Peppino e la banca


Majengo, Malindi
Majengo, Malindi

 

MALINDI - PEPPINO E LA BANCA

Racconto semiserio e tragicomico

di Freddie del Curatolo

 

Peppino Onassis da una settimana vive nel popoloso quartiere di Majengo.

Gli è andata bene che il proprietario dell'Upeponi Café lo ha preso in simpatia e in cambio di tre camicie italiane e un paio di scarpe con la suola in cuoio, gli ha accordato un piatto di fagioli e un pugno di polenta per una decina di giorni. La sera, se ha ancora fame, riesce a scroccare qualche patata dalle mama accovacciate tra le baracche di lamiera delle viuzze fangose dello slum. In cima alla viuzza meno fangosa, davanti ad una casupola di cemento non ancora rifinita con un tetto pericolante di lamiera, c’è Dahabu, una paffuta e simpatica donna metà araba e metà chilosà.

Forse la donna ha iniziato a fargli credito fiutando l’affare, vendendogli le sue imbattibili samosa e le croccanti bajia al doppio del solito prezzo.

“Me le paghi quando ce li hai, Peppino. Tanto prima o poi ai mzungu i soldi piovono in tasca da qualche parte”

“Intanto ti regalo questo. E’ un quadro della Madonna con bambino”

“Ma io sono musulmana, Peppino”

“Però è bello! Guarda, se ti sposti cambia colore e il bambin Gesù alza la testolina e guarda la mamma”

“E’ vero! Troppo forte!”

In fondo non si può voler male a Peppino.

Con il suo inglese raffazzonato con cui stenta a farsi capire ma in compenso capisce ancora meno quando gli parlano, col sorriso giallo di sigarette sportsman e gli occhi vispi che si posano inevitabilmente su tutti i seni abbondanti che gli passano sotto il naso, è ben voluto da tutti, bambini compresi che improvvisano girotondi d’allegria al suo cospetto, quando lo vedono arrivare.

Questo italiano segaligno e un po’ gobbo, che quando arrivò a Malindi chiamavano Onassis perché era pieno di soldi da fare schifo e si era comperato una barca e diverse fidanzate, è rimasto senza uno scellino.

O meglio, sarebbe ancora abbastanza Onassis, ma tutto quel che ha è sigillato nelle casseforti di una banca chiusa a tempo indeterminato.

Ce n’era a sufficienza per vivere, ritirando un massimo di 2000 scellini al giorno.

E pensare che quando era sbarcato a Malindi, ne ritirava almeno dieci volte tanto.

Da quando la barca era affondata e una delle fidanzate se n’era scappata con il suo fuoristrada e un bel gruzzoletto, Peppino aveva deciso senza drammi di ridimensionarsi.

“Sono cose che capitano, mica è la morte di nessuno. Qui si vive talmente bene, che qualche rogna ti può pure accadere”

Aveva lasciato la villetta con piscina presa in affitto in zona Malindina e si era trasferito in un appartamento alle spalle di Lamu Road e non lontano da Majengo, con una fidanzata meno avvenente delle precedenti ma, a suo dire, più affidabile. Niente più puntate al Casinò, una pizza alla settimana al People e il resto in medicine per la pressione.

D’altronde, a sessantadue anni c’è solo da attenderne altri tre (o forse cinque?) per la pensione minima che gli farà fare il salto di qualità.

Non si è preoccupato più di tanto nemmeno quando la seconda fidanzata lo ha denunciato alla polizia per percosse inesistenti e per averle gridato “torna qui, puttana” quando l’aveva vista uscire con il televisore a tracolla.

Dopo aver pagato tremila euro, l’agente era anche diventato suo amico e gli aveva detto che in futuro non avrebbe più avuto problemi del genere, se si fosse rivolto a lui.

Alla fine, insomma, aveva imparato a muoversi in quel paradiso dove viveva la vita che aveva sempre sognato e dove dagli errori si poteva solo imparare.

Ma ora quella maledetta banca non ci voleva.

Quella storia del possibile fallimento gli sta rovinando la salute.

Da quando, martedì scorso, l’ha trovata chiusa, non ha fatto altro che girare in lungo e in largo per Malindi. Chiedere, informarsi, stringere i pugni e frignare, alterarsi e farsi offrire caffè.

Ogni mattina, alle nove, presentarsi invano davanti al cancello della banca.

“Ci vorranno due o tre mesi, prima di riavere i soldi. E chissà se li rivedremo tutti”, gli ha detto un connazionale dopo qualche giorno.

A Peppino è crollato il mondo addosso.

Lui che da quando la terza fidanzata aveva scoperto il nascondiglio degli euro cucito dentro il materasso, aveva messo tutto in una sola banca e si era fatto consegnare la carta di credito con cui dormiva e che, protetta da una busta di plastica, si portava anche in doccia, era improvvisamente povero.

Ma povero povero, come uno di loro, di quelli che tutti i giorni lo imploravano: “Peppì, Peppì dammi qualcosa pe’ mangiare”, e lui ricordando l’adolescenza e gli sforzi fatti da suo padre, operaio di catena al Nord, scuciva sempre almeno dieci scellini.

“Un giorno a te, domani a lui…di più non posso ragazzi”

Ieri uno di loro, Occhiostorto, gli ha chiesto se voleva dividere un sacchetto di biscotti che gli aveva appena regalato un tedesco.

“Ma non si può fare niente? Scriviamo all’Ambasciata, al Ministero, a Rai Italia!”

“Non si può fare niente, Peppino. Le banche falliscono in tutto il mondo”

“Ma qua non è tutto il mondo, altrimenti mica ci venivo!”

Nella giornata di venerdì, l’ex Onassis si è chiuso in casa a pensare.

Per prima cosa ha radunato gli oggetti di valore: la catenina d’oro col ciondolo della Madonna di Pompei regalata da nonna Nunzia, l’orologio d’argento Girard Perregaux con la meccanica perfetta, i due gemelli del primo matrimonio (la povera Donata, da quanto non la sento) e l’emissione speciale di un francobollo raffigurante lo sbarco di Armstrong sulla luna.

Nel vederlo radunare le sue cose, Confidence, la fidanzata bruttina, ha fatto la stessa cosa: un fagotto delle sue cose più care: smartphone android 5s, due chili di extension di capelli arabi veri, tre paia di perizoma intimissimi, due reggiseni grigioperla, un portafoto d’argento con l’immagine dei due figli che stanno a Machakos da sua madre e che improvvisamente ha deciso che deve andare a trovare.

Nell’uscire, già che c’era, ha preso anche l’impianto surround della televisione, l’ipad di Peppino e il microonde, anche se in valigia non ci entrava.

Peppino era troppo preso nell’altra stanza a segnare le altre cose e fare calcoli.

Quando ha sentito “ciao, amore” ha risposto con un suono gutturale e lo schiocco automatico di un bacio.

Dopo una buona mezzora è uscito anche lui, prima per andare a mangiare due samosa da Mama Dahabu, poi per recarsi da Alvaro il Cravattaro.

Anche Alvaro ha il conto in quella banca, ma ne ha altri sette in altrettante agenzie di Malindi.

E poi se gli andasse male, potrebbe sempre vendere una delle nove ville che ha, compresa quella dove stava lui prima, il Pajero, il Land Cruiser, la berlina, il Kawasaki, i due quad, i cinque tuk-tuk e la barca molto simile alla sua che era affondata e non è stata più ritrovata.

“Peppì, questa sarà pure roba di valore, ma non la vuole più nessuno. Che ci faccio con un orologio del milleottocento? Qui mo’ per guardare l’ora usano tutti l’i-phone”

“Te li do in pegno…poi me li vengo a riprendere”

“Proprio perché sei tu…ti do 5000 scellini, ma se non me li riporti tra tre mesi, mi tengo tutto”

“Grazie Alvà, sei un amico”

“Vuoi un caffè?”

“E’ compreso nel prezzo?”

“E vabbuò…per questa volta”

Per prima cosa, con tremila scellini è andato, a piedi per risparmiare i cinquanta del boda-boda, a saldare il mese d’affitto al proprietario di casa, Sheikh Abdulraman Bin Bayusuf.

“Almeno per due settimane sto tranquillo”

“Dal mese prossimo l’affitto aumenta di duemila scellini”, gli ha detto Ahmed Alì Mohamed bin Abdulraman il figlio di Sheikh Abdulraman.

“Ma l’avete già aumentato sei mesi fa! Abbiate pietà…”

“Tanta gente vuole quella casa”

Così Peppino ha deciso che si cercherà un altro appartamento meno caro.

Prima di sera torna da Mama Dahabu e si siede di fianco a lei.

Intorno il fumo delle padelle che friggono si confonde con la polvere che si solleva al cielo cercando gli ultimi raggi di sole. Gli alberi non si stancano di guardare le loro foglie danzare al vento ed emettere fruscii gentili.

I bambini hanno smesso le loro divise di scuola e giocano seminudi, armati di pezzi di latta e bottiglie di plastica.

Qualcuno ha costruito un camion con una scatola di cartone e Peppino ha portato da casa del filo di ferro e lo ha munito di ruote e parafanghi. I bambini ridono e chiamano quel camion “mzungu lorry

“L’ultima fidanzata si è portata via anche lo stereo e il computer, mama. Però oggi ho venduto il tavolo con quattro sedie. Ecco, questo è quello che ti dovevo, ora ripartiamo da zero”

“Sei troppo buono, Peppino. Ma adesso dove andrai a stare?”

“Non lo so, domani vendo il televisore e poi cerco una sistemazione”

“Ho una proposta da farti, mzungu”

“Anch’io ne ho una da fare a te, mama”

La mattina dopo Peppino si alza molto presto.

Per la prima volta non passa dalla banca alle nove, ma si reca subito dal noleggiatore di macchine Hamid, che è interessato al suo televisore.

“Ventimila”

“Ma l’ho pagato settanta, pochi mesi fa…”

“Ventidue mila, offerta massima”

“Ah, allora cambia tutto…”

“Devo andarmene?”

“Ok, accetto”

Per fortuna ci sono quei duemila scellini in più, pensa Peppino.

Mille e cinquecento vengono investiti nel noleggio di un pick-up con tre forzuti.

Ci caricano su il letto e il frigorifero, le uniche due cose rimaste in casa.

“E’ bellissimo, socio!”, urla Mama Dahabu vedendolo apparire nella viuzza fangosa.

“C’è anche il freezer, così faremo quel che ti ho detto”

“Dove portiamo il letto?”, chiede uno dei forzuti.

“In fondo al corridoio c’è una stanzetta con le tende arancioni”, spiega Dahabu.

E’ la nuova dimora di Peppino Onassis.

Due metri per tre di tranquillità, un bel ventilatore e un quadro della Madonna con bambino in una parete.

Nell’altra il Profeta Maometto.

Mama Dahabu vive nella stanza di fronte e gli ha affittato quella del figlio Sammy.

Peppino in due giorni ha imparato a fare le samosa.

Stende la pasta, prepara il ripieno di carne trita, carote, cipolle, curcuma e pili pili e poi le chiude in triangoli con una colla di acqua e farina.

“Come sono venute, mama?”

“Benissimo Peppino, sembri un cuoco di Lamu”

E si mettono a ridere.

Nel freezer di Peppino ce ne stanno duecento alla volta.

Così non ne mancano mai e con l’aiuto del mzungu, Mama Dahabu può dedicarsi a quelle di patate e alle bajia. Anche l’Upeponi Café ha iniziato a comperare le samosa di Dahabu e le smercia che è un piacere.

Quindici scellini l’una, e le rivende a 50.

“Se andiamo avanti così, Peppino, non mi dovrai nemmeno pagare l’affitto”

“Prima o poi la banca riaprirà, mama. Oppure liquiderà i risparmiatori e allora…”

“Allora?”, chiede la donna con una smorfia di serena rassegnazione.

“Allora potremo comprare un freezer più grande per la nostra attività!”

Mentre il sole colora la casupola di cemento e lamiera e ne disegna i contorni di una reggia, due figure si abbracciano nella penombra.

Una è grossa e tondeggiante, l’altra è minuta e stortignaccola.

“Che fai Peppino, tocchi?”

“Ehm…mama…l’abitudine…”

“Vabbè, almeno se ti porto via qualcosa, rimane in famiglia!”

L’ultima risata della giornata è accompagnata da un brindisi al succo di tamarindo.

“Alle banche di tutto il mondo, e a chi non sa che lì dentro non c’è nemmeno un briciolo di felicità”.