. Pure i missionari, affascinati dal "Continente Nero", non gettavano in mare la Bibbia, ma solo la tonaca.»
«Quando i missionari giunsero, noi africani avevamo la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare ad occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia.»