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Pigmei-Antico popolo della foresta


Una famiglia di pigmei Mbuti che vivono all’interno della foresta dell’Ituri nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo
Una famiglia di pigmei Mbuti che vivono all’interno della foresta dell’Ituri nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo

Storia del più antico popolo della foresta

I Pigmei sono molto probabilmente la popolazione più antica che abbia abitato le foreste equatoriali e tropicali africane.
Sono di bassa statura (inferiore ai 150 cm) e caratterizzati da pelle scura, capelli crespi, naso schiacciato e cranio brachimorfo.
Il nome "pigmeo" deriva dal greco pygmâios ("alto un cubito") che i Greci usavano per riferirsi a un leggendario popolo di nani, localizzato a sud dell'Egitto, perennemente in guerra contro le cicogne (o le gru) che devastavano i loro campi.

Le popolazioni pigmee sono distribuite lungo tutta la zona tropico-equatoriale di questi stati: Camerun, Repubblica Centro-Africana, Gabon, Repubblica Popolare del Congo (capitale: Brazzaville), Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire, capitale: Kinshasa), EST Uganda e EST Ruanda (regione del massiccio del Ruwenzori e dei vulcani che delimitano il confine tra Uganda/Ruanda e la R.D. del Congo). Si tratta di comunità composte da pochi individui; il numero totale dei pigmei africani si stima infatti inferiore a 250 000.

Alcune popolazioni Pigmee: BAKA (Camerun), BABINGA (Gabon), BAMBUTI, BASHWA, BAEFE, BAPOO, BALESE (R.D. del Congo), BATWA (Uganda-Ruanda), TWA (Ruanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo ed Uganda), gli AKA o BIAKA (Repubblica Centrafricana e Congo settentrionale) e gli MBUTI (Repubblica Democratica del Congo).
Sui monumenti egiziani del secondo millennio a.C. compaiono notizie scritte nelle quali i Pigmei sono chiamati "Danzatori degli Dei" per la loro grande abilità nella danza.
Anche da questi antichi contatti con la civiltà egizia si presume che i Pigmei vivessero un tempo in regioni molto più a nord di quelle che abitano oggi, forse fino al basso Nilo. In una lettera pervenutaci in condizioni integre e risalente all'Antico Regno, un faraone ringraziava un suo governatore, Harkhuf, per avergli fatto dono di un "nano" proveniente dalla "terra degli spiriti" (espressione che gli egizi usavano per riferirsi ai territori a sud del loro dominio).
Nell'arte romana, i Pigmei della valle del Nilo sono spesso rappresentati come figure caricaturali, in scene che urtano la sensibilità umana per lo scarso pudore: sesso estremo, già ampiamente diffuso tra i romani, specialmente tra i soldati di alto rango, con il quale si ristoravano dopo le estenuanti battaglie. Alcuni affreschi con questo tipo di soggetti, rinvenuti a Pompei, sono oggi esposti al Museo archeologico nazionale di Napoli. Altre scene erotiche con Pigmei sono ancora visibili a Pompei, per esempio sul fianco di un triclinio nella casa dell'Efebo.

Nella foresta equatoriale in cui vivono i Pigmei, vive anche un certo numero di animali tipici di quell'ambiente: leopardi, okapi, elefanti, antilopi di svariate famiglie, scimmie di ogni tipo e taglia, serpenti in buona parte velenosi ed alcuni velenosissimi (Il cobra dal collo nero, o cobra sputatore (naja nigricollis), il mamba nero (dendroaspis polylepis) e il mamba verde orientale (dendroaspis angusticeps), vipere (tra cui la Vipera del Gabon (bitis gabonica), ecc.) e numerosi tipi di animali più o meno piccoli di sottobosco (istrici, ricci, pangolini piccoli e grandi). Numerose sono le famiglie di formiche, tra le quali, le più note sono le termiti divoratrici di legno, abiti di stoffa o di pelli; le formiche rosse divoratrici di animali, pesci e insetti e anche dell'uomo se non fugge; i formiconi neri e velenosi, le formichine rosse che sono le sole in grado di mettere in fuga le formiche rosse carnivore, ecc.
Nella foresta crescono anche alberi "preziosi" come il mogano, il teak e l'ebano, tutti ottimi per mobili di alto valore.

I Pigmei hanno sempre ben accolto le popolazioni Bantu giunte nell'area tropico-equatoriale verso l'anno 1000 d.C., stabilendo con loro rapporti di scambio per baratto dei prodotti della caccia con i prodotti dell'agricoltura, praticata dai Bantu. Con il passare del tempo questo rapporto su base di parità si deteriorò in quanto i Pigmei, rosi dall'invidia dall'evidente supremazia dei Bantu (per la superiorità tecnologica e arte metallurgica ignota al popolo dei nani, nonché per la tecnica agricola, poco nota e per nulla da costoro praticata), iniziarono ad attaccarli con piccole scorribande e ad ucciderli con frecce avvelenate, ma stando sempre a debita distanza e nascosti tra la vegetazione, tanto che i malcapitati neppure riuscivano a vederli.

Ma non passò molto tempo che i Bantu scoprirono resti dei loro compagni nei vicini villaggi dei "batwa" (piccoli uomini), ed appena seppero che i cadaveri venivano "divorati" dai Pigmei al fin di acquisirne forza ed aspetto fisico, non ebbero difficoltà a reagire sottoponendoli alla stessa se non peggior sorte.

Ma al di là di racconti che hanno molto del fantastico, specialmente intorno ai costumi dei pigmei, la ragione delle enfasi si deve più che altro ricercare in ciò che gli scrittori, senza esserne stati testimoni oculari, ebbero conoscenza dei fatti narrati dopo che questi, passati di bocca in bocca, poterono giunger e fino a loro.
Sfrondate, ad ogni modo, di tutto quanto presentano di favoloso, le leggende degli antichi, nelle loro basi, hanno trovato conferma anche nelle più recenti scoperte.
Veramente decisive sono quelle fatte negli ultimi tempi, nelle parti più centrali del continente nero. Stanley, nel viaggio compiuto nell'Africa Equatoriale (1874-77), s'incontrò in più tribù di Pigmei: "Nani numerosi e feroci... di una natura violenta e sanguinaria... nomadi, astuti, irrequieti, razziatori", dai quali dovette più volte difendersi lungo il suo cammino.

L'odio dei Bantu nei confronti delle popolazioni pigmee non ebbe mai a scemare, tanto che ancor oggi non esitano, seppur con ragioni ben diverse, a cacciarli dalle loro terre o sottometterli.

In Africa i Paesi in cui il ripugnante uso di cibarsi di carne umana sembra essere più diffuso, sono il Congo, la Liberia, la Repubblica Centro Africana e l’Uganda.
Il cannibalismo, a scopi rituali, permane peraltro anche sulla costa del Kenya, per propiziare, per esempio, un buon raccolto.
"Particolarmente pregiata, in Congo, è la carne di un tipo umano, il Pigmeo", questa la frase propagandata dalle popolazioni pigmee congolesi.
E proseguono:
"I Bantu ci considerano come “subumani” e molti credono che la nostra carne conferisca poteri magici".
"I Bantu si alimentano con gli organi sessuali dei pigmei, credendo che questo darebbe loro forza”.
"I Bantu ci costringono a nutrirci di resti cotti di altri Pigmei”.
Tra le loro paure ancestrali, infatti, c’è quella di essere mangiati dai Bantu, come quando erano considerati una sorta di piccole scimmie.

Nondimeno i Pigmei del Camerun:
“Aiuto! Siamo vittime di violenze quotidiane”, questa la denuncia delirante di Charles Jones Nsonkali, rappresentante delle comunità dei Baka, i cacciatori e raccoglitori sopravvissuti, a suo dire, allo sterminio attuato nei secoli dalla razza Bantu, che vivono nelle foreste, dove sopravvivono cacciando animali selvatici e raccogliendo frutta.
“Le foreste che un tempo erano la casa del popolo Baka sono state trasformate in parchi nazionali senza il loro consenso - si legge nella denuncia - le eco-guardie, torturano i Baka e rendono la loro vita un inferno. Li fanno spogliare e quando sono nudi li picchiano, li umiliano, costringendoli a gattonare a quattro zampe. Distruggono i loro villaggi e le loro proprietà”.
Ed ancora: "I Baka vengono considerati bracconieri da parte dei ranger pagati dal WWF, che “difendono la conservazione” della foresta africana nella quale i pigmei vivono da secoli. Ma i Baka non sono colpevoli di nulla se non di tentare di vivere e nutrire le loro famiglie e vengono puniti perché gli estranei non capiscono il loro modo di vivere, non perché hanno fatto qualcosa di sbagliato".
E accusa la conservazione gestita da estranei che pensano di essere le uniche persone che vogliono prendersi cura della foresta ma non conoscono gli usi e costumi del popolo Baka e le sue leggi.
"Ma chi può prendersi cura della natura più delle persone che chiamano casa la foresta e dipendono da essa per la loro sopravvivenza? – sottolinea il rappresentante buontempone – Se solo gli ambientalisti li ascoltassero capirebbero che i Baka sono alleati naturali della protezione delle foreste. Non si possono escludere i Baka dalla conservazione e non si possono punire per il loro modo di vivere tradizionale”.

È evidente che nessun progetto di conservazione dovrebbe esistere sulle terre indigene senza l’accordo con la gente vi abita. Se ciò non accade, gli sforzi per la protezione della natura non potranno mai avere successo.
Purtroppo il problema sono proprio i Baka, le loro leggi ed il loro modo di vivere tradizionale: "Uccidere animali sino alla loro totale estinzione in quanto, non praticando l'agricoltura, la caccia è l'unica loro fonte di sostentamento!"

Voi capite che chi dovrebbe insegnare al popolo Baka l'integrazione con la civiltà ha un compito molto arduo o meglio impossibile!

Se il nostro compito è quello di aiutare l'Africa non con l'assistenzialismo, ma con l'istruzione, il controllo delle nascite, la lotta al tribalismo, al bracconaggio, alla deforestazione e desertificazione dei territori oltre ad opere pubbliche come strade, scuole, ospedali, abitazioni civili, fonti di energia pulita, acquedotti, ecc., con i pigmei Baka apparirebbe da subito chiaro il risultato di una "missione impossibile".

Per concludere, se le credenze magiche e il gusto per la carne umana dei Bantu sono note ai Pigmei e viceversa...
Beh, lasciate che si "mangino" a vicenda!.

 Il pigmeo Ota Benga
Il pigmeo Ota Benga

La storia di Ota Benga.


Il “Pigmeo” esposto tra le scimmie nello zoo di New York.
Un martire del Darwinismo.

Un secolo fa, i darwinisti cercavano ancora il mitico “anello mancante”. Non contenti di aver esibito veri e propri falsi (come nel caso dell’Uomo di Piltdown, che era in realtà un montaggio tra la calotta cranica di un australiano e la mandibola di un orango fossilizzata artificialmente, ma che fu messo in mostra al British Museum per 40 anni…), ci furono anche persone “vive” che ne furono vittime. Il caso più atroce è quello di Ota Benga: una delle tante storie che i libri di scuola non raccontano…

Secondo le teorie razziali in voga alla fine dell’Ottocento la bassa statura, i capelli crespi, il naso schiacciato, tratti somatici delle tribù Twa, Aka, Baka, Bambuti e Mbuti (“sottogruppi” delle etnie agglomerate col termine pigmeo), furono sufficienti agli occhi dei colonizzatori per classificarli come subumani a cui riservare un trattamento a dir poco abominevole.

Ota Benga era di origini congolesi, membro del popolo di pigmei Mbuti, e viveva nei pressi del fiume Kasai, nel Congo Belga. Il villaggio trascorreva il suo tempo in pace e in armonia con i coloni locali, fino a quando Leopoldo II del Belgio, il Macellaio del Congo, decise di sfruttare intensivamente le risorse di gomma congolesi sterminando nell'arco di 23 anni circa 10 milioni di nativi congolesi.
Il villaggio di Benga venne sterminato, in quello che fu un massacro più che una vera e propria battaglia. Benga tornò da una battuta di caccia di qualche giorno per poi ritrovare il suo villaggio raso al suolo, la moglie e le due figlie uccise, e rimase unico esponente vivente della sua comunità.
Poco dopo, Ota Benga venne catturato dagli schiavisti locali, e venduto ai colonizzatori.

E proprio tra i colonizzatori va annoverato l’antagonista di questa nostra storia. Samuel P. Verner, presbitero originario del South Carolina che nel 1885, arrivò in Africa per esplorare, convertire ed arricchirsi. Dopo alcuni anni di osservazione dei “pigmei”, nel corso dei quali si appropriò di manufatti indigeni che rivendeva negli USA, si accordò con l’antropologo John McGee, per portarne 12 in America da esporre negli zoo umani di recente invenzione. Fu così che tra gli altri Verner, nel 1904, acquistò per una libbra di sale e un pezzo di stoffa Ota Benga, reso schiavo dalla milizia coloniale belga che aveva trucidato la sua famiglia.
In cambio dei “pigmei” il missionario ricevette cento dollari sonanti.

Ota Benga e gli altri vennero esposti per la prima volta a St. Louis in Louisiana, dove furono oggetto di derisione da parte del pubblico e divennero protagonisti di ridicoli test scientifici che ne decretarono il presunto ritardo mentale.
Benga e gli altri africani che lo avevano seguito dal Congo divennero popolari, specialmente per la personalità amichevole e i caratteristici denti limati. Cinque centesimi di dollaro per assistere alle loro performances, qualcosa di più per portare a casa una fotografia. Venivano definiti “i soli cannibali africani genuini in America”, e attiravano oltre 40.000 spettatori ogni giorno. A Verner fu consegnata la medaglia d’oro per l’antropologia, e il noto scienziato dell’epoca W. J. McGee ebbe l’opportunità di mostrare che Benga e i suoi compagni “rappresentano il grado più basso dello sviluppo umano”. In seguito, anche a causa degli atti di insubordinazione del gruppo, vennero tutti rispediti in Africa.

Ota Benga visse per breve tempo in Congo, e sposò una donna congolese che poco dopo morì per un morso di serpente. Ma ben presto fu riportato da Verner negli Stati Uniti dove iniziò ad accompagnare l'americano durante i suoi viaggi in Africa.
Trasferitosi in America, iniziò a lavorare (senza salario per via del mancato accordo economico tra Verner e il curatore) per l’American Museum of Natural History di New York come intrattenitore per i visitatori.
Le scarse finanze di Verner non potevano continuare a mantenere Benga a tempo indefinito. L’americano decise quindi di portare Benga allo Zoo del Bronx di New York, dove venne collocato nella gabbia delle scimmie. Il 9 settembre 1906 il New York Times dedicò a questo “boscimano dai denti affilati” un articolo che portò ben 40.000 persone a vedere quel ragazzo che condivideva la stessa casa di Dohong, celebre orango addestrato per eseguire trucchi e imitare il comportamento umano.
In quella condizione di prigionia forzata Ota Benga e Dohong sembravano trovare un po’ di serenità l’uno nell'altro: giocavano, si abbracciavano, forse si consolavano a vicenda.

Nei mesi seguenti, mentre l’attenzione del pubblico scemava e la Chiesa Battista americana, sotto la guida del reverendo James H. Gordon fermamente convinto che l’esibizione volesse dimostrare la realtà del Darwinismo e oscurare il Creazionismo, protestava contro il trattamento riservato al “pigmeo”, vi furono una serie di atti di violenza da parte di Ota Benga che portarono la direzione dello zoo a disfarsi di lui.
Affidato al reverendo Gordon fu “civilizzato suo malgrado”. Si trasferì nel seminario di Lynchburg, ricevette un’educazione religiosa, degli abiti occidentali, una protesi per i denti, e perfino un lavoro nella fabbrica di tabacco di Lynchburg, Virginia, in cui divenne popolare tra gli operai per la sua abilità di arrampicarsi sulle cime dei pali in cui veniva fatto essiccare il tabacco senza dover utilizzare una scala..
Ma tutto questo era solo una forzatura.

Benga, tuttavia, aveva iniziato a progettare il suo ritorno in Congo, ma l'arrivo della Prima Guerra Mondiale distrusse ogni speranza di tornare nella sua terra natale, e ingigantì il senso di solitudine e la depressione dell’uomo tormentato al punto tale da portarlo al suicidio.

Il 20 marzo del 1916, all'età di 32 anni, Benga si estrasse le capsule dai denti, accese un fuoco cerimoniale, si denudò e comincio a ballare come fosse tra la sua gente.  All'alba si sparò un colpo al cuore con una pistola rubata.

Finalmente era libero.

La vita di Ota Benga venne utilizzata per dimostrare la “supremazia bianca” sia dal punto di vista antropologico che culturale, ma la sua esperienza dovrebbe soltanto costringere chiunque a chiedersi chi sia il vero selvaggio in questa storia.