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Africa Ultime Notizie 2019



Africa Breaking News-Africa Ultime Notizie-Notizie dal continente dimenticato
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Africa Breaking News 2019

 

Africa Ultime Notizie 2019

 

Notizie dal continente dimenticato


Massacro a Mogadiscio, Somalia 28.12.2019
Massacro a Mogadiscio, Somalia 28.12.2019

28 dicembre 2019
SOMALIA. STRAGE A MOGADISCIO: OLTRE 70 MORTI PER L'ESPLOSIONE DI UNA AUTOBOMBA

 

Il bilancio non è definitivo, e potrebbe aggravarsi. Secondo il deputato Abdirizak Mohamed, ex ministro della Sicurezza Nazionale, le vittime potrebbero essere oltre 90. Tra queste "17 agenti di polizia, 73 civili e 4 stranieri".

Nuova strage in Somalia. Oltre 70 persone sono morte e molte altre sono rimaste ferite nell'esplosione di un'autobomba in un sobborgo molto trafficato di Mogadiscio, capitale della Somalia. Lo ha riferito la polizia, parlando di "un'esplosione devastante", il peggior attacco da anni.
Secondo una prima ricostruzione, l'attentatore suicida, al volante del mezzo, si è fatto saltare in aria in una zona affollata, a un checkpoint dal quale si transita per entrare e uscire dalla capitale somala, in direzione di Afgoi.
Secondo alcune fonti, l'auto sarebbe stata intercettata dalle forze di sicurezza e il kamikaze avrebbe quindi deciso di farsi esplodere sul posto.

Le ultime notizie confermate alla Dpa dal Capo dell'ospedale di Medina, Mohamed Yusuf parlano di 73/76 morti. Intanto i media ufficiali turchi confermano che ci sono due cittadini della Turchia tra le vittime dell'attentato. L'attacco non è stato sinora rivendicato, ma i sospetti ricadono sugli Al Shabaab, formazione jihadista legata ad Al Qaeda.
Il deputato Abdirizak Mohamed, ex ministro della Sicurezza Nazionale, su Twitter ha sostenuto di essere stato informato della morte di oltre 90 persone. Tra questi "17 agenti di polizia, 73 civili e 4 stranieri", secondo la stampa ingegneri turchi.


Missile cinese Long March 4B che ha messo in orbita il satellite etiopico ETRSS-1
Missile cinese Long March 4B che ha messo in orbita il satellite etiopico ETRSS-1

22 dicembre 2019
ETIOPIA. LANCIATO IL PRIMO SATELLITE PER MONITORARE IL CLIMA DEL CORNO D'AFRICA

 

“Siamo riusciti a lanciare in orbita un satellite ETRSS-1. Questo è il primo nella nostra storia e spero che non sarà l’ultimo”. Con queste parole il premier dell’Etiopia, e neo premio Nobel per la Pace 2019, Abiy Ahmed Ali, ha annunciato al mondo l’importante evento avvenuto venerdì 20 dicembre alle 3.21 (GMT).

ETRSS-1, acronimo di Ethiopian Remote Sensing Satellite è il primo satellite per telerilevamento dell’Etiopia. Costruito con tecnologia cinese, è partito trasportato dal vettore gigante asiatico “Lunga Marcia” 4B dalla base di lancio per satelliti di Taiyuan, in Cina.

Il satellite, del peso di 70 kg, è uno strumento di osservazione terrestre multi-spettrale che invierà i dati utili per monitoraggio ambientale. Le informazioni vengono inviate all'Osservatorio spaziale Entoto, vicino ad Addis Abeba, e servono a studiare i modelli meteorologici per la pianificazione agricola.
I dati sono utilizzati anche per tenere sotto controllo la siccità in modo da poter avere un allarme rapido della situazione. Il satellite terrà anche il monitoraggio delle attività minerarie e la gestione delle foreste del Paese del Corno d’Africa.

Secondo Space in Africa il progetto del satellite etiopico, sviluppato con la Cina, è costato 8 milioni di dollari USA. Il governo cinese ha finanziato per 6 milioni e ha formato gli scienziati africani mentre i restanti 2 milioni sono il finanziamento del governo di Addis Abeba.

Fino ad oggi l’Africa ha lanciato nello spazio 41 satelliti e l’Etiopia è l’undicesimo Paese africano ad aver posizionato un satellite nello spazio. In Africa orientale sono tre negli ultimi due anni: oltre all’ ETRSS-1, nel 2018 il satellite 1KUNS-PF (Kenya) e nel settembre scorso il RwaSat-1 (Ruanda).
Il vettore cinese “Lunga Marcia” 4B (CZ-4B), tre stadi e 44 metri di altezza, fa parte della famiglia di razzi Long March. Il 24 aprile 1970, il Long March 1 ha portato in orbita Dong Fang Hong I, il primo satellite cinese.
By Africa Express

L’osservatorio spaziale Entoto, dove vengono monitorati i dati del satellite etiopico
L’osservatorio spaziale Entoto, dove vengono monitorati i dati del satellite etiopico

Franco CFA
Franco CFA

21 dicembre 2019
IL FRANCO CFA SCOMPARIRÀ IL PROSSIMO LUGLIO 2020

 

La moneta simbolo del vecchio potere in Africa lascerà il posto alla nuova moneta unica ECO. Lo ha annunciato Alassane Quattara, presidente della Costa d'Avorio, in una conferenza congiunta ad Abidjan al fianco di Emanuel Macron, dopo la visita del presidente francese. La nuova moneta sarà ancorato all'euro secondo una parità fissa garantita dalla Francia.

All'origine, nel 1945, si chiamava Franco delle Colonie Francesi d’Africa, abbreviato FCFA, e successivamente è diventato CFA, acronimo di Comunità Finanziaria Africana – valuta comune a diversi Paesi africani.

Gli 8 Paesi dell’Africa occidentale (Benin, Senegal, Togo, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Mali e Niger) che costituiscono l’Unione Economica e Monetaria ovest-africana (UEMOA) che utilizzano il CFA, appunto, taglieranno i legami tecnici con il Tesoro francese e la Banca di Francia. Per il momento l’Africa centrale è stata tagliata fuori.
Non cambia nulla, almeno per ora, per Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo, che fanno parte della Comunità economica e monetaria dell'Africa centrale (CEMAC).

Secondo gli accordi monetari in vigore fino a oggi, gli Stai dell’UEMOA hanno l’obbligo di depositare almeno il 50 per cento delle riserve di cambio presso il Tesoro francese per poter godere della garanzia della convertibilità in euro. Nonostante la sparizione programmata del CFA, alcuni principi nell'immediato non svaniranno completamente poiché i tassi fissi con l’euro e la garanzia di convertibilità saranno assicurati dalla Banca di Francia.
Il presidente ciadiano Idriss Déby e il suo omologo del Benin, Paul Tallon, avrebbero preferito un cambiamento più radicale, mentre Ouattara è sempre stato riservato circa una riforma globale, in quanto il CFA, ancorato all'euro, rappresentava pur sempre una garanzia per controllare l’inflazione.


Marry Mubaiwa, moglie del vicepresidente dello Zimbabwe, Constantino Chiwenga
Marry Mubaiwa, moglie del vicepresidente dello Zimbabwe, Constantino Chiwenga

18 dicembre 2019
ZIMBABWE. LA MOGLIE DEL VICEPRESIDENTE TENTA DI ASSASSINARE IL MARITO

 

Marry Mubaiwa, moglie del vicepresidente dello Zimbawe Constantino Chiwenga, è stata accusata di tentato omicidio nei confronti del marito nonché di riciclaggio di un milione di dollari e frode.
Mubaiwa, descritta dal quotidiano statale Herald come “la moglie separata” di Chiwenga, è stata arrestata ed è comparsa nel tribunale della capitale, Harare. Rimarrà in custodia fino alla prossima udienza prevista per il 30 dicembre.
È accusata di aver tentato di uccidere il marito in Sudafrica nel luglio scorso. Quando Chiwenga è stato trasportato a Pretoria, Sudafrica, per cure mediche urgenti, avrebbe insistito affinché rimanesse in hotel e non ricoverato in ospedale, fatto avvenuto successivamente, in seguito all'intervento degli agenti di sicurezza.
Secondo l’atto d’accusa, Marry Mubaiwa, ex modella, è accusata di aver rimosso una flebo dal braccio del generale mentre era ricoverato in ospedale. L’8 luglio, la donna avrebbe chiesto alla sicurezza di lasciare la stanza e “mentre era sola” con Chiwenga, “ha rimosso illegalmente la flebo e un catetere”, facendolo sanguinare copiosamente.
Avrebbe inoltre costretto il marito a scendere dal letto d’ospedale e cercato di condurlo fuori dal reparto prima di essere intercettata dalla sicurezza, ma riuscendo a scappare dall'ospedale e a dileguarsi. Chiwenga è stato trasferito in una clinica in Cina per sottoporsi alle cure necessarie. Il vicepresidente è tornato a Harare solamente lo scorso novembre.

Avida come Grace Mugabe, vedova dell’ex presidente, tra il 2018 e 2019 Marry, accusata di riciclaggio, avrebbe trasferito un milione di dollari dai suoi conti in Zimbabwe su una banca sudafricana, omettendo e/o falsificando la destinazione d’uso, in violazione della normativa che disciplina il controllo sui cambi di denaro. Grazie all'aiuto di complici, con tali somme la ex indossatrice avrebbe acquistato una proprietà a Pretoria e due vetture fuoristrada di lusso.
Mubaiwa ora vive separata dal marito.

Il presidente Emmerson Mnangagwa ha definito la lotta alla corruzione come una priorità assoluta, ma i critici e l’opposizione sostengono che la Commissione anti-corruzione dello Zimbabwe punta l’attenzione principalmente a chi è considerato un dissidente.


Attacco jihadista in Niger
Attacco jihadista in Niger

12 dicembre 2019
NIGER. MASSACRATI OLTRE 70 MILITARI

 

Settantuno militari uccisi, 12 feriti, diversi loro compagni scomparsi, decine di aggressori ammazzati durante una battaglia campale scoppiata martedì scorso in Niger subito dopo l’assalto dei terroristi islamici a un campo militare. La notizia è stata diffusa dal ministero della difesa di Niamey con un comunicato alla televisione di Stato. Il gruppo di terroristi era composto da alcune centinaia di uomini. Il combattimento è stato molto violento.
Il campo dell’esercito nigerino di Inates, nell'ovest del Paese, si trova non lontano dal confine con il Mali e dista 250 chilometri dalla capitale Niamey. L’aggressione era stata rivendicata dai miliziani di Abou Walid al-Sahraoui, leader di “Etat Islamique dans le Grand Sahara”, attivo nell'area delle “tre frontiere” ai confini del Mali, Burkina Faso e Niger.

Martedì, un bilancio iniziale aveva parlato di 61 militari morti. Si tratta del più grave attentato terroristico con il maggior numero di vittime che ha subito l’esercito nigerino dal 2015, cioè dall'inizio degli attacchi jihadisti nel Paese.
Secondo quanto riferisce una fonte della sicurezza, i terroristi avrebbero attaccato la base con granate e mortai e le esplosioni di munizioni e carburante sarebbero all'origine di tanti morti.
Il presidente e capo delle Forze armate, Mahamadou Issoufou, ha interrotto il suo soggiorno a Assuan (Egitto), dove stava partecipando alla Conferenza sulla pace durevole, sicurezza e sviluppo in Africa, ed è ritornato immediatamente a Niamey. Martedì il Consiglio dei ministri ha prorogato per altri tre mesi lo stato d’emergenza che vige già in diverse regioni dal 2017. Tale misura permette alle forze di sicurezza maggiori poteri d’intervento, come perquisizioni nelle abitazioni sia di giorno che di notte e quant'altro.

Finora l’attentato non è ancora stato rivendicato da nessun gruppo, ma visto i mezzi e gli uomini messi in campo si punta il dito su una coalizione composta da diversi gruppi jihadisti. La base nigerina sarebbe stata attaccata da centinaia di miliziani in sella alle loro moto.
La stessa guarnigione aveva già subito un altro attacco nel luglio scorso. Allora sono stati ammazzati 18 soldati della ex colonia francese.
Il nord della regione di Tahoua e anche tutto il Tillabéri sono frequentemente teatro di attacchi jihadisti con base nel vicino Mali e dallo scorso ottobre le organizzazioni umanitarie non possono più portare aiuti in queste zone senza scorta militare. Inoltre, secondo quanto riportato dal ministero della Difesa nigerino, lunedì scorso sono morti altri tre soldati e 14 terroristi durante un attacco alla postazione militare di Agando, nella regione di Tahoua.

Malgrado le forze messe in campo dagli Stati del Sahel e i loro partner, l’insicurezza si inasprisce di giorno in giorno in tutta la regione e rischia di espandersi verso altri Paesi del golfo di Guinea.

Quest’ultima carneficina è stata messa in atto solo pochi giorni dopo l’invito di Emmanule Macron ai presidenti dei Paesi G5 Sahel (Burkina Faso, Mauritania, Ciad, Mali e Niger). L’incontro era stato fissato per il 16 dicembre a Pau (Francia) ed è volto a chiarire la presenza della missione francese Barkhane, con sede permanente a N'Djamena , la capitale del Ciad, forte di 4.500 uomini in tutto il Sahel, con il compito di contrastare il terrorismo nella regione. Ma vista l’attuale situazione, Macron, saggiamente ha rinviato il vertice con i suoi omonimi del Sahel. Probabilmente si svolgerà a gennaio, la data non è ancora stata fissata.

Nella stessa area sono stati rapiti anche due italiani. Dal dicembre 2018 non si hanno più notizie di Luca Tacchetto, giovane architetto originario di Vigonza, in provincia di Padova, e della sua compagna canadese Edith Blais. I due si stavano recando da Bobo-Dioulasso, città nella parte sudoccidentale del Burkina Faso, verso la capitale Ouagadougou. Del sacerdote italiano, Pierluigi Maccalli rapito nel settembre 2018 in Niger, a pochi chilometri dal confine con il Bukina Faso, non si hanno notizie.
By Africa Express


Nella mappa i luoghi degli attentati jihadisti del 1° dicembre a minoranze cristiane  e nella notte tra il 2 e 3 dicembre 2019 a distretti militari
Nella mappa i luoghi degli attentati jihadisti del 1° dicembre a minoranze cristiane e nella notte tra il 2 e 3 dicembre 2019 a distretti militari

5 dicembre 2019
BURKINA FASO. UCCISI 20 JIADISTI

Lo jihadismo continua a colpire in Burkina Faso. Dopo due attacchi contro i militari burkinabé hanno la peggio: morti venti jihadisti e tre soldati.

Dopo la strage di domenica scorsa contro un chiesa protestante che ha causato 14 morti, gli jihadisti continuano ad attaccare in Burkina Faso.

Due assalti sono stati registrati nella notte tra lunedì 2 e martedì 3 dicembre. Nel distretto militare di Bahn, nella provincia di Loroum, a Nord, sono stati uccisi tre soldati. Tra gli jihadisti si contano 20 morti. Fonti dell’Agenzia France Press (AFP) riferiscono di un assalto nel distretto di Toeni, provincia di Sourou, a nord-ovest, con quattro feriti.

Una Crisi Umanitaria.
Con i gruppi jihadisti che si finanziano con traffici di droga, contrabbando di sigarette e petrolio la situazione del Paese sembra fuori controllo. Secondo l’UNHCR è in corso una crisi umanitaria che colpirebbe 1,5 milioni di abitanti.
Per il momento nemmeno 200 uomini delle Forze speciali francesi presenti a Kamboinsini, alla periferia di Ouagadougou, riescono a fermare il terrorismo jihadista. Nonostante il supporto di 4.500 militari francesi della missione Barkhane, operativa in tutto il Sahel.

Luca Ed Edith.
Fino ad oggi, in una situazione complessa come quella del Burkina Faso, purtroppo ancora non si sa nulla sulla sorte di Luca Tacchetto e la sua amica canadese Edith Blais.
Luca, architetto, era partito da Vigonza, in Veneto con l’auto, per recarsi in Togo. Era andato per aiutare nella costruzione di un villaggio per la popolazione locale. Le loro tracce si sono perse il 15 dicembre 2018, a Bobo-Dioulasso, in Burkina Faso (vedi articolo del 6 gennaio 2019).
By Africa Express


Daniel Foote, ambasciatore USA in Zambia
Daniel Foote, ambasciatore USA in Zambia

1 dicembre 2019
ZAMBIA. L'AMORE COSTA 15 ANNI DI GALERA A DUE GAY

 

Lo Zambia ha condannato due omosessuali a 15 anni di galera. Il Paese applica una legislazione ultra-conservativa e repressiva nei confronti di gay e lesbiche come succede in molti altri Stati del continente africano ex colonia britanniche ancora legate alle leggi bacchettone care alla regina Vittoria.

Un anno fa, Steven Samba et Japhet Chataba sono stati ritenuti colpevoli di aver commesso “atti contro natura”, grazie alla testimonianza di un impiegato di un albergo di Kapiri Mposhi, una cittadina al centro del Paese. Il dipendente del piccolo hotel ha affermato di averli visti da una finestra mentre consumavano un atto sessuale.
Samba e Chataba hanno fatto ricorso alla sentenza del Tribunale di Kbawe (città nella Provincia centrale); giovedì scorso però la dura condanna è stata riconfermata.
Brebner Changala, attivista zambiano per i diritti umani, ha protestato contro tale sentenza: “E’ un atto barbarico rinchiudere due persone solo perché non hanno rispettato una norma sociale, mentre altri, che chiamiamo politici, commettono crimini distruggendo il Paese, circolano liberamente”.

Daniel Foote, ambasciatore statunitense in Zambia, ha criticato duramente le autorità, e senza mezzi termini ha detto che nel Paese si applicano due pesi e due misure per giudicare i crimini. Nel suo comunicato ha aggiunto: “Personalmente sono inorridito. Non c’è stata alcuna violenza, i due uomini hanno avuto un rapporto consensuale. Ai funzionari governativi è concesso di rubare milioni di dollari di fondi pubblici senza essere mai processati, quando i politici picchiano i cittadini perché osano esprimere solamente la propria opinione, nessuno dice nulla”.
Il diplomatico di Washington non è davvero andato per il sottile. Ha accusato il governo di non proteggere le minoranze, le persone affette da albinismo, i disabili, gay, lesbiche, transgender, transessuali, persone di altre etnie o oppositori politici. E ritiene che con questa sentenza lo Zambia ha dimostrato di non garantire i diritti umani e ciò potrebbe comportare severe conseguenze a livello internazionale.
By Africa Express


Africa bollente aggiornata al 16 novembre 2019
Africa bollente aggiornata al 16 novembre 2019

18 novembre 2019
SICCITÀ IN AFRICA AUSTRALE. MORTI 300 ELEFANTI, 600 SARANNO TRASFERITI

L’ondata di caldo, causata dai cambiamenti climatici che ha portato la siccità nel continente africano, mette a dura prova la fauna selvatica. In due mesi, in Botswana e Zimbabwe, sono morti di fame e sete 300 elefanti. In Zimbabwe 600 pachidermi saranno ricollocati in altri parchi nazionali.

La siccità in Africa Australe è ormai emergenza con temperature che hanno raggiunto 51°C. Nello Zimbabwe sono morti di fame e sete 200 elefanti tra settembre e ottobre. Le carcasse di alcuni di questi giganti sono state trovate a 50 metri dalla pozza d’acqua che non sono riusciti a raggiungere.
Sono gli effetti evidenti del cambiamento climatico che ha colpito anche il continente africano. Agli elefanti morti dello Zimbabwe si aggiungono quelli del Chobe National Park, in Botswana. Sono più di cento, negli ultimi due mesi, uccisi da un’epidemia di antrace che rischia di espandersi.
Una grave siccità che, oltre a minacciare emergenza alimentare a 52 milioni di persone, sta decimando la fauna selvatica africana. Lo Zimbabwe, colpito dalla peggiore siccità e carestia dal 1981, sta lottando per salvare il suo tesoro naturale: ambiente e fauna selvatica. Un forziere che porta valuta pregiata grazie al turismo nel parchi nazionali e alle cascate Vittoria, ora in grave secca.

Oltre alla pesante siccità, esiste il problema della sovrappopolazione degli elefanti o dei selvaggi proto-umani.
Il Hwange National Park nello Zimbabwe ospita 53 mila elefanti ma ha spazio per 15 mila. Una sovrappopolazione che ha creato gravi danni alla vegetazione del parco. Ogni elefante ha bisogno, quotidianamente, di 600/650 litri di acqua e di circa 400 kg di cibo. Non c’è più cibo per loro nel parco e l’acqua ormai è scarsa per tutti gli animali.
Una situazione, questa, che intensifica il conflitto uomo-fauna selvatica mentre i pachidermi cercano cibo e acqua all'esterno dei parchi, dove i proto-umani li hanno richiusi, e distruggono le coltivazioni dei villaggi. Da gennaio di quest’anno sono morte 22 persone a causa del conflitto tra elefanti ed esseri umani.
ZimParks, sempre nello Zimbabwe, ha programmato di trasferire 600 pachidermi del Savé Valley Conservancy, parco privato di 300 mila ettari, nei parchi nazionali del sudest del Paese. In quella vasta area si trovano il Northern e il Southern Gonarezhou National Park, che occupano oltre 500 mila ettari. L’operazione, durante la stagione delle piogge, prevede il ricollocamento di due famiglie di leoni, 50 bufali, 40 giraffe, 2.000 impala e licaoni.

Le più numerose popolazioni di elefanti sono in Botswana (130 mila) e in Zimbabwe (85 mila). Insieme hanno un terzo della popolazione africana del maggior mammifero terrestre. Il Botswana afferma di avere un eccessivo numero di elefanti in proporzione alle risorse del Paese ed ha pensato di riaprirne la caccia per diminuirne il numero, tra lo sdegno degli ambientalisti e la gioia dei cacciatori.
Il governo dello Zimbabwe sta cercando di mantenere la sua popolazione di pachidermi "riaprendo" la caccia ai trofei, che in verità non ha mai chiuso, e vendendo le scorte di avorio. Per raccogliere fondi, tra le polemiche a livello internazionale, sta esportando elefanti vivi che in due anni gli hanno fruttato 2,7 milioni di dollari. Fondi che non servono certo per la conservazione e per alleviare la congestione nei parchi che li ospitano, a cui erano destinati.

Osservazioni:
I nativi africani erano piccole mandrie di animali erranti marginali. Con una fame che li avrebbe inesorabilmente portati a poca distanza dall'estinzione hanno iniziato a combattersi selvaggiamente l’un l’altro e a cibarsi dello loro stesse carni, passando poi anche agli animali quali esseri più deboli e vulnerabili. Sono arrivati ai giorni nostri sottraendo le terre non solo agli animali, ma anche alle foreste, causando l’estinzione di centinaia di specie e col disboscamento la conseguente desertificazione.

Ora, che non rimane quasi più nulla, si sentono a disagio, ma non riescono a cooperare in altro modo se non quello di battersi crudelmente tra loro per accaparrarsi pezzi di territorio e guadagnarsi pure i primi posti nel mondo per corruzione e comportamento violento omicida, oltremodo capeggiati da individui accusati di crimini conto l’umanità in conseguenza di gravi violenze sulle masse per interessi personali.
Ma queste “persone”, ovvero, “orde di incivili, selvaggi proto-umani, masse tribali con una ferocia innata”, definiti semplicemente "ciarpame" dai popoli civili, per alcuni “barbari occidentali” non devono divenire reliquie perdute che la Bibbia chiama "bestie del campo con le mani che possono parlare".
Conseguenze: ogni volta che i neri raggiungono numericamente una certa massa critica in una preesistente società non nera, cominciano ad esporre il loro comportamento selvaggio naturale ed a trasformare l’ambiente in cui vivono di nuovo in un habitat riconoscibilmente africano.
Qualsiasi persona sana di mente non potrà mai giustificare questa cultura degenerata!


Silvia Romano con il padre Enzo Romano
Silvia Romano con il padre Enzo Romano

14 novembre 2019
KENYA. RAPIMENTO SILVIA ROMANO. GLI SVILUPPI DEL PROCESSO

 

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Uno dei villaggi distrutti da jihadisti, a Cabo Delgado
Uno dei villaggi distrutti da jihadisti, a Cabo Delgado

3 novembre 2019
MOZAMBICO. DECAPITATI 20 MILITARI MOZAMBICANI E 7 MERCENARI RUSSI

Gli accordi tra Nyusi e Putin non sono sufficienti a fermare la violenza jihadista a Cabo Delgado. Anche sette mercenari russi tra i militari mozambicani uccisi.

Continua l’azione terroristica jihadista a Cabo Delgado, estremo nord del Mozambico. L’ultima, pesantissima, del 27 ottobre scorso è stata un’imboscata nella provincia di Muidumbe, 170 a sud-ovest di Palma, dove operano ENI e ExxonMobil. Il bilancio è stato di venti morti tra le Forze di Sicurezza mozambicane e cinque militari russi.
Al giornale online Carta de Moçambique una fonte ha detto che i jihadisti hanno atteso un convoglio militare mettendo un blocco sulla strada. All'arrivo del mezzo hanno cominciato a sparare lasciando sull'asfalto 25 morti. Il massacro lo hanno “firmato” decapitando i cadaveri.
Una vera e propria azione militare che indica l’aumento del livello di pianificazione mai avuto fino a questo momento. Secondo il giornale mozambicano i cinque russi sono mercenari del Gruppo Wagner che appoggia il governo del Paese lusofono nella guerra contro i jihadisti.
I dati di Zitamar News, dal 5 ottobre 2017 – data di inizio del jihadismo in Mozambico – al 23 settembre 2019, mostrano 170 attacchi. Le vittime, tra militari e soprattutto civili – molti dei quali decapitati – sono state 436. A queste si aggiungono i 25 dell’ultima imboscata.
Il periodo di maggiore violenza jihadista di Al Sunna wa-Jama’s, chiamati dalla popolazione al Shebab, si è avuto negli ultimi undici mesi. Secondo Zitamar News ci sono stati 116 assalti armati che hanno causato 310 morti. La maggior parte a poca distanza da Palma, dove, off-shore, opera ENI per lo sfruttamento degli immensi giacimenti di gas naturale (LNG).
Lo scorso 22 agosto, a Mosca, il presidente mozambicano Filipe Nyusi ha firmato un accordo con Vladimir Putin per aiuti militari contro il jihadismo. Nella seconda metà di settembre sono arrivati in Mozambico tra 160 e 200 mercenari. E il quotidiano russo indipendente The Moscow Times rivela che, lo scorso 10 ottobre, altri due mercenari russi sono morti durante un altro attacco jihadista. È la prima volta che si sente parlare di morti russi. E probabilmente non sarà l’ultima.
By Africa Express


Da sinistra Abdessamad Ejjoud, Rachid Afatti e Younes Ouaziyad condannati alla pena capitale in Marocco
Da sinistra Abdessamad Ejjoud, Rachid Afatti e Younes Ouaziyad condannati alla pena capitale in Marocco

2 novembre 2019
MAROCCO. CONDANNATI A MORTE I TRE ASSASSINI DELLE DUE RAGAZZE SCANDINAVE

 

Un tribunale antiterrorista del Marocco ha confermato in appello la pena di morte ai tre autori materiali dell’assassinio di due ragazza scandinave.
L’efferato delitto si è consumato lo scorso dicembre in una regione montagnosa non sorvegliata in provincia di El Haouz, Marocco ad una decina di chilometri da Imlil, ai piedi del monte Toubkal, la più alta vetta del nord Africa. Luoisa Vesterager Jespersen e Maren Ueland, danese di ventiquattro anni la prima, norvegese di ventotto la seconda, sono state uccise in nome di Al Qaeda nel Maghreb Islamico.
Mercoledì scorso sono state emesse le sentenze per i 24 uomini implicati nel delitto o perché appartenenti a una cellula terrorista jihadista. Per tre di loro è stata emessa la condanna a morte: Abdessamad Ejjoud, 25 anni, ambulante, reo confesso di aver organizzato la spedizione insieme a due compagni, Younes Ouaziyad, un falegname di 27 anni e il trentatreenne Rachid Afatti, che aveva filmato la scena. La diffusione del video sui social network aveva suscitato orrore nel mondo intero.
A Abderrahim Khayali è stata risparmiata la pena capitale, perché, pur avendo partecipato alla spedizione, ha lasciato l’area prima che si consumasse la tragedia. Khayali è stato condannato all'ergastolo.
Il tribunale anti terrorista di Salé, città vicino alla capitale Rabat, ha confermato le condanne per 19 co-imputati con pene da 5 a 30 anni di carcere, mentre solo uno si è visto infliggere 20 anni di galera invece dei 15 previsti dalla sentenza di primo grado. Sono stati giudicati in quanto accusati di “formazione di banda armata con volontà di commettere atti terroristi”. Tutti quanti hanno implorato la clemenza della Corte mercoledì scorso, dichiarandosi innocenti; alcuni hanno persino presentato le condoglianze ai familiari. Tra i condannati c’è anche uno straniero: lo svizzero-spagnolo Kevin Zoller Guervos, convertito all'islam. Dovrà passare i prossimi 20 anni in un carcere marocchino.
Il tribunale ha anche confermato l’indennizzo di 190.000 euro richiesto dai genitori di Maren Ueland ai 4 principali indiziati, mentre ha respinto la richiesta dei familiari di Louisa Vesterager Jespersen che avevano chiesto un risarcimento di 930.000 euro a Rabat perché ritengono che lo Stato marocchino sia moralmente responsabile dell’uccisione della loro ragazza. L’avvocato ha fatto sapere che si rivolgerà al Tribunale amministrativo per risolvere la questione.
Hafida Mekessaoui, difensore d’ufficio dei tre condannati alla pena capitale, dopo aver chiesto nuovamente che i suoi clienti venissero sottoposti a perizia psichiatrica, ha annunciato che per tale diniego ricorrerà alla Corte di cassazione.
Benché in Marocco vengano ancora emesse sentenze capitali, de facto viene applicata una moratoria sulle esecuzioni del 1993. Da tempo si discute sull'abolizione di tale pena, ma in appello la procura aveva chiesto l’esecuzione effettiva delle sentenze.
Pochi istanti prima che la Corte emettesse la sentenza per i principali indiziati, il capo della presunta cellula jihadista, Abdessamad Ejjoud, ha voluto sfidare i giudici: “Se ci condannate, se sarà eseguita la condanna a morte, io vi scomunico, non credo né nelle vostre leggi, né nei diritti umani”.
Anche Younes Ouaziyad e Rachid Afatti hanno voluto sfidare i giudici, citando alcuni versetti bellicosi del Corano, suscitando così attimi di paura nell'aula; mentre Abderrahim Khayali ha solamente confermato di non aver partecipato all'uccisione delle ragazze.
Il doppio omicidio delle giovani scandinave ha fortemente scosso il Marocco che, dopo l’attentato del 2011, quando furono ammazzate sedici persone a Marrakech, tra loro 11 turisti stranieri, era stato risparmiato da altri attacchi terroristi.
By Africa Express


26 dicembre 2018 - Marocco. Rivendicano in un video l’assassinio di due turiste scandinave

La corte anti terrorista. Salé, Marocco
La corte anti terrorista. Salé, Marocco

Lets Walk Uganda
Lets Walk Uganda

26 ottobre 2019
UGANDA. PRONTO L'ERGASTOLO PER GLI OMOSESSUALI

 

Sedici militanti LBGT (termine collettivo per riferirsi a persone Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) sono stati arrestati dalla polizia ugandese e costretti a sottoporsi al controllo anale.

Sui giovani, tutti tra 22 e 35 anni, pende ora l’accusa di gay sex e rischiano una condanna all'ergastolo. Tutti 16 sono stati prelevati lunedì dall'ufficio di “Let’s Walk Uganda” (un’organizzazione per la salute sessuale), dove lavorano e vivono.
Gli agenti sono intervenuti perché chiamati dai vicini, che lamentavano comportamenti sospetti delle persone all'interno della casa dell’organizzazione. I 16 uomini sono stati arrestati e all'esterno dell’ufficio un folto gruppo aveva circondato l’edificio, urlando slogan omofobi contro i giovani.
La polizia ha raccontato di aver trovato lubrificanti, preservativi e farmaci antiretrovirali negli uffici dell’associazione. Gli accusati sono stati rilasciati con l’obbligo di firma a giorni prestabiliti presso la stazione di polizia giudiziaria.

L’Uganda, come molti Paesi africani, ha ereditato dalla potenza coloniale che la governava, il Regno Unito, parecchie norme tra cui quella che punisce l’omosessualità, anche tra persone adulte e consenzienti, come un qualunque reato.
Recentemente il ministro per l’Etica e l’Integrità, Simon Lokodo, aveva proposto di ripresentare in Parlamento la legge che prevede la pena di morte per i gay, ma il presidente Yoweri Museveni ha subito bloccato tale iniziativa e ha precisato: “L’ergastolo è più che sufficiente”.
Proposte del genere erano già state avanzate anche in passato, ma la comunità internazionale aveva minacciato che avrebbe sospeso finanziamenti e programmi di sviluppo se la legge fosse entrata in vigore.

La comunità LBGT è soggetta a discriminazioni e violenze nel Paese. Frank Mugisha, direttore esecutivo per le Minorità Sessuali in Uganda (SMUG) ha espresso preoccupazione per l’escalation degli attacchi omofobi.
Due settimane fa due donne transgender sono state aggredite e picchiate all'uscita di un night club e qualche giorno prima un giovane gay ruandese è stato malmenato davanti al suo ufficio a Kampala. Gli attivisti lamentano un forte aumento degli attacchi: solo quest’anno 4 persone sarebbero stata uccise. L’ultimo assassinio risale al 4 ottobre, quando un militante per i diritti dei gay è stato picchiato a morte.

La legge omofoba ugandese è stata pesantemente criticata anche dall'arcivescovo anglicano del Sud Africa e premio Nobel Desmond Tutu che l’ha paragonata alle leggi razziali varate in Germania durante il nazismo e all’apartheid nel suo Paese.

Sui temi della sessualità l’Uganda è assai conservatrice. Anni fa, nella battaglia contro l’AIDS il governo aveva lanciato una pesante e convincente campagna per l’uso del preservativo per contenere la malattia. I risultati erano stati ottimi. Poi c’erano state le proteste di gruppi cristiani integralisti (finanziati dall'amministrazione di George W. Bush) che predicavano la fedeltà, la campagna era stata sospesa e i progressi contro il male erano stati vanificati. Forse è stata salvata l’anima, ma il corpo è stato devastato.
By Africa Express


Nuove banconote introdotte a febbraio 2019 dallo Zimbabwe
Nuove banconote introdotte a febbraio 2019 dallo Zimbabwe

2 ottobre 2019
ZIMBABWE. INFLAZIONE AL 300 PER CENTO, METÀ DELLA POPOLAZIONE ALLA FAME

 

Lo Zimbabwe con inflazione al 300 per cento rischia di tornare all’era Mugabe quando l’iperinflazione aveva portato l’ex colonia britannica al collasso.

In Zimbabwe l’iperinflazione dell’era Mugabe è dietro l’angolo. Lo dice il Fondo Monetario Internazionale dove l’’aumento generalizzato e prolungato dei prezzi su base annua, ad agosto, ha raggiunto il 300 per cento. L’ultimo bollettino FMI ha rilevato un pesante deprezzamento del dollaro zimbabwiano (RTGS - Real time gross transfer dollars): al cambio ne occorrono 16,5 per un dollaro USA.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’economia dell’ex colonia britannica è stata causata dal ciclone Idai nel marzo scorso. I danni dell’area che confina con il Mozambico hanno impoverito maggiormente la popolazione distruggendo interi villaggi e i raccolti che ne permettevano la sopravvivenza. Il ciclone, dopo aver devastato il Mozambico, in Zimbabwe ha lasciato 300 morti.
Secondo il Fondo monetario, “8,5 milioni di persone, la metà della popolazione, hanno condizioni sociali che si sono deteriorate rapidamente e soffrono di insicurezza alimentare”. Oltre all'estrema povertà della popolazione che ha urgente bisogno di aiuti alimentari, c’è carenza di carburante e l’elettricità viene erogata poche ore al giorno.
Una situazione che mette in difficoltà anche la capitale, Harare: potrebbe rimanere senza acqua potabile per le difficoltà finanziarie dell’unico impianto di depurazione. Lo stato attuale dell’economia ha incrementato il mercato nero della valuta e il governo, a giugno, per evitare l’ iperinflazione, ha vietato transazioni in valuta estera.

Dieci anni dopo averla abbandonata per il dollaro americano e altre valute straniere, lo Zimbabwe ha reintrodotto a febbraio la moneta nazionale. Un metodo che il presidente Emmerson Mnangagwa ha tentato per rassicurare la nazione ma che si è dimostrato fallimentare.

Mnangagwa, per rianimare l’agricoltura e l’economia aveva perfino proposto di restituire le terre ai bianchi per 99 anni. Un progetto fallito perché, non essendo più proprietari delle terre, gli agricoltori di origine europea non potevano accedere ai prestiti bancari. Sono passati due anni e la politica del presidente oggi appare un fallimento. Ora che la situazione sta peggiorando e lo Zimbabwe, una volta considerato il granaio dell’Africa, rischia il collasso.

Il golpe soft senza spargimento di sangue del novembre 2017, che aveva deposto il dittatore-presidente, Robert Mugabe, sembrava l’unica soluzione per voltare pagina. Mnangagwa, come nuovo presidente, aveva promesso un nuovo corso e la rinascita dell’economia.
Compito non facile dopo il disastro dell’era Mugabe che, da padre della patria, ne era diventato il padre-padrone governando con il pugno di ferro. La seconda moglie, la spendacciona chiamata “Gucci Grace”, aveva contribuito a dilapidare le ricchezze dello Zimbabwe che considerava come una sua proprietà. Il vecchio eroe, diventato dittatore, aveva governato il Paese ininterrottamente per 37 anni. Mugabe lo scorso 6 settembre è morto di cancro, a 95 anni, solo, in un ospedale di Singapore.
L’altro ieri il presidente ha detto al suo popolo: “Vi chiedo tempo e pazienza”. Difficile averne con la pancia vuota (sic!).
By Africa Express

Banconote emesse dalla Banca dello Zimbabwe durante l’iperinflazione
Banconote emesse dalla Banca dello Zimbabwe durante l’iperinflazione
One Hundred Trillion Dollars. Banconota emessa dallo Zimbabwe nel 2008
One Hundred Trillion Dollars. Banconota emessa dallo Zimbabwe nel 2008


Non si arresta la febbre di xenofobia in Sudafrica
Non si arresta la febbre di xenofobia in Sudafrica

10 settembre 2019
SUDAFRICA. CONTINUA L'ONDATA XENOFOBA

 

Non cessa l’ondata xenofoba in Sudafrica. Le autorità di Abuja hanno annunciato il rimpatrio di almeno 600 nigeriani a partire dal 11 settembre.

Durante l’ultimo fine settimana sono morte altre due persone mentre Allen Onyema, direttore generale di Air Peace, si è offerto di riportare a casa gratuitamente tutti i nigeriani che ne faranno richiesta. Finora solamente 600 dei 100.000 presenti sul suolo sudafricano, hanno aderito all'iniziativa e l’11 settembre i primi 320 torneranno a casa grazie al ponte aereo tra i due Paesi organizzato dalla compagnia. Un secondo volo per i restanti è in fase di programmazione.

Da anni molte comunità di cittadini di altri Paesi africani sono vittime di attacchi mirati in Sudafrica, dove quasi un terzo della popolazione è disoccupata. Durante le violenze scoppiate nelle ultime settimane sono stati distrutti molti esercizi commerciali gestiti da nigeriani espatriati in cerca di fortuna in Sudafrica.
Domenica scorsa centinaia di manifestanti si sono riversati nuovamente sulle strade di alcuni quartieri della periferia di Johannesburg e hanno saccheggiato e distrutto negozi di stranieri. Secondo la stampa locale la richiesta della folla inferocita è sempre la stessa: rimandare a casa i migranti.

E in Nigeria non si sono fatte attendere le rappresaglie. Sono state attaccate diverse attività commerciali sudafricane, tra queste anche gli uffici del gigante delle telecomunicazioni MTN. La scorsa settimana per motivi si sicurezza Pretoria ha chiuso temporaneamente le proprie rappresentanze diplomatiche a Abuja e Lagos e la polizia ha preso posizione, per proteggerli, attorno a molti esercizi gestiti da sudafricani.
Il governo centrale e anche quello del Lagos State hanno condannato gli attacchi nel Paese, perché contrari allo spirito di ospitalità dei nigeriani.
Sembra che la polizia sudafricana sia impotente di fronte alla crescente febbre di xenofobia. Gli agenti di sicurezza, in particolare quelli dei servizi, non sarebbero stati in grado di fornire informazioni volti a contrastare tempestivamente le violenze. E finora dai vertici dai vari corpi della forza pubblica non è arrivata nessuna proposta concreta.
By Africa Express


In Italia ci sono 500 mila irregolari, ma nell'ultimo anno gli espulsi sono stati appena 7 mila (sic!).
In Italia rimpatriare una persona costa 4-6 mila euro (sic!).
Nel 70 per cento dei casi è necessario ricorrere alla procedura coatta, predisponendo voli charter con le adeguate misure di sicurezza che prevedono due agenti di polizia per ogni irregolare (sic!).
Nel 2016, ad esempio, per espellere 29 tunisini sono serviti 74 accompagnatori per un costo complessivo di circa 115 mila euro (sic!).
Mentre l’Italia espelle appena il 20% degli irregolari che identifica, la media europea è del 40%, con picchi del 70% (Regno Unito e Austria) e 90% (Polonia) (sic!).


Silvia Romano
Silvia Romano

30 agosto 2019
KENYA. RAPIMENTO SILVIA ROMANO. GLI SVILUPPI DEL PROCESSO

 

Clicca qui per gli articoli sul rapimento

 


Ebola in Congo-K
Ebola in Congo-K

25 agosto 2019
CONGO-K. EBOLA, OLTRE 2000 MORTI IN 13 MESI

 

Da tredici mesi il Nord-Kiu e Ituri, due province della Repubblica Democratica del Congo sono flagellate dal virus ebola. Secondo l’ultimo bollettino epidemiologico nazionale emesso il 30 agosto 2019, dall'insorgere della decima epidemia (1°agosto 2018), oltre 3000 persone hanno contratto la malattia, tra loro 2024 pazienti sono deceduti, mentre poco più di 900 sono guariti. Finora sono state vaccinate più di 200.000 persone.

La risposta all'epidemia passa anche attraverso la lotta contro i gruppi armati attivi nella regione, tra loro i miliziani di Allied Democratic Forces (ADF), organizzazione islamista terrorista ugandese, operativa anche nel Congo-K dal 1995, responsabili di sanguinarie incursioni nelle cliniche e di feroci attacchi alla popolazione civile. La situazione geopolitica in quest’area del Paese è assai complessa e ciò rende particolarmente difficile il lavoro degli operatori sanitari per contrastare la diffusione del virus. I continui attacchi armati di terroristi e ribelli, il difficile accesso ad alcune aree impediscono spesso l’organizzazione di un cordone sanitario, indispensabile per l’insorgere di nuovi focolai del virus.
Ma alle violenze si aggiungono l’ostruzionismo e la diffidenza di una parte della popolazione che rifiuta di sottoporsi ai controlli medici, ai vaccini, a far ricoverare i congiunti e si oppone ai funerali sicuri.
La febbre emorragica è altamente contagiosa e la mortalità è molto elevata (dal 25 al 90 per cento, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Finora non esiste una terapia, anche se diversi medicinali sono già in fase di sperimentazione. Recentemente il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid) degli Stati Uniti ha fatto sapere che quattro farmaci hanno dato nuove speranze. Sono stati testati su pazienti contagiati dalla malattia in Congo-K e due terapie avrebbero dato risultati più che soddisfacenti.
Già poche settimane dopo l’insorgere della decima epidemia di ebola, il comitato etico della ex colonia belga aveva autorizzato l’utilizzo di quattro farmaci biotecnologici, molecole terapeutiche sperimentali supplementari, vale a dire ZMapp, Remdesivir, Favipiravir e Regn3450 – 3471 – 3479.
L’attuale epidemia è la peggiore in termini di morti e durata della stessa nella ex colonia belga e a livello mondiale si posiziona al secondo posto, dopo la pandemia della febbre emorragica del 2014 -2016 che aveva colpito l’Africa occidentale, uccidendo oltre 11.000 persone.
By Africa Express


Auto superlusso, cinque elicotteri personali, tre hotel prestigiosi e varie altre proprietà immobiliari, cui ora si aggiunge il colosso mediatico, costituiscono il rilevante patrimonio del vicepresidente del Kenya
Auto superlusso, cinque elicotteri personali, tre hotel prestigiosi e varie altre proprietà immobiliari, cui ora si aggiunge il colosso mediatico, costituiscono il rilevante patrimonio del vicepresidente del Kenya

25 agosto 2019
KENYA. IL VICEPRESIDENTE RUTO COMPRA IL GRUPPO "NATION"

 

Poliedrico, astuto, spregiudicato, dotato di un’oratoria coinvolgente che mette decisamente in ombra quella del suo alleato-rivale Uhuru Kenyatta, il vicepresidente del Kenya, William Kipchirchir Samoei Arap Ruto, mette a segno un altro formidabile colpo che, nella sua accurata strategia di conquista del potere, dovrebbe portarlo alla presidenza nelle elezioni del 2022. Il più importante canale d’informazione del Paese, il Nation Media Group, cui fanno capo un quotidiano cartaceo, uno online e una delle più seguite reti televisive nazionali, è ora sotto il suo totale controllo.

La conquista del potente mezzo d’informazione, di cui William Ruto possedeva già un pacchetto azionario del 50 per cento, si è conclusa quasi in sordina con l’acquisizione di un altro 10 per cento che glie ne assicura così l’assoluto dominio. Ancora non è chiaro dove Ruto abbia rastrellato questa quota aggiuntiva, sfuggendo all'attenzione dell’attuale presidente Kenyatta, la cui famiglia era da sempre ritenuta l’indiscutibile proprietaria del gioiello mediatico del Paese e non è avventato prevedere che, da oggi, la linea editoriale del Nation, subirà un brusco cambiamento per servire gli ambiziosi progetti del nuovo padrone.
Padre di sei figli, da molti ritenuto marito fedele, devoto cristiano, scevro da vizi e con un irreprensibile stile di vita, William Ruto (se la sua strategia sarà vincente) si troverà a dirigere, all'età di cinquantasei anni, una tra le più importanti Nazioni africane. Un risultato davvero sorprendente giacché proviene da una famiglia molto povera, del remoto villaggio di Sambut, nel cuore rurale del territorio kalenjin e che, stando alla sua biografia, poté indossare il primo paio di scarpe, solo quando ebbe accesso alla Kerotet Primary School. Studente modello durante l’intero processo educativo, fino al conseguimento della laurea in botanica e zoologia nel 1990, poi arricchitasi di un dottorato conferitogli nel 2018 su ecosistema e ambiente, William Ruto, con l’efficace dialettica e la meticolosa cura della propria immagine, padroneggia la scena politica, con eleganza e carisma.

L’attuale presidente Uhuru Kenyatta, i cui rapporti con il suo vice si sono già recentemente deteriorati per lo scandalo che ha visto coinvolto l’ex ministro delle finanze Henry Torich, fedele sostenitore di Ruto, dovrà ora accontentarsi del solo 38 per cento di quote del colosso mediatico, ora controllato dal suo vice. Posto che le scelte politiche delle popolazioni africane in genere, sono prevalentemente condizionate dall'appartenenza etnica dei candidati, più che dai loro programmi di governo, resta il fatto che l’apparente integrità di William Ruto, opposta a quella di Uhuru Kenyatta, cui voce di popolo, attribuisce una certa debolezza verso l’alcol (la stessa che pare affliggesse anche il suo predecessore Mwai Kibaki) lo fa uscire vittorioso dal confronto e prefigura uno scenario in cui l’eterna rivalità tra kikuyu e kalenjin, potrebbe riesplodere nel prossimo confronto elettorale.

“Apparente integrità” perché in realtà, William Ruto, non è del tutto esente dal biasimo dei benpensanti, sia per la sua pretesa figura di marito integerrimo e sia per la scarsa trasparenza per quanto attiene l’etica politica. Nel 2017, una certa Prisca Chemutai Bett, dichiarò pubblicamente che Ruto era il padre della sua figlioletta undicenne, Abby Cherop, concepita, quindi, quando lui era già sposato con l’attuale moglie, Rachel Chebet, cui si era unito nel 1991. Ruto riconobbe la paternità della ragazza, confermando così, l’avvenuta infedeltà coniugale, ma l’aspetto che più stona con la sua dichiarata integrità politica, è dato dall'immensa ricchezza, che si è creata dal nulla e dal compiacimento con cui si adopera nell'ostentarla. “Ho lavorato duro”, risponde lui a chi gli chiede come ha potuto accumulare una così ingente fortuna.

Tuttavia, la recente acquisizione del Nation Media Group da parte di un politico, non è certo un’esclusiva del Kenya nel panorama internazionale, dove la commistione tra il potere politico e quello economico, controlla spesso l’informazione (non per niente definita “il quarto potere”). L’Italia, con giornali e reti posseduti dalla Mediaset di Silvio Berlusconi; quelli che fanno capo alla Cairo Communications e quelli del Gruppo De Benedetti, rendono anche l'apparato informativo italiano, fortemente influenzato dal capitale. Influenza cui non è sempre facile sottrarsi, anche quando i direttori editoriali, siano giornalisti di provata integrità. Ne è prova la frattura tra Berlusconi e Indro Montanelli, il quale, pur se su posizioni politiche non troppo distanti da quelle del nuovo proprietario, abbandonò nel 1994 Il Giornale, da lui stesso creato, perché non voleva sottostare alle imposizioni del capitale.
By Africa Express


Kyé Ossi,, città di frontiera tra Camerun e Guinea equatoriale
Kyé Ossi,, città di frontiera tra Camerun e Guinea equatoriale

13 agosto 2019
GUINEA EQUATORIALE. MURO AL CONFINE CON IL CAMERUN CONTRO INVASIONI DI MIGRANTI

 

C’è tensione tra Guinea e Camerun per la costruzione di un muro che il dittatore equatoguineano Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, al potere dal 1979, vorrebbe realizzare lungo tutto il confine (189 chilometri) con il Camerun.

Alla fine di luglio l’esercito del Camerun aveva denunciato che militari della Guinea Equatoriale hanno attraversato il fiume Ntem, che segna una parte della frontiera naturale tra i due Paesi. Secondo quanto è stato riportato, i soldati dell’ex colonia spagnola sarebbero arrivati nella città di frontiera camerunense Kye-Oss, dove avrebbero già posto pietre per segnare la posizione del muro. Secondo alcune voci, sembra che in diversi punti Malabo avrebbe cercato di guadagnare terreno, sconfinando di oltre 25 metri.
Ovviamente Yaoundé non vede di buon occhio la totale chiusura della frontiera e Rene Claude Meka, capo di Stato maggiore delle forze armate del Camerun, dopo la sua visita a Kye-Oss, ha inviato un rapporto al suo governo. Ha inoltre specificato che l’esercito non avrebbe permesso intrusioni militari illegali equatoguineane.
Per fare chiarezza sulla questione, l’ambasciatore della Guinea equatoriale, Anastasio Asumu Mum Munoz, è stato ricevuto lo scorso 8 agosto dal viceministro degli Esteri camerunense, Félix Mbay. Il diplomatico equatoguineano ha cercato di tranquillizzare le autorità di Yaoundé e ha precisato che Malabo intende costruire il muro per proteggersi da invasioni di migranti e stranieri, proprio in seguito al fallito colpo di Stato del dicembre 2017. E Munoz ha insistito di non dar retta a ciò che viene riferito sui social network perché il suo Paese non si permetterebbe mai di cambiare i confini.
Il 27 dicembre 2017 le forze dell’ordine camerunensi avevano arrestato 31 mercenari ciadiani, sudanesi e centrafricani nella regione meridionale del Paese, nei pressi del confine con la Guinea, mentre trasportavano un vero e proprio arsenale diretti al confine di Kye-Ossi per sostenere un golpe contro Obiang. Internamente alla Guinea Equatoriale invece un commando di mercenari guineani, ciadiani e camerunesi si sarebbe rifugiato per giorni a Ebebiyin, località guineana al confine con Gabon e Camerun che si trova a 100 km da Mongomo, città natale del presidente Obiang, pronto a intervenire.
By Africa Express


Abubakar Shekau, leader del gruppo storico di Boko Haram
Abubakar Shekau, leader del gruppo storico di Boko Haram

29 luglio 2019
NIGERIA. NUOVA STRAGE DI BOKO HARAM

 

Ed è di nuovo strage in Nigeria. Di ritorno da un funerale, oltre sessanta persone sono state brutalmente ammazzate da miliziani di Boko Haram in un villaggio non lontano da Maiduguri, capoluogo del Borno State, nel nord-est della ex colonia britannica. Una vera e propria esecuzione. I terroristi sono arrivati in sella alle loro moto, altri in macchina, e hanno aperto il fuoco sul folto gruppo di persone che avevano partecipato alla cerimonia funebre di un loro concittadino. Alcuni sono morti sul colpo, altri sono stati uccisi mentre inseguivano i miliziani.
Secondo Mohammed Bulama, un alto funzionario del governo locale, si tratterebbe di una vendetta, in quanto solo due settimane fa i residenti del villaggio aveano ucciso undici terroristi di Boko Haram. Gli attacchi dei jihadisti si sono nuovamente intensificati in tutta la regione negli ultimi mesi. L’Agenzia internazionale Action Against Hunger (ACF) con base a Parigi e attiva in 47 Paesi, ha confermato il sequestro di sei operatori umanitari, tra loro autisti, sanitari e un membro del loro staff. I sei sono stati rapiti vicino Damasak, nel Borno State una decina di giorni fa quando un convoglio dell’organizzazione è stato attaccato da un gruppo armato. Uno degli autisti è stato ucciso.
Mercoledì scorso il rapimento è stato rivendicato da ISWAP (acronimo per Islamic State West Africa Province), una fazione di Boko Haram, capeggiata da qualche mese da un nuovo leader, Abu Abdullah Ibn Umar Al Barnawi. Quest’ultimo è stato nominato direttamente da Abubakar Al Baghdadi, che ha dato il ben servito a Abu Mus’ab Al Barnawi, conosciuto anche come Habib Yousuf, secondogenito di Mohammed Yusuf, che aveva fondato il gruppo Boko Haram nel 2002. Habib Yousuf si era staccato nel 2016 dal nucleo storico guidato dal 2009 da Abubakar Shekau. Pochi giorni dopo il sequestro è stato rivendicato in un video da The Cable, un’agenzia di informazioni nigeriana. Nel filmato sono state riprese sei persone, cinque uomini, alcuni con il capo abbassato, e una donna, che indossa un hijab azzurro. La signora, che si esprime in inglese, dice di chiamarsi Grace. “Siamo stati rapiti da un gruppo che sostiene di chiamarsi Calipha”. In seguito la donna si rivolge al governo nigeriano e a ACF affinché intervengano per il loro rilascio. Grace specificato di non sapere dove siano stati portati e infine ha aggiunto: “Alcuni mesi fa sono stati rapiti altri operatori umanitari. Sono stati uccisi, perché le autorità di Abuja non hanno fatto nulla per la loro liberazione. Chiedo ai nigeriani di non permettere che una simile tragedia possa consumarsi nuovamente”. Alcuni esperti ritengono che il gruppo venga trattenuto in un campo dei terroristi di ISWAP sulle sponde del lago Ciad. Il giorno seguente al loro sequestro, alcuni residenti dei villaggi di Chamba and Gatafo, a sud-ovest di Damasak, avrebbero visto passare gli ostaggi con i loro aguzzini. Garba Shehu, un portavoce del presidente Muhammadu Buhari, ha fatto presente giovedì scorso che l’intelligence è in contatto con i rapitori, informazione confermata anche da un suo tweet del 25 luglio scorso. ISWAP ha attaccato ripetutamente basi militari nel nord-est del Paese e nell’autunno scorso sono state brutalmente ammazzate due levatrici che lavoravano per il Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Entrambe le fazioni di Boko Haram continuano mietere vittime e terrore nel nord-est della Nigeria e nei Paesi limitrofi. La setta, fondata nel 2002 da Mohammed Yusuf, alle origini era un movimento molto meno violento di quello attuale. Nonostante Yusuf fosse contrario ai modelli di vita dell’Occidente, sostenesse che a Terra non è sferica ma piatta e che la pioggia fosse un dono e creazione di Allah e non il risultato della condensazione dell’acqua, cose per altro sostenute dal Corano. Bisogna anche sottolineare che inizialmente la setta aveva anche mezzi militari limitati; infatti solo dopo la morte del vecchio leader, nel 2009, i Boko Haram si sono trasformati in una vera e propria macchina da guerra.
Dal 2009 ad oggi sono morte oltre ventisettemila persone, oltre 2 milioni hanno dovuto lasciare le loro case a causa di Boko Haram. I sequestri sono frequenti e il denaro che viene chiesto per il riscatto serve per il finanziamento delle operazioni criminali. Altre volte gli ostaggi vengono rilasciati in cambio della liberazione di miliziani catturati e arrestati dalle autorità nigeriane.
By Africa Express


Rilevazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanita del 2017 sulla diffusione dell’HIV, come si vede l’Africa risulta la più colpita
Rilevazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanita del 2017 sulla diffusione dell’HIV, come si vede l’Africa risulta la più colpita

6 luglio 2019
IL KENYA SCOPRE IL PRIMO FARMACO ANTI HIV

 

Deve ancora affrontare il test della sperimentazione umana, ma pare che non vi siano dubbi: il farmaco UniPron prodotto in forma di gel dalla ricerca scientifica keniota degli ultimi dodici anni, ha già ottenuto il riconoscimento di prestigiose istituzioni della medicina mondiale. Conseguito il brevetto nel 2007, al costo di circa due milioni di euro, l’UniPron non agisce solo nei confronti dell’HIV, ma utilizzato prima dell’atto sessuale, ha anche una funzione spermicida che lo rende un efficace anticoncezionale. Il team di scienziati che sono pervenuti a questo incredibile successo, esulta e ne ha tutto il diritto. È la prima volta nella storia che le modeste strutture per la ricerca scientifica di un Paese emergente, sconfiggono i giganteschi apparati internazionali che da diverse decadi tentano di conseguire lo stesso risultato, con investimenti miliardari.
Peter Gichuhi Mwethera, Kavoo Linge e Hastings Ozwara, sono i tre medici che, per le rispettive competenze, hanno guidato la ricerca condotta presso l’agenzia statale dell’IPR (Institute of Primate Research). Ora a decretare il successo di questa straordinaria scoperta, manca solo la sperimentazione umana e se questa confermerà l’efficacia e la tollerabilità del farmaco, il Kenya sarà il primo Paese al mondo ad aver realizzato un effettivo prodotto antivirale contro la piaga dell’AIDS. Grande orgoglio per il Kenya e suo enorme riscatto sulla scena internazionale che dimostra quanto di buono sopravviva in un Paese, pur prostrato da corruzione, malaffare, clientelismo e illegalità. Di questo ha certamente tenuto conto la Royal Academy of Engineering di Londra nel tributare il meritato riconoscimento al Kenya e ai suoi bravi ricercatori.
Il farmaco, ha spiegato il dottor Mwethera, contiene un composto fortemente acido nel quale il virus HIV non può sopravvivere, ma aggredisce anche il liquido seminale maschile, distruggendo gli spermatozoi e diventando cosi anche un valido anticoncezionale. Del pari, come la sperimentazione in laboratorio ha dimostrato, l’UniPron, è in grado di sconfiggere ogni altra infezione di origine sessuale. “Questo è un farmaco dalle straordinarie potenzialità” ha detto Stuar Nichol, dell’autorevole organo scientifico Inglese. Resta ora da decidere – dopo che la fase della sperimentazione umana sarà conclusa con successo – come individuare i giusti canali per produrre e commercializzare il prodotto sui mercati esteri, senza che lo straordinario successo conseguito dai medici kenioti, venga fagocitato dai colossi farmaceutici mondiali.
By Africa Express


L’imponente esodo di centinaia di migliaia di congolesi che fuggono dalle zone dei massacri
L’imponente esodo di centinaia di migliaia di congolesi che fuggono dalle zone dei massacri

21 giugno 2019
CONGO. ESODI BIBLICI MENTRE CONTINUA LA FEROCE MATTANZA DI CIVILI

 

DRC è l’acronimo che sta per Democratic Republic of Congo, un eufemismo che evidenzia quanto siano distanti i reali principi democratici da questo ricchissimo, se pur sventurato Paese.
Mobutu, Kabila Senior, Kabila Junior e ora Felix Tshisekedi, è la lista degli ultimi quattro presidenti che da oltre mezzo secolo hanno piegato il popolo congolese a un vassallaggio feudale, mentre le risorse nazionali erano costantemente depredate. Rame, piombo, diamanti, oro, germanio, argento, manganese; sono le riserve minerarie che rendono il Congo uno dei paesi più ricchi del pianeta.
A questi minerali vanno aggiunti il legname pregiato e il Coltan. Il primo è fornito dalle immense foreste equatoriali (seconde al mondo dopo quelle Brasiliane), mentre il Coltan è un prezioso minerale utilizzato nelle apparecchiature informatiche e nella telefonia mobile.
Malgrado queste immense risorse, il popolo congolese vive in miseria e nel costante terrore di essere oggetto delle feroci lotte tribale che da sempre insanguino il Paese da parte di circa cinquanta gruppi armati che compiono agghiaccianti razzie e massacri nei remoti villaggi allocati, soprattutto nella provincia di Ituri, nel nord-est del Paese. È proprio in questa regione che, dopo un periodo di apparente tranquillità, sono esplose le nuove violenze che hanno provocato l’esodo di oltre trecentomila persone e l’uccisione di centosessanta civili, tra cui anche donne e bambini in tenera età, bruciati vivi o abbattuti a colpi d’ascia. Questi ultimi episodi d’inaudita ferocia sono esplosi a seguito dell’annosa rivalità tra le etnie Hema e Lendu. Solo due anni fa, analoghi scontri avevano provocato trecento vittime e oltre 350 mila sfollati.
Il mondo si chiede spesso come, queste bande di assassini, si procurino le armi per realizzare i massacri di cui la cronaca da spesso notizia. La risposta la fornisce il costante monitoraggio delle Nazioni Unite, coadiuvate dall'Interpol e da alcune NGO specializzate nelle attività investigative sul campo. Stando a questo monitoraggio, sarebbe di circa un miliardo e mezzo di dollari il ricavo annuale a favore di queste bande armate, ottenuto grazie al costante saccheggio delle riserve minerarie del Paese. Saccheggio reso possibile dalla collusione con molte autorità istituzionali che ne traggono adeguati vantaggi e spesso partecipano anche con truppe governative alle attività delle bande. Ricavi così ingenti, che sottraggono denaro alle casse dello Stato, servono all'acquisto di armi e a creare varie attività criminali, in Congo e in altre nazioni estere.

Molte potenze economiche mondiali non sono esenti da responsabilità, nei confronti di questa situazioni. Benché l’ONU mantenga in Congo la Monusco, una forza permanente di circa ventimila uomini (il più grande contingente armato schierato dall’ONU nel mondo) questa forza continua a dimostrarsi inefficace a contenere l’eccidio che insanguina il Paese da oltre vent'anni. L’unico riscontro certo è che tale forza costa ai contribuenti dei Paesi membri, la bella somma di un miliardo e mezzo di dollari l’anno, ma non è solo in questo che si configura l’atteggiamento piratesco delle grosse multinazionali straniere. Le grosse imprese statunitensi, benché leggi severe impongano di dichiarare la provenienza dei minerali impiegati nelle attività di trasformazione industriale, pare non siano in grado di giustificare come si siano procurate ben l’80 per cento dei minerali utilizzati. Tra queste compaiono anche i colossi della Boeing e della Apple, ma pur se in mancanza di dati (che si guarda bene dal fornire) è ancora una volta la Cina ad accaparrarsi la maggior parte di queste risorse, senza preoccuparsi troppo della provenienza.
Come se povertà ed eccidi non fossero sufficienti a prostrare una Nazione, a questi si è ora aggiunto anche un vero e proprio castigo biblico; quello dell’Ebola che, proprio nelle province già soggette ai massacri, pare abbia evidenziato circa 1.500 decessi, ma c’è anche l’infiltrazione del fondamentalismo islamico che, stando a un rapporto dei missionari comboniani, sta iniziando ad affliggere i territori del nord, creando così una nuova frontiera del terrore, di cui non si avvertiva certo il bisogno. Finora, delle cinquantaquattro Nazioni che compongo il continente africano, solo Ghana e Ruanda (almeno per ora) sembrano esentate dalla massiccia corruzione e dai conflitti tribali. Solo quando l’Africa sarà liberata dai satrapi che l’affamano e dagli egoismi delle grosse economie mondiali che li supportano, si potrà sperare nella sua reale emancipazione che la sola fine del dominio coloniale, non è bastata a determinare.
By Africa Express


Strage a Konduga, Borno State, Nigeria
Strage a Konduga, Borno State, Nigeria

20 giugno 2019
NIGERIA. TRE KAMIKAZE FALCIANO ALMENO TRENTA PERSONE DURANTE UNA PARTITA DI CALCIO

 

Miliziani di ISWAP (Islamic State West Africa Province), una fazione di Boko Haram, capeggiata da Abu Musab al-Barnawi, che colpisce prevalentemente basi militari, lunedì sera hanno preso d’assalto una caserma a Gajiram, nel Borno State, Nigeria. Finora sono stati ritrovati i corpi di quindici soldati. Molti altri militari mancano ancora all'appello e le ricerche sono tutt'ora in atto.
Dopo l’attacco alla base militare, i terroristi si sono spostati al centro della città, dove hanno saccheggiato diversi negozi. I residenti, terrorizzati, si sono nascosti nelle loro case o sono fuggiti in campagna. Secondo alcuni testimoni, nessun civile è stato ucciso o ferito.
ISWAP ha attaccato tre caserme nel giro di un mese e in passato proprio quella di Gajiram è stata presa di mira già più volte dai jihadisti.

L’amore per il calcio è costato la vita ad almeno trenta persone a Konduga, nel nord-est della ex colonia britannica. Domenica sera, mentre un gruppo di giovani stava seguendo una partita alla televisione in un locale al centro della cittadina, che dista una quarantina di chilometri da Maiduguri, capoluogo del Borno State, si sono fatti saltare per aria tre kamikaze, uccidendo almeno trenta persone, i feriti sono oltre quaranta, alcuni in gravi condizioni. Finora la carneficina non è stata ancora rivendicata, ma il modus operandi è tipico dei jihadisti rimasti fedeli al leader storico di Boko Haram, Abubakar Shekau.
Secondo Usman Kachalla, direttore di SEMA (State Emergency Management Agency) Agenzia statale di pronto intervento, ha fatto notare che se i soccorsi fossero arrivati in tempo, molte persone avrebbero potuto essere salvate e ha aggiunto: “La gente muore per la mancanza di infrastrutture in grado di gestire emergenze del genere. Inoltre i mezzi di soccorso sono partiti con grave ritardo da Maiduguri perché bisognava attendere le necessarie autorizzazioni da parte del esercito per recarsi sul luogo dell’attentato”.
Anche i soccorritori corrono gravi rischi a causa dell’insicurezza che caratterizza tutta la zona; i terroristi sono ovunque, pronti a tendere imboscate anche ai mezzi di soccorso.
Un testimone ha riferito che i feriti malconci sono rimasti in strada per ore e sono così morti dissanguati. Inoltre anche negli ospedali manca tutto, a partire dai medicinali.
Konduga è stato teatro di altri attacchi jihadisti in passato. La cittadina dista pochi chilometri dalla foresta Sambisa, dove si trovano diverse basi dei terroristi. E proprio poche ora prima dell’ultima aggressione, una delle più gravi registrate negli ultimi mesi nella regione, un portavoce dell’aeronautica militare nigeriana aveva sostenuto che, grazie a diverse incursioni aeree, avrebbero liberato gran parte dell’area, costringendo i miliziani Boko Haram a ritirarsi nella foresta.
Anche cinque anni fa, il 17 giugno, durante i mondiali 2014, i jihadisti avevano fatto esplodere una bomba davanti a un bar di Damaturu, la capitale dello Stato di Yobe, dove un gruppo di giovani stavano guardando una partita di calcio alla televisione. Allora i morti furono ventuno e anche in tale occasione l’ospedale della città aveva riscontrato difficoltà nella gestione dell’emergenza.
“Il calcio è peccato, è una mania degli occidentali, bisogna combatterlo”, ha dichiarato più volte in diversi video Abubakar Shekau, leader di una fazione di Boko Haram, che tradotto da una locuzione hausa significa: “l’istruzione occidentale è proibita”.
By Africa Express


Forze di polizia keniote al confine con la Somalia
Forze di polizia keniote al confine con la Somalia

17 giugno 2019
KENYA. DIECI POLIZIOTTI UCCISI DA AL-SHABAAB

 

L’ennesimo attentato contro le forze di polizia keniote, ad opera delle milizie di al-Shabaab, si è verificato sabato scorso nel distretto di Wajir, nei pressi del confine con la Somalia.
Un ordigno esplosivo è deflagrato al passaggio di un mezzo che trasportava tredici agenti, dieci dei quali sono morti sul colpo mentre gli altri hanno riportato gravi ferite la cui prognosi non è ancora stata sciolta. L’attentato è stato immediatamente rivendicato dall'ormai tristemente noto gruppo terroristico con i soliti toni trionfalistici e ancora una volta il Kenya si trova a piangere la perdita di vite umane, conseguenti al suo intervento militare in Somalia nell'inconcludente tentativo di sconfiggere al-Shabaab.
Solo il giorno prima, nel sub-distretto di Wajir Est, un gruppo di terroristi aveva fatto irruzione nel villaggio di Konton, sequestrando tre agenti riservisti. I tredici uomini, vittime dell’attentato, erano appunto stati inviati per individuare gli esecutori del sequestro. Purtroppo la sorte ha deciso di trasformarli da cacciatori in prede, riconfermando che l’avversario, oltre che spietato e feroce, è anche straordinariamente abile e la scarsa capacità strategica mostrata dal Kenya per contrastarlo, continua a rivelarsi perdente.
Quale prezzo in vite umane il Kenya è ancora disposto a pagare per continuare nel suo fallimentare intento di sconfiggere un nemico che si mostra ogni volta superiore in termini di efficienza e di strategia? Gli attacchi al centro commerciale Westgate di Nairobi, quello successivo al complesso Dusit2, la terrificante strage compiuta al college dell’università di Garissa, dove furono barbaramente uccise centocinquanta persone – in prevalenza giovani studenti – e le molte altre incursioni che hanno prodotto vittime tra gente comune e poliziotti, dovrebbero definitivamente convincere il Kenya ad abbandonare la partita del suo intervento in Somalia, perché non ha né la capacità né i mezzi per affrontare un così feroce e preparato avversario.
By Africa Express


In Africa sono trenta milioni i bambini costretti a chiedere l’elemosina
In Africa sono trenta milioni i bambini costretti a chiedere l’elemosina

24 maggio 2019
UGANDA. MULTE E GALERA A CHI FA L'ELEMOSINA

 

I bambini mendicanti devono sparire dalle strade di Kampala. Lo ha deciso il consiglio comunale della capitale ugandese per contrastare lo sfruttamento economico e sessuale dei piccoli, un fenomeno che ha raggiunto livelli inquietanti. D’ora in poi, chiunque da soldi o cibo ai piccoli mendicanti, è passibile di una multa di undici dollari o di una pena detentiva fino a sei mesi.
Secondo i calcoli del governo, nelle vie della capitale si aggirerebbero ben oltre quindicimila minori tra i sette e diciassette anni. I più provengono dal distretto di Nakap, nella provincia di Karamoja nel nord-est dell’Uganda e sono esposti, oltre che all'insicurezza, a ogni sorta di violenza.
I bambini, troppo spesso sono vittime di tratta e di trafficanti di esseri umani, che sfruttano la loro vulnerabilità e li buttano sulle strade per chiedere elemosina e quant'altro.
In base ad un rapporto di Humanium, un’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti dei minori, il trentasei per cento dei bambini ugandesi tra i cinque e quattordici anni sono costretti a lavorare in quanto orfani o per contribuire al povero bilancio familiare.
Erias Lukwago, sindaco di Kampala, ha fatto sapere che, secondo la nuova legge saranno puniti genitori, trafficanti, agenti di bambini mendicanti. I piccoli s’infilano ovunque, dalla mattina alla sera, con il sole o sotto la pioggia, per chiedere la carità. E, quasi sempre, i giovanissimi mendicanti vengono controllati a distanza da una donna adulta che, a fine giornata si appropria dell’incasso.
By Africa Express


Il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed invia l’esercito per arginare conflitti etnici
Il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed invia l’esercito per arginare conflitti etnici

6 maggio 2019
ETIOPIA. DUECENTO MORTI NEGLI SCONTRI ETNICI

 

Nelle ultime settimane si sono verificati nuovi scontri etnici tra gli Amhara (rappresentano il ventisette per cento della popolazione, secondi solo agli Oromo, che con il trentaquattro per cento è la prima etnia del Paese) e i Gumuz. Si parla di duecento morti. Per arginare il conflitto, il governo di Addis Ababa ha inviato l’esercito per calmare gli animi nel nord-ovest dell’Etiopia, mentre le autorità di entrambe le regioni – Amhara e Benishangul Gumuz – stanno tentando una mediazione tra le parti per evitare una recrudescenza delle violenze.
Conflitti inter-etnici sono all'ordine del giorno in Etiopia, quasi sempre causati da controversie sui confini distrettuali. Anche se il Paese è unificato politicamente da secoli, la convivenza di oltre cento milioni di persone, appartenenti a oltre ottanta gruppi, non è semplice. Molti osservatori ritengono che il federalismo etiopico, strutturato su basi etniche, potrebbe essere una delle cause delle rivalità comunitarie, una visione che però non è sempre condivisa.

Il Centro di monitoraggio degli sfollati interni (IDMC), un gruppo di studio con sede a Ginevra, la situazione umanitaria è peggiorata in modo significativo nell'ultimo anno. Attualmente 8,13 milioni di persone necessitano di aiuti alimentari.
L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) ha fatto sapere che attualmente ci sono oltre 2,35 milioni di persone hanno lasciato le loro case proprio a causa delle violenze; l’Etiopia risulta essere il paese con il maggior numero di sfollati al mondo, superando persino la Siria.

Abiy Ahmed, primo ministro dell’Etiopia, al potere da poco più di un anno, durante il suo primo discorso alla nazione nell'aprile 2018, aveva richiamato l’attenzione degli etiopi sulla necessità dell’unità etnica. Un percorso ancora lungo e in salita. Il governo di Addis Ababa dovrà effettuare riforme interne, sopratutto economiche, volte a creare occupazione e maggiore stabilità alle popolazioni in conflitto.
By Africa Express


Il campo dei profughi somali di Dadaab, in territorio keniota
Il campo dei profughi somali di Dadaab, in territorio keniota

5 maggio 2019
FALLIMENTO DEL KENYA IN SOMALIA: STUPRI, FURTI, RISORSE RAPINATE

 

Un paio di successi, ma molte più sconfitte, sembra essere il bilancio della presenza militare AMISOM (African Mission in Somalia) promossa dall'Unione Africana per contrastare l’attività del gruppo terroristico Al Shabaab, che controlla tuttora una larga parte del territorio somalo. Il Kenya partecipa alla coalizione da otto anni con una forza di quattromila uomini, insieme a Uganda, Burundi, Etiopia, Gibuti, Sierra Leone, Nigeria e Ghana per un totale di circa 22 mila uomini, che contano oggi pesanti perdite, stimate in oltre duemila morti. Si tratta di un dato approssimativo, poiché tutti i governi coinvolti nell'operazione sono riluttanti a fornire informazioni più precise e diffondono spesso notizie molto distanti dalla realtà.
Questa situazione è dettagliatamente illustrata nel libro “Fighting for Peace in Somalia” recentemente edito dalla Oxford University Press, con il supporto della George Washington University’s Elliott School of International Affairs, il cui autore è il professor Paul Williams, docente presso lo stesso ateneo. Nella sua ricostruzione degli eventi, Paul Williams, dedica, particolare attenzione al Kenya, al quale riconosce due successi di rilievo: la presa di Chisimaio – importante città e porto della regione – avvenuta nel 2012 e la vittoriosa battaglia di Hoosingo, che ebbe luogo nello stesso anno, in si cui stima perirono oltre cento militanti di Al Shabaab. Tuttavia, l’impressione è che questi successi, si siano rivelati del tutto insufficienti a bilanciare la situazione, poiché il Kenya, da solo, conta perdite sul campo dichiarate in centosessanta uomini, che gli osservatori internazionali ritengono ampiamente sottostimate.

Secondo il professor Williams, la cui opera è stata acquisita dall'ONU – principale sponsor del progetto AMISOM – è inconcepibile che una forza così imponente, non riesca a esprimere una superiorità militare nei confronti dei gruppi combattenti di Al Shabaab, giungendo anche a soffrire l’umiliazione, toccata al Kenya, di vedere dodici dei propri soldati presi in ostaggio dai guerriglieri, a seguito della pesante sconfitta subita nella battaglia di El Adde nel 2016 (la peggiore sofferta dalle truppe AMISOM) ma solo un anno dopo, il Kenya, ha addirittura subito un attacco di Al Shabaab nella propria base di Kulbiyow, in territorio keniota, che ha lasciato sul campo trenta vittime.
“Lo scenario – ha commentato Paul Williams – non potrebbe essere più chiaro: dopo dieci anni di battaglie, l’AMISOM ha dimostrato di non essere in grado di sconfiggere Al Shabaab, così come Al Shabaab, non è in grado di controllare l’intero Paese, com'era nelle sue attese. Si è così creata una permanente situazione di stallo, che neppure i bombardamenti americani, riescono a risolvere”. Per un efficace controllo della Somalia, occorrerebbe quindi non limitarsi alle incursioni aeree, ma dispiegare forze di terra, cosa che americani e italiani, dopo le terrificanti esperienze dei primi anni ’90, si guardano bene dal fare. Indisciplina e carente addestramento, sarebbero, secondo Williams, alla base degli insuccessi kenioti, ma il professore accusa anche i soldati del Kenya di vere e proprie azioni criminali.
Tra queste, ci sarebbero i ricorrenti stupri a danno delle giovani profughe somale; i furti dei loro miseri beni; il costante maltrattamento dei rifugiati e anche il trafugamento del carbon fossile custodito nei depositi di Chisimaio. “Le truppe del Kenya – riferisce Williams nel suo rapporto – hanno infranto il veto delle Nazioni Unite, di esportare il carbon fossile della Somalia e si sono appropriate del 50 per cento dei proventi generati dal porto di Chisimaio. È quindi comprensibile che nove somali su dieci, guardino con astio alla presenza dei militari del Kenya nel proprio territorio”. Dal canto suo, Nairobi ha seccamente smentito queste accuse, dichiarandole del tutto infondate, benché siano state accertate da ispettori appositamente inviati dell’ONU.
Alle considerazioni del professor Williams, si uniscono quelle del giornalista britannico Tristan McConnel, secondo cui “L’ostinata tendenza del Kenya a mentire nelle conferenze stampa e nelle interviste, mostra che si è raggiunta la deprimente conclusione di considerare più attendibili i proclami dei terroristi, delle dichiarazioni del governo di Nairobi”. Un giudizio pesante, questo, che è però difficile confutare. Ma perché il Kenya, pur essendo oggetto di umiliazioni e di riprovazioni internazionali, continua a mantenere attiva la sua forza militare in Somalia, pur se contestata dalla maggior parte dei propri cittadini? Si tratta forse di non voler rinunciare ai contributi ONU o alla possibilità – come attesterebbero le accuse – di depredare la Somalia delle proprie risorse?
A tutto questo e alle perdite sul campo – per una campagna militare che si è largamente dimostrata inefficace – si devono anche aggiungere le diverse centinaia di vittime, che le incursioni terroristiche di Al Shabaab producono in territorio keniota, proprio come ritorsione al mantenimento di questa presenza, per non contare la flessione degli arrivi turistici, dovuti al timore (largamente sovrastimato) di attentati. Ne vale davvero la pena? Il professor Paul Williams ritiene di no. “Non si può pretendere di liberare il popolo somalo da Al Shabaab, imponendogli soldati stranieri che sono visti come spietati invasori. La Somalia deve raggiungere la propria libertà con una presa di coscienza che germogli e si sviluppi all'interno di se stessa”.
By Africa Express


I gorilla orfani Ndakazi e Ndeze all'interno del centro Senkwekwe nel Parco Nazionale Virunga
I gorilla orfani Ndakazi e Ndeze all'interno del centro Senkwekwe nel Parco Nazionale Virunga

26 aprile 2019
CONGO-K. GORILLA IN POSA PER UN SELFIE CON GLI UMANI

 

Ndakazi e Ndeze, due femmine di gorilla, in posa umana per un selfie con i ranger del Virunga National Park della Repubblica Democratica del Congo
Succede nel Virunga National Park, a nord-est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), al confine con l’Uganda. Ndakazi e Ndeze, due femmine di gorilla, si sono messe in posa, in piedi, per un selfie imitando gli umani che le hanno allevate.

La foto, scattata con lo smartphone dal ranger Mathieu Shamavu con un post pubblicato su Facebook, ovviamente, è diventato virale. “Queste sono circostanze eccezionali in cui è stata scattata la foto – si legge nel post -. “Non è mai permesso avvicinarsi a un gorilla in natura. Vogliamo sottolineare che questi primati si trovano in un’area protetta per gorilla orfani nella quale vivono sin dall'infanzia”.
Il post è stata l’occasione per pubblicizzare il Virunga National Park, condividere anche gli altri post per la Giornata della Terra e chiedere il supporto con una donazione. L’obiettivo è raggiungere la cifra di 50 mila dollari da destinare alla conservazione del patrimonio naturale.
Il vice direttore di Virunga, Innocent Mburanumwe, ha detto alla BBC che le madri dei gorilla della foto sono state entrambe ammazzate dai bracconieri nel luglio 2007.
Le due giovani femmine di primate, quando sono state salvate, avevano solo quattro mesi. Sono sempre vissute nell'orfanotrofio di Senkwekwe, nel Virunga Park, a contatto con gli esseri umani.
Questa continua vicinanza con i ranger le porta anche a imitare gli atteggiamenti umani. Come la maggior parte dei primati, possono stare in piedi per brevi periodi di tempo ma nella fotografia l’atteggiamento è molto umano.
I ranger che lavorano nei parchi per proteggere la fauna selvatica dai bracconieri, rischiano spesso la vita. Nel mese di aprile dello scorso anno, nel Virunga National Park, cinque guardie forestali sono state uccise in un’imboscata. Dal 1996 i ranger assassinati nel Parco dai gruppi armati sono stati più di 130.
Il Virunga National Park, è famoso per la sua popolazione di gorilla di montagna. Dal 1979 fa parte del Patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco. Dal 1994 è nella lista del Patrimonio mondiale in pericolo a causa dei pesanti danni del conflitto dei Grandi Laghi. Quello conosciuto dalla popolazione africana come la Terza Guerra Mondiale del Congo.
By Africa Express


Strage di bestiame, causa siccità, nella contea del Turkana, in Kenya
Strage di bestiame, causa siccità, nella contea del Turkana, in Kenya

26 aprile 2019
KENYA. COLPITO DALLA PEGGIORE SICCITÀ DEGLI ULTIMI 40 ANNI

 

La stagione delle piogge è imminente, anzi, è già in notevole ritardo rispetto alle attese. Tuttavia, anche se oggi dovesse diluviare, sarebbe ormai troppo tardi per garantire un raccolto, perché il periodo previsto per la semina è già stato ampiamente superato. Dallo scorso mese di marzo, non una singola goccia d’acqua ha bagnato la terra del Kenya, provocando la più grave siccità sperimentata dal Paese fin dal lontano 1981. I campi inaridiscono e la terra si spacca sotto gli implacabili dardi del sole. L’agricoltura è al collasso, ma è anche emergenza per l’accesso all'acqua necessaria per i quotidiani usi domestici.
L’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD), per bocca del suo segretario esecutivo, Mahboub Maalim, stima che, uno tra i molti gravi effetti della mancanza d’acqua, è quello che mette a rischio, la salute di oltre 500 mila bambini sotto i cinque anni. Una previsione, questa, tra le più catastrofiche che il Paese si accinge ad affrontare, pur senza avere i mezzi necessari per poterlo fare in modo efficace. L’aridità ha anche drasticamente ridotto la disponibilità di pascoli verdi per il bestiame, costringendolo a esodi biblici per trovare zone in grado di fornire quella minima alimentazione necessaria alla sopravvivenza.

Questo massiccio spostamento delle mandrie, rischia anche di esacerbare i rapporti tra tribù limitrofe che si troveranno a contendersi ogni spicchio di terra in grado di fornire il sia pur minimo supporto alimentare al bestiame e questa contesa – com'è spesso avvenuto, anche nel più recente passato – potrà sfociare in scontri violenti e sanguinosi. Il Kenya si troverà quindi costretto a contingentare la distribuzione di tutti i derivati alimentari prodotti dal bestiame, come latte e carne, ma gli effetti della siccità, influiranno anche negativamente sul previsto sviluppo economico del Paese che, secondo Patrick Njoroge, governatore della Banca Centrale del Kenya, si ridurranno al 5,3 per cento, contro il previsto 6,3 per cento.
La flessione dell’attività agricola, oltre al mais, che rappresenta l’alimentazione popolare di base, colpirà anche i settori in cui il Kenya ha i suoi punti di forza per l’export: tè, caffè e piretro. Si tratta indubbiamente di un danno ingente, poiché l’agricoltura rappresenta un terzo dell’intera economia nazionale. Solo riferendosi alle zone più colpite dalla siccità; Turkana, Marsabit, Isiolo, Tana River e Garissa, sono già oltre un milione, le persone che necessitano di assistenza umanitaria alimentare.
L’agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale, ha accusato il Kenya di aver messo in atto un piano di sviluppo infrastrutturale, troppo mirato al prestigio, più che alle basilari necessità del Paese, rilevando l’assurdità che anche vasti appezzamenti di terreno, limitrofi ai grandi laghi e lungo i fiumi, debbano soffrire gli effetti della siccità, quando sarebbe bastato investire una parte del grande indebitamento internazionale, per realizzare un adeguato piano d’irrigazione che consentisse il proseguimento delle attività agricole, anche in presenza di emergenze come quella attualmente in atto.
By Africa Express


Simbakubwa kutokaafrika, il grande carnivoro di cui sono stati rivenuti, in Kenya, gran parte della mandibola, frammenti del cranio e parti dello scheletro, faceva parte del gruppo estinto degli ienodonti
Simbakubwa kutokaafrika, il grande carnivoro di cui sono stati rivenuti, in Kenya, gran parte della mandibola, frammenti del cranio e parti dello scheletro, faceva parte del gruppo estinto degli ienodonti

20 aprile 2019
KENYA. RESTI DI UN ANTICO PREDATORE TROVATI IN UN CASSETTO DEL NATIONAL MUSEUM DI NAIROBI

 

Questo enorme carnivoro più grande dell'orso polare, risalente a 22 milioni di anni fa, è il più antico membro noto degli ienodonti, così chiamati per via della somiglianza dei denti con quelli delle iene.
I curatori del Kenya National Museum di Nairobi, l’avevano frettolosamente definito Simbakubwa kutokaafrika, che in lingua swahili sta per “grande leone africano” e non considerando la scoperta di particolare rilievo, ne avevano gettato i resti scheletrici, in un anonimo cassetto, in cui erano rimasti per vari decenni.
Questo possente predatore non era un grosso felino. Piuttosto, rappresenta il più antico membro noto, come già detto, di un gruppo di mammiferi estinti noti come ienodonti, così chiamati per via della somiglianza dei denti con quelli delle iene, anche se i due sono gruppi distinti. 
La scoperta, pubblicata la scorsa settimana dal Journal of Vertebrate Paleontology, è stata resa possibile dall'accurato esame dei resti scheletrici, composti da un teschio e dalle fauci mascellari che, per certe analogie con la struttura dentale delle iene, gli hanno fatto appunto attribuire il nome di hyaenodon, benché con le iene non vi siano altre analogie oltre questa.
Si tratta quindi di reperti tutt'altro che insignificanti, ma che si pongono tra quelli più importanti presenti nel museo keniota. Vissuto nell'era Mesozoica, l’hyaenodon, era il più possente predatore del tempo. Le sue dimensioni erano quelle di un odierno orso polare, con un’altezza al garrese di oltre cento centimetri; denti lunghissimi, con fauci capaci di stritolare anche le ossa più solide e un peso che poteva raggiungere i tre quintali.
I reperti ossei, che dopo la scoperta, otterranno certamente una più prestigiosa collocazione all'interno del museo, potrebbero anche consentire agli studiosi di stabilire le cause che hanno portato all'estinzione dell’hyaenodon. “Grazie alla sua potente dentatura, di gran lunga superiore a quella dell’odierno leone, – ha detto il ricercatore Matthew Borths – l’hyaenodon era il predatore carnivoro dominante dell’epoca”. Ciò che sorprende è che, per dare un nome appropriato a questo animale preistorico, ci siano voluti quasi cinquant'anni. I fossili erano stati portati alla luce tra il 1978 e il 1980 in un sito nel Kenya occidentale chiamato Meswa Bridge. ed erroneamente attribuiti a un comune leone, semplicemente “un po’ più grande della norma”.


Un dipensario medico in Kenya
Un dipensario medico in Kenya

14 aprile 2019
KENYA. LO SCANDALO DELLE 7900 CLINICHE ILLEGALI

 

Il dato, per quanto sbalorditivo, è assolutamente ufficiale poiché desunto da un comunicato della Commissione per la Sanità Pubblica del distretto di Nairobi: delle 9043 cliniche ospedaliere, esistenti nel territorio della Contea, solo 1079 possiedono la licenza e i necessari requisiti previsti dalla legge per operare. Ciò significa che ben 7964 cliniche agiscono illegalmente, senza poter garantire un’adeguata assistenza medica ai propri pazienti e mettendo quindi a rischio la loro vita.
Si tratta di strutture sanitarie che operano da anni, sotto gli occhi di tutti e in totale spregio alle normative sanitarie previste dalla legge. Come possono essere sfuggite finora al controllo delle competenti autorità distrettuali? La domanda è ovviamente retorica giacché ogni attività illecita che si svolge indisturbata in Kenya, può farlo grazie all'endemica corruzione che è più forte delle leggi e dello Stato che le ha promulgate. Qui, però, non si tratta solo di fare indebita incetta di denaro; si tratta di mettere a serio rischio la salute dei cittadini.

La pubblica assistenza sanitaria, nel Paese, è in uno stato di completo sfacelo. Riferendosi alla sola capitale, si rileva che una mega-metropoli, che conta quasi dieci milioni di abitanti, è servita da un’unica struttura pubblica: il Kenyatta General Hospital, coadiuvata da un certo numero di dispensari, in prevalenza condotti da personale paramedico, che fornisce meri servizi d’emergenza, somministrando aspirine, perché ogni altro farmaco o esami che si rivelassero necessari, restano a esclusivo carico dei pazienti. Era quindi fatale che, per sopperire a tali lacune, sorgessero ogni dove strutture sanitarie private, molte delle quali, prive dei necessari requisiti professionali per operare.

Lo scandalo delle cliniche illegali è esploso in questi giorni a seguito della morte di Caroline Mwatha, un’attivista per i diritti umani, deceduta nel febbraio scorso, presso la clinica New Njiru Community Centre nel quartiere di Dandora, dove – a seguito di una gravidanza indesiderata – era stata ricoverata per un aborto volontario. La clinica in questione è una di quelle sotto accusa per aver condotto attività sanitarie illegali. Stando agli accertamenti svolti dalla polizia, la giovane attivista sarebbe deceduta a causa dell’emorragia conseguente all'intervento abortivo che, contro ogni responsabile criterio medico, era stato eseguito quando la donna era già al quinto mese di gravidanza.
Indiziati di aver eseguito l’intervento, contro il pagamento di circa cinquanta euro, sono la levatrice Betty Akinyi Nyanya e il sedicente medico, Michael Onchiri. Il denaro necessario all'aborto sarebbe stato inviato a Caroline dal suo boy-friend, Alexander Gitau Gikonyo di Isiolo, il quale, in accordo con la vittima, non gradiva potare a compimento la gravidanza in atto. Dopo il decesso, il corpo di Caroline è stato portato in tutta fretta e in forma anonima all'obitorio di Nairobi, con il nome fittizio di Carol Mbeki, ma le investigazioni svolte hanno portato poi alla reale ricostruzione dei fatti.

L’avidità, come avvenuto in questo caso, è quasi sempre alla base di scelte illecite e pericolose. Sembra tuttavia assurdo che per la misera somma di cinquanta euro, si rischi di mettere a repentaglio una vita umana. Eppure, causa la dilagante povertà della maggior parte del popolo keniota, la scelta della struttura medica cui rivolgersi, è più spesso determinata dal prezzo, più che dalla qualità. Qualità che peraltro esiste anche tra gli ospedali privati, come l’Aga Khan Hospital e il Nairobi Hospital, ma a costi, bassi se paragonati a quelli europei, tuttavia accessibili a pochi in Kenya.

Di fronte a queste situazioni è oggettivamente difficile non domandarsi se il grande indebitamento del Kenya, per la realizzazione di avveniristiche infrastrutture, non poteva anche tener conto della salute dei propri cittadini e destinare, almeno una parte di questi investimenti, alla creazione di un adeguato sistema sanitario pubblico, che resta invece delegato alle lucrose iniziative private.
By Africa Express


Campo di Kibeho (Ruanda). Uno dei massacri compiuti contro l’etnia tutsi
Campo di Kibeho (Ruanda). Uno dei massacri compiuti contro l’etnia tutsi

7 aprile 2019
RUANDA. MACRON: “ACCERTERÒ EVENTUALI RESPOSSABILITÀ FRANCESI NEL GENOCIDIO”

 

Questa sembra essere oggi l’intenzione del presidente francese Emmanuel Macron, a proposito delle pesanti ombre che gravano sul comportamento dell’Eliseo, durante il terrificante massacro del 1994 in Ruanda. Gli Hutu massacrarono oltre ottocentomila Tutsi, in soli cento giorni. Una mattanza che, per numero di vittime e per il breve periodo in cui fu compiuta, non ha eguali nella storia. Senza contare le migliaia di persone che, pur restando in vita, subirono orrende mutilazioni e che ancora oggi offrono testimonianze viventi sulla ferocia di un mattanza che ha fatto inorridire il mondo.
Da diversi anni il governo ruandese accusa la Francia di gravi complicità nel genocidio, per aver sostenuto, con soldi, strategie e training militari, i suoi esecutori, prima, durante e dopo il suo compimento. Accuse, queste, rilanciate anche da altri Paesi, come Stati Uniti e Regno Unito oltre che da varie NGO, tra cui, la più attiva, ha proprio sede a Parigi: la "Julien Allaire of Survie" secondo cui, il coinvolgimento francese nel deprecabile evento “risulta da chiare e inequivocabili evidenze”, sempre tenute segrete dall'Eliseo.

In effetti, nel 2015, l’allora presidente, Francois Hollande, sottoposto a pressioni internazionali, dichiarò che il dossier “Ruanda” doveva rimanere secretato, in ossequio al disposto costituzionale, secondo cui, un atto archiviato da un presidente o da un ministro della repubblica, poteva diventare pubblico solo dopo venticinque anni dalla morte di chi l’aveva secretato. In questo caso, si tratterebbe quindi del presidente Francoise Mitterand, deceduto nel 1996, due anni dopo il genocidio in questione. È pertanto probabile che, pur se le indagini, promesse da Macron, saranno attuate oggi, le risultanze non potranno essere rivelate prima del 2021, posto che, a detta di molti giornalisti investigativi, la semplice apertura del dossier svelerebbe tutto il necessario, senza il bisogno di ulteriori investigazioni.
Secondo il governo ruandese e altri osservatori internazionali, la Francia, stretta alleata del governo hutu, all'epoca presieduto da Juvenal Habyarimana, fornì fin dal 1990, un significativo supporto alla leadership in carica ignorando colpevolmente i massacri che stavano avvenendo sotto i suoi occhi. Sempre secondo tali accuse, la Francia fu anche colpevole di aver offerto rifugio e protezione agli esecutori dei massacri, utilizzando allo scopo le proprie truppe inquadrate nel contingente delle Nazioni Unite che erano invece in Ruanda allo scopo di impedirli.
Accuse molto gravi, finora ripetutamente negate da Parigi, ma che hanno fatto infuriare il Ruanda, fino a decidere, nel 2006, sotto la presidenza di Paul Kagame, di rompere i rapporti diplomatici con l’Eliseo, rapporti poi ripresi nel 2009, quando il Paese africano entrò nel Commonwealth.
Un accenno di distensione, nei rapporti franco-ruandesi, si è verificato nel 2010, quando Nicolas Sarkozy, in visita di cortesia in Ruanda, ammise alcuni errori del proprio Paese, commessi durante i massacri del 1994. Tuttavia, malgrado questa vaga ammissione, nessun presidente francese, assisté mai alle annuali commemorazioni del genocidio, tenute nella capitale ruandese, Kigali. Anche all'ultima ricorrenza, che si celebra oggi 7 aprile in ricordo dell’anniversario dell’inizio del genocidio, Emmanuel Macron, benché invitato da Paul Kagame, si è detto impossibilitato a partecipare, causa “impegni precedentemente presi”. Scelta non proprio ideale, per favorire una distensione dei rapporti tra i due Paesi ormai da troppi anni avvelenati da accuse e sospetti.

Fin dall'unilaterale attacco alla Libia, promosso dal presidente Sarkozy nel 2011, che segnò la fine di Muammar Gheddafi, ma gettò anche il Paese nordafricano nel caos, la Francia continua a mettere in atto una pesante politica d’ingerenza in molti Paesi africani, per favorire – a detta degli osservatori internazionali – i propri interessi commerciali. Stando a quanto recentemente riferito da Béchir Saleh, braccio destro del colonnello libico – oggi rifugiato in Sudafrica – Sarkozy, volle punire Gheddafi perché questi non aveva onorato l’impegno di acquistare armi francesi per un valore di quattro miliardi di dollari. Questo è quanto ha dichiarato lo stesso Béchir Saleh, in un’intervista resa a "France 24" e al giornale "Jeune Afrique", aggiungendo che fu lui stesso a condurre le trattative con Sarkozy per conto del leader libico.
Non meno criticata, è l’imposizione del Franco CFA che riguarda quattordici Paesi africani e che, secondo la Francia, ha lo scopo di proteggere tali Paesi dalle fluttuazioni dei cambi, ma che, secondo altri osservatori, serve unicamente a Parigi, per rimpinguare i propri fondi e coprire con questi il debito pubblico.
Un altro sconcertante episodio, verificatosi recentemente nell'Alta Savoia, dove un ex agente dei servizi segreti francesi è stato ucciso a sangue freddo con cinque colpi di pistola, lascia intravvedere inquietanti coinvolgimenti dell’Eliseo nel tentativo di assassinio di un esule Congolese, avversario dell’attuale presidente del Congo-Brazzaville, Denis Sassou-Nguesso sostenuto da Parigi. Insomma, pare proprio che alla potente economia transalpina, non manchino cadaveri nell'armadio.
By Africa Express


Esseri umani destinati al traffico internazionale
Esseri umani destinati al traffico internazionale

2 aprile 2019
KENYA. CROCEVIA DEI TRAFFICI DI ESSERI UMANI E IL BUSINESS DELL’ESPIANTO DI ORGANI

 

Lo rivela il DCI (Directorate of Criminal Investigation) di Nairobi che alcuni giorni fa ha bloccato un veicolo che trasportava otto cittadini, eritrei tra i diciassette e i trentun anni, destinati al mercato asiatico di esseri umani. Il mezzo è stato bloccato in una remota zona del samburuland, nei pressi di Wamba, nel distretto di Isiolo. L’operazione ha portato all'arresto di tre trafficanti che gestivano l’indegno business: Alhabass Ali, Abdi Hassan, e Ibrahim Adan, mentre un quarto complice è riuscito a dileguarsi. L’azione della polizia keniota è stata resa possibile grazie ad una soffiata, conseguente a un precedente evento verificatisi a Kakamega, dove venivano liberate trentotto donne di età tra i diciannove e i quarantacinque anni.
Con questi arresti, il Kenya si riconferma come un nevralgico punto di smistamento del traffico internazionale di esseri umani che hanno come destinazione il mercato asiatico e quello di alcuni opulenti Paesi mediorientali, dove il carico scoperto a Kakamega era appunto diretto e la cui organizzatrice era una donna africana di trentatré anni (di cui non è stato rivelato il nome) che è stata arrestata nel corso dell’operazione. Il miraggio e la promessa di una vita agiata, che quasi mai si realizza nella realtà, induce uomini e donne, oggetto di questo commercio, ad affidarsi a criminali senza scrupoli che non raramente li assoggetteranno poi ad una vera e propria forma di schiavitù, esercitata attraverso ricatti e intimidazioni.

Un’altra delle raccapriccianti conseguenze di questa tratta, è che essa – soprattutto a danno degli elementi più giovani – alimenta anche il lucroso traffico di organi, destinati a vari Paesi in cui corruzione e normative carenti, ne favoriscono l’attuazione. Le povere nazioni africane, asiatiche e sud americane, rappresentano le principali fonti di questa merce umana. Gli organi più richiesti dall'illecito mercato sono il fegato e il rene, che possono essere rispettivamente venduti a 43 mila e 85 mila euro. Secondo i dati forniti dall'agenzia delle Nazioni Unite IOM (International Organization for Migration), solo nel gennaio scorso, sono stati eseguiti nel mondo, ben 91 mila trapianti illegali.
I prezzi degli organi, nel mercato nero, hanno tuttavia un’estrema flessibilità, misurata sull'urgenza e sulle condizioni economiche del compratore e si possono anche raggiungere i 200 mila euro per un rene. Naturalmente, ben poco di queste somme resterà nelle tasche del donatore, quando questi non venga addirittura ucciso per procurarsi gli organi necessari senza dover erogare alcun compenso. La battaglia contro questo traffico è certamente impari, perché si scontra con la disperata urgenza del richiedente – che vedendo a rischio la propria vita è pronto a tutto – ed è aggravata anche dal fatto che alcuni Paesi, consentono o tollerano, la vendita di organi tra privati.
Il primo a farlo è stato il piccolo e fiorente stato di Singapore, ma in quanto a fornitori, c’è anche la Cina che preleva forzatamente organi ai propri carcerati, senza il loro consenso. Fino ad ora, malgrado l’incessante opera di organismi internazionali e di vari NGO, il traffico di esseri umani e di organi destinati al trapianto, in luogo di ridursi continua vertiginosamente a crescere. L’unica soluzione sarebbe debellare la povertà che affligge una larga parte del pianeta, ma questo è un ben altro discorso con migliaia d’implicazioni, difficilmente sintetizzabili nelle poche righe di un articolo.
By Africa Express


Sfilata del “gay pride” in Kenya
Sfilata del “gay pride” in Kenya

25 marzo 2019
KENYA. RICONOSCIUTE LE ASSOCIAZIONI DI GAY, LESBICHE E TRANSESSUALI

 

Una decisione a lungo attesa dalle organizzazioni dei diritti umani, ma ancora fortemente osteggiata dalla gran parte della popolazione. Lo scorso venerdì, la Corte d’Appello di Nairobi, ha confermato la sentenza emessa in primo grado che legittimava le associazioni di gay e transessuali a essere regolarmente registrate in Kenya. La pronuncia è stata emessa con il rigetto della mozione presentata dal coordinamento centrale delle NGO nazionali, che chiedeva alla Corte di mantenere le associazioni omosessuali al di fuori della legalità.

Sentenza, questa, indubbiamente storica, pur se raggiunta con molta fatica e con il dissenso di due giudici su cinque. Daniel Musinga e Roselyn Nambuye, hanno, infatti, sostenuto che l’Alta Corte non ha giurisdizione nel merito e questa sentenza “è una scelta infernale che distrugge i valori culturali della Nazione”, ma i loro colleghi; Philip Waki, Asike Makhandia e Martha Koome, la ritengono invece in linea con il disposto costituzionale che garantisce pari dignità e pari diritti a tutti i cittadini.

Il dibattito sulla legittimità degli orientamenti sessuali in Kenya, è una questione che si protrae da molti anni e che solo recentemente ha iniziato a mostrare alcuni segnali di apertura. Il film “Rafiki”, che narrava di un amore lesbico ed era stato prodotto localmente, era stato ammesso al festival di Cannes, ma si era visto proibire la distribuzione nel Paese. Una settimana fa questa proibizione è definitivamente caduta e la sentenza che oggi autorizza l’associazionismo gay, è certamente un altro e importante passo verso l’allineamento del Kenya alle posizioni assunte in larga parte dai Paesi più progrediti.

Tuttavia, l’ostilità popolare verso gay, lesbiche e transessuali, resta molto accesa nel Paese e questa sentenza l’ha ulteriormente incattivita. Inoltre, la legislatura vigente, considera ancora i rapporti omosessuali, reati che prevedono – vecchio retaggio vittoriano – l’arresto e la detenzione. Pertanto, fino a quando il parlamento, non modificherà i disposti di legge in merito, si realizzerà il paradosso che i gay possono associarsi, ma non possono soddisfare le proprie tendenze sessuali, in ragione delle quali si sono appunto associati. Allo stato attuale, sembra però che il parlamento non sia per nulla disposto a legittimare tali atti. Per altro nel 2014 il parlamento keniota, tra le proteste delle deputate donne, ha legalizzato la poligamia.
Si è quindi raggiunta una vittoria di Pirro? Eric Gitari, co-fondatore della NGLHRC (National Gay and Lesbian Human Rights Commission), che ha presentato la petizione all'Alta Corte di Giustizia, si dice fiducioso. Del resto i grandi traguardi si raggiungono a piccoli passi, superando a uno a uno, i molti ostacoli che si frappongono al traguardo finale. “Questa decisione della Corte, non rappresenta solo una vittoria della nostra associazione – ha detto Gitari – ma una vittoria di tutti i nostri connazionali, che vede i fondamentali principi sui diritti umani prevalere sui troppi pregiudizi”.

A fornire conferma che si tratta di una vittoria – almeno per ora – parziale, sono gli stessi giudici che si sono espressi in favore della sentenza. “Si tratta di garantire i diritti umani dei Gay e delle lesbiche – hanno detto – impedendo che siano illecitamente discriminati, ma questo non legittima per nulla atti contro natura, che restano proibiti dal codice penale e come tali perseguibili ai sensi di legge”.
By Africa Express


20 marzo 2019
MOZAMBICO. MILLE MORTI PER IL CICLONE IDAI

 

Nel Mozambico centrale, per la furia del ciclone tropicale Idai, sono stati crollati ponti, strade e altre infrastrutture lasciando solo desolazione. Ora l’area colpita è a rischio colera, malattia endemica in tutta la zona
“Sembra che ci siano almeno mille morti. Il Paese sta vivendo un vero disastro umanitario di grandi proporzioni”. Sono le dichiarazioni, rilasciate a Radio Moçambique, da Filipe Nyusi, presidente del Mozambico che ha sorvolato in elicottero la città di Beira e le province di Manica, Zambezia e Sofala.


Devastazione e paura create dal micidiale impatto del ciclone Idai che tra il 14 e il 15 marzo ha colpito l’ex colonia portoghese, Malawi e Zimbabwe. Secondo la Croce Rossa il 90 per cento della città portuale di Beira, seconda per importanza del Mozambico è distrutta. Ufficialmente sono stati contati 84 morti ma è probabile che le supposizioni del Capo dello stato mozambicano siano una pesante realtà.
Per la furia dell’acqua e dei venti che hanno raggiunto i 190 km/h sono stati abbattuti ponti, strade, scuole e altre infrastrutture lasciando solo desolazione. La mancanza di energia elettrica e i danni alle vie di comunicazione e delle telecomunicazioni rendono difficili i soccorsi. Ma non è solo la città di cemento che è stata rasa al suolo.
Il peggio è successo nelle periferie cittadine con le povere abitazioni di lamiera e nei modesti villaggi con le case di fango e paglia spazzate via dalla furia del ciclone. Un gigante che aveva un raggio di 500 km.
Dopo essere passato su tre delle dieci province mozambicane Idai è arrivato fino in Zimbabwe e Malawi, ad ovest del Mozambico. La furia del ciclone si è abbattuta su un territorio di quindicimila kmq dove ha distrutto villaggi, raccolti e tutto ciò che ha incrociato nella sua strada. A peggiorare la situazione anche le esondazioni dei fiumi Buzi e Punguè.
“Sono scomparsi interi villaggi – ha dichiarato Nyusi – le comunità sono isolate e i cadaveri galleggiano sulle acque”. Secondo il World Food Programme (WFP), il programma alimentare mondiale dell’ONU, in Mozambico Idai ha colpito 1,7 milioni di persone mentre in Malawi ci sono 920 mila profughi e sono stati contati 122 decessi.
Il WFP prevede di portare aiuti alimentari a circa 500 mila persone e ha iniziato la distribuzione di 20 tonnellate di cibo. La Commissione Europea, venerdì scorso, ha annunciato lo stanziamento iniziale di 3,5 milioni di euro per gli aiuti d’emergenza.
Ospedali e posti sanitari di Beira e nelle aree colpite sono distrutti o inagibili. Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm: “Sono stati colpiti i posti in cui i nostri volontari lavorano ogni giorno. Se non interveniamo subito rischiamo il diffondersi del colera, che già l’anno scorso ha colpito la zona ed è endemico nell'area”.

In Zimbabwe, è stato dichiarato lo stato di emergenza nel Manicaland, regione confinante con il Mozambico dove la città più colpita è Mutare. Si contano 98 morti e oltre 200 dispersi. Qui arriva il “corridoio di Beira” via di comunicazione strategica lunga 300 km e sbocco al mare dell’ex colonia britannica.

Idai, formatosi lo scorso 9 marzo a nord del Canale del Mozambico, è il quarto ciclone tropicale dell’area in due mesi. Prima di lui, nel 2008, nelle province della Zambezia e Nampula, c’era stato Jokwe, di categoria 3, che aveva causato 17 morti.
By Africa Express


Renee Bach con una bambina africana
Renee Bach con una bambina africana

28 febbraio 2019
UGANDA. MISSIONARIA AMERICANA SOSPETTATA DELLA MORTE DI CENTINAIA DI BAMBINI

 

La denuncia è partita da due mamme ugandesi, attraverso la "Women Probono Initiative", associazione che offre tutela legale a donne che subiscono abusi. Le due madri, Zubeda Gimbo e Annet Kakai, hanno visto morire i loro bambini dopo le “cure” della missionaria statunitense Renee Bach.

Renee, giovane diciannovenne piena di buone intenzioni e carità cristiana, nel 2010 ha deciso andare in Africa per salvare i bambini denutriti. Ha creato l’ONG Serving His Children (SHC), con sede in Virginia, USA. Oggi, nove anni dopo la fondazione dell’ONG, si sospetta che sia colpevole della morte di almeno un centinaio di bimbi – ma si stima che siano addirittura 600.
Giovane, bella e bionda, un viso pulito, un bel sorriso, con il camice bianco e lo stetoscopio, Renee appariva come un medico. Con il suo look dava fiducia alle mamme che avevano bimbi malati o denutriti. Un angelo bianco che avrebbe salvato la vita del loro figlio.
Secondo le testimonianze raccolte la giovane missionaria convinceva le mamme a lasciare gli ospedali ugandesi e portare i loro bimbi nel suo Centro dove venivano “curati”. Tutto questo accadeva a Masese, nel distretto di Jinjia, una cittadina sulle rive del lago Vittoria, nel sud dell’Uganda a un centinaio di km a est della capitale Kampala.

Tra i testimoni c’è un’infermiera americana, che nel 2011 lavorava per SHC. Dopo nove mesi ha deciso di licenziarsi per le “decisioni cliniche” prese da Renee la quale aveva anche asserito che “Sentiva che Dio le avrebbe detto cosa fare per un bambino”.
“Per le azioni cui ho assistito nel Centro e ciò che Renee mi ha raccontato – dice la testimone – negli Stati Uniti, sarebbe stata arrestata. Lavorava senza la guida di un medico e dava ordini al personale infermieristico”.
Senza la presenza di un medico, ai bambini venivano fatte trasfusioni di sangue, inserimento di sondini naso gastrici, iniezioni intramuscolari ed endovenose. Renee faceva prescrizioni e dosaggi di farmaci per via orale, intramuscolare e per via endovenosa.

Anche un’altra americana che ha una formazione in scienze della salute ha lavorato per SHC nel 2010. Ha visto morire una bambina sottonutrita. Renee, che non aveva alcuna conoscenza del cibo utilizzato per la riabilitazione, l’ha alimentata normalmente invece che attraverso un processo di nutrizione riabilitativa.
Quando è svenuta le ha fatto un’iniezione. Poco dopo la bambina è morta. “Il decesso – dice la testimone – è stato causato probabilmente da improvvisi cambiamenti negli elettroliti che aiutano il corpo a metabolizzare il cibo”.

Un’altra testimonianza statunitense, parla di Renee che faceva assumere ai bimbi medicine per la tubercolosi, farmaci antiretrovirali e per l’epilessia, antibiotici e altri medicinali.

La WPI accusa la missionaria e SHC anche di “aver violato i diritti umani, il diritto alla salute dei bambini, il diritto alla vita, il diritto ad essere liberi dalla discriminazione sulla base della razza e della condizione economica sociale e il diritto di dignità, trattamenti inumani e degradanti”.
La prima udienza del processo contro Renee Bach e SHC è fissata per il 12 marzo prossimo, al Tribunale di Jinjia. Intanto Renee, che dovrà difendersi da accuse pesantissime, è sparita.
Da Kampala, il collettivo “No White Saviors“, gruppo che vuole “decolonizzare le missioni e lo sviluppo”, ci ha riferito che la missionaria, alla fine di settembre scorso, è tornata negli Stati Uniti. Per adottare un bambino attraverso il sistema di adozione americano.
By Africa Express


Donne incinte in Africa
Donne incinte in Africa

23 febbraio 2019
I GRANDI MALI DELL’AFRICA: PIETISMO, CORRUZIONE E NATALITÀ SMISURATA

 

Sarà causa dello sconsiderato pietismo, sarà causa dell’ignavia occidentale verso le corrotte leadership che la dissanguano, ma sta di fatto che in Africa, il concetto di responsabilità si fa sempre più fievole, sostituito dalla convinzione che il mondo debba provvedere ai suoi bisogni. A prescindere dal fatto che questo sia o no praticabile, il vero problema è che proprio in questa attesa s’insediano i germi dell’arretratezza e dell’incapacità di auto-costruire la propria emancipazione.

Vi sono non poche voci autorevoli che mettono in guardia contro la continua opera di assistenza internazionale, che vede, per contro, la povertà africana crescere in modo inarrestabile. Tra queste, quella degli scrittori Wilbur Smith e Frederick Forsyth, che l’Africa la conoscono bene, ma anche quella dell’economista di origine zambiana, Dambisa Moyo, autrice del libro “La Carità che uccide” (di cui abbiamo già parlato nel "Preambolo") e della giovane italiana Cristine Mariam Scandroglio, originaria della Costa d’Avorio, che dirige l’area provinciale dell’UGL (Ufficio Confederale Politiche Migratorie). Il sindaco di Napoli, De Magistris, ha rifiutato di riceverla, perché, in luogo di favorire l’accoglienza indiscriminata che lui propugna, lei sostiene la necessità di coinvolgere e responsabilizzare con più fermezza i governi africani che sono oggi i principali colpevoli della permanente arretratezza dei propri Paesi.

In tema di responsabilità, non si può neppure sottacere, l’enorme tasso di crescita demografica che affligge l’Africa dove sono messi al mondo milioni di bambini, pur in assenza dei mezzi necessari per accudirli e fornire loro la necessaria scolarizzazione. Il giornalista Paolo Barnard definisce questa incontrollata proliferazione “Una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali”. Nella sua disanima del fenomeno, afferma anche che “Nel suo periodo di fertilità, una donna africana mette al mondo una media di sette figli”. Questo, stando ai dati ONU, significa che “fra trent'anni, più di un miliardo di umani si aggiungeranno alla già stipata terra d’Africa”.
La soluzione che Barnard propone è un’intensificazione dei sistemi contraccettivi e un cambio di rotta della Chiesa cattolica che dovrebbe rimuovere il veto di farne uso. A sostegno di questa tesi, Barnard cita le parole del grande matematico-filosofo-umanista, Bertand Russel: “È assolutamente giusto che Africa e Asia ottengano eguaglianza nella ricchezza con l’Occidente. Ma se si vuole evitare che l’Africa e l’Asia travolgano il mondo con immense popolazioni in estrema povertà, esse dovranno però imparare a mantenere popolazioni numericamente stabili. E se non impareranno a controllare questo, allora inevitabilmente perderanno la loro rivendicazione di eguaglianza economica”.

Paolo Barnard e Bertrand Russell – pur se in epoche lontane tra loro – sostengono tesi certamente condivisibili, ma ai nostri tempi, quando il mondo evoluto ha adottato severe norme che impongono ai genitori di fornire totale assistenza alle proprie progenie, appare assurdo che proprio l’Africa, che subisce i maggiori effetti della sovrappopolazione, non decida di fare altrettanto.

Oltre ai contraccettivi sarebbe necessario introdurre leggi rigorose che responsabilizzino i padri. Le ragazze madri, in Africa, sono un vero esercito e spesso lo stuolo di figli che mettono al mondo, sono di padri diversi, se non spesso sconosciuti alle stesse gestanti. Oggi c’è il test del DNA, basta usarlo per individuare i maschietti che si dileguano non appena la donna, che si e loro concessa, resta incinta. È facile trovarli, basta volerlo fare per imporgli di provvedere a quei figli che hanno contribuito a mettere al mondo o, in caso contrario, si mandino in galera affinché la smettano di mettere incinte ragazze spesso ignoranti e irresponsabili. Una donna può mettere al mondo un figlio l’anno, ma un uomo può diventare padre anche una volta al giorno.

La prova che la natalità in Africa è esplosa a seguito del contatto con la civiltà europea, è rivelata nei rapporti delle autorità coloniali britanniche. In Kenya, secondo tali rapporti, una donna, nell'intero periodo di fertilità, dava alla luce una media di sette figli. Il dieci per cento di questi, erano subito dati in pasto alle iene, perché nascevano con parto podalico o presentavano malformazioni o segni ritenuti di cattivo auspicio; un altro dieci per cento, moriva prima di raggiungere i cinque anni per malattie e infezioni; un altro dieci per cento, ancora, restava vittima degli animali feroci e infine, circa il venti per cento, era ucciso nei conflitti fra tribù rivali, già nell'età dell’adolescenza. Si tratta di dati approssimativi, ma abbastanza attendibili.

Le uccisioni alla nascita, previste dalle ferree tradizioni tribali, portarono a una massiccia esecuzione delle nutrici, alle quali le leggi britanniche, imputavano il reato d’omicidio e nel tempo, questa pratica, fu gradualmente abbandonata, ma per quanto il sostenerlo possa apparire cinico, la situazione, presente in Africa prima dell’occupazione coloniale, unita alla molto bassa aspettativa di vita, faceva si che la popolazione del Paese si mantenesse a un livello pressoché uguale: tanti ne nascevano, tanti ne morivano. Oggi, non è certamente proponibile il ripristino di quelle abitudini primitive e crudeli, ma il muoversi verso la civiltà e l’emancipazione, significa anche attribuire a ciascun membro della comunità cui appartiene, le responsabilità che gli competono, nel rispetto dei doveri e dei diritti di tutti i suoi membri.
By Africa Express


Pangolino gigante
Pangolino gigante

23 febbraio 2019
UGANDA. CACCIA A 18 VIETNAMITI PER CONTRABBANDO DI AVORIO E SCAGLIE DI PANGOLINO

 

La polizia ugandese sta dando la caccia a diciotto vietnamiti implicati nel contrabbando di avorio e scaglie di pangolino verso l’Asia. Le loro fotografie sono state pubblicate sul quotidiano "New Vision" due settimane fa.

Altri due cittadini del Paese asiatico sono già stati arrestati alla fine di gennaio: sono sospettati di aver importato dal Sud Sudan in Uganda tre container imbottiti di merce illegale. Gli agenti di Ugandan Revenue Authority, hanno monitorato il carico, che era stato portato in un magazzino a Kampala, la capitale dell’Uganda.
Fatta irruzione nell'hangar, gli uomini dell’URA hanno aperto i container e trovato settecentocinquanta pezzi di avorio e migliaia di scaglie di pangolino, nascosti in mezzo a tronchi di albero. Si suppone che il carico provenga da animali della Repubblica Democratica del Congo.
“È risaputo che l’Uganda è il maggior punto di transito del traffico illecito di specie selvatiche e con questo maxi sequestro ne abbiamo avuto un’ulteriore prova”, ha spiegato il ricercatore belga Kristof Titeca.

I pangolini sono attualmente i mammiferi più venduti nel mondo; vengono cacciati per la carne e per farne prodotti della medicina tradizionale in Africa, e recentemente è stato scoperto un crescente commercio vietato di pangolini africani in alcuni Paesi dell’Asia.
Il loro prezzo è aumentato del centocinquanta per cento negli ultimi trent'anni e il team di ricerca internazionale dell’università di Sussex e di Wildlife Conservation Society (Wcs) ha denunciato nel 2017 che tra 0.4 e 2.7 milioni di pangolini vengono catturati annualmente nelle foreste di Camerun, Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale, Gabon, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica del Congo.
Il pangolino è un animale difficile da vedere, figuriamoci da monitorare. Sono mammiferi notturni e di notte stanno sottoterra o in cima agli alberi, non emettono suoni di richiamo. I loro nidi sono piccoli e non lasciano tracce facilmente riconoscibili. Dunque è difficile sapere quanti esemplari ne esistano ancora nell'Africa centrale, ha fatto sapere Daniel Ingram, dell’università di Sussex.
Hanno il corpo ricoperto da squame cornee, costituite da cheratina, che si sovrappongono l’una all'altra, formando una sorta di “corazza a piastre”. Solo il ventre, la parte interna delle zampe, il muso e le parti laterali del capo sono scoperti. La corazza è costruita in modo da permettere all'animale di appallottolarsi se spaventato.

Malgrado sia vietato il traffico di avorio, i bracconieri sono ancora molto attivi in tutto il continente africano. La Cina è il Paese maggiormente interessato alle zanne d’elefante. E, secondo il World Wide Fund for Nature, attualmente ci sono poco più di quattrocentoquindici mila pachidermi in Africa.
Le pene riservate ai bracconieri e ai trafficanti sono diventate molto severe in quasi tutti gli Stati africani. Ricordiamo qui che Yang Fenglan, una signora cinese soprannominata “regina dell’avorio”, rea del contrabbando di settecento zanne di elefante, è stata condannata a quindici anni di carcere da un tribunale della Tanzania.
By Africa Express


Anas Aremeyaw Anas con una delle sue maschere
Anas Aremeyaw Anas con una delle sue maschere

21 febbraio 2019
GHANA. IL GIORNALISTA SOTTO COPERTURA CONTRO I CORROTTI AFRICANI

 

Anas Aremeyaw Anas è un giornalista investigativo ghaneano pluripremiato. Lavora sempre sotto copertura e rischia la vita tutti i giorni. Si presenta in pubblico con una semplice maschera africana composta da fili di perline di vetro che gli coprono il viso. In Ghana, e un tutta l’Africa sub-sahariana, filma la corruzione e la rende pubblica.

Il suo motto è “Name, Shame, Jail” (nome, vergogna, galera) perché così si muove Anas Aremeyaw Anas: cercare il nome dei criminali e dei corrotti, svergognarli con prove filmate e mandarli in galera.

Nato negli anni Settanta, Anas rischia la vita ogni giorno. Nessuno ha mai visto il suo volto ma molti – tra i criminali e corrotti di tutta l’Africa sub-sahariana – vorrebbero sapere chi è. Per farlo fuori.

È un giornalista investigativo che lavora sempre sotto copertura. Partecipa anche a conferenze e convegni e viene invitato per essere premiato per il suo lavoro. Si presenta in pubblico con una semplice maschera africana composta da fili di perline di vetro che gli coprono il viso ma gli permettono di vedere il pubblico.
Di premi ne ha vinti tanti. Dal 2004 ad oggi il suo lavoro è stato riconosciuto in tutto il mondo, dal Sudafrica alla Svizzera, dal Canada alla Francia, dagli Stati Uniti al Regno Unito e al Libano. E in Ghana. Una cinquantina di riconoscimenti e premiazioni, ultima delle quali in India nel 2018.

Le sue indagini sotto copertura sono principalmente sulle questioni relative all'abuso dei diritti umani, in particolare l’abuso sui minori, e alla corruzione. Attraverso la Tiger Eye PI, di cui è a.d., il giornalista realizza documentari di denuncia che fanno il giro del mondo.
Anas lavora in team, con una squadra di professionisti efficienti e con alte tecnologie. Tra le sue indagini la tratta di ragazze dall'Asia al Ghana per la prostituzione, gli albini che in Tanzania vengono adescati e venduti, mutilati o ammazzati per rituali di stregoneria. Oltre quaranta lavori alcuni dei quali in collaborazione con BBC e al Jazeera.
Uno dei suoi lavori sotto copertura che hanno creato il panico tra le istituzioni ghaneane, è stato l’indagine sulla corruzione nella magistratura. Definito il più grande scandalo che abbia colpito il Paese africano, il documentario “Ghana in the Eyes of God” mostra riprese video dove una trentina di magistrati corrotti prendono mazzette in cambio di assoluzioni. E per questo è stato citato in giudizio.
Ma lo scorso 16 gennaio, Ahmed Hussein-Suale, giornalista investigativo del team di Anas, è stato assassinato a colpi di pistola nella sua auto. Aveva indagato sotto copertura sulla corruzione del mondo del calcio ghaneano mostrata nel documentario-film “Number 12”.

In Ghana, e in molti Paesi del grande continente africano, Anas è considerato un eroe ed è diventato un mito. Gli automobilisti della capitale, Accra, attaccano alle loro auto gli adesivi con la massima del giornalista che suona come un avvertimento “Anas is watching. Do the right thing” (Anas ti guarda. Fai la cosa giusta) mentre sui muri si possono vedere graffiti e scritte che inneggiano al loro eroe. Quello che manda i corrotti in prigione.
By Africa Express


Epidemia di morbillo in Madagascar
Epidemia di morbillo in Madagascar

16 febbraio 2019
MADAGASCAR. EPIDEMIA DI MORBILLO

 

Almeno novecentoventidue persone, per lo più bambini e giovani adulti, sono morti dallo scorso ottobre in Madagascar a causa di una terribile epidemia di morbillo.
Il numero delle vittime si riferisce a quelli ufficialmente registrati, ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è convinta che questi dati non corrispondono alla realtà: i decessi a causa del morbillo sono sicuramente molti di più, come pure i casi infetti, che, ufficialmente risultano essere sessantaseimila.

Il morbillo è una malattia esantematica altamente contagiosa, che, in alcuni casi può portare alla morte o causare perdita della vista, dell’udito, o/e danni cerebrali permanenti.
Lo Stato insulare è tra i più poveri di tutta l’Africa con un alto tasso di malnutrizione infantile, che, ovviamente, rende i bambini che ne sono affetti molto più vulnerabili.

Lo scorso anno il cinquantotto per cento dei residenti è stato vaccinato contro il morbillo, ma allora il programma prevedeva una sola dose. In risposta all'ultima epidemia sono state sottoposte all'immunizzazione 2,2 milioni di abitanti su una popolazione di 25,7 milioni. Le autorità malgasce hanno pianificato un programma di vaccinazioni standard di due dosi entro la fine dell’anno, cioè dovrebbe comprendere anche un richiamo perché l’immunizzazione sia davvero efficacie.
By Africa Express


Una delle numerose fosse comuni che vengono tutt'ora alla luce nel Somaliland
Una delle numerose fosse comuni che vengono tutt'ora alla luce nel Somaliland

10 febbraio 2019
SOMALILAND. I MASSACRI DELL’EX DITTATORE SIAD BARRE

 

L'ex presidente e dittatore della Somalia dal 1969 al 1991 Mohammed Siad Barre giunse al potere con un colpo di stato deponendo il presidente ad interim, Mukhtar Mohamed Hussein e attuando – almeno inizialmente – un sistema che, pur se autoritario, attuò alcune importanti iniziative a favore della popolazione: venne resa gratuita l’assistenza sanitaria, l’educazione scolare e fu decretata l’uguaglianza di tutti i cittadini. Fino agli inizi degli anni ’70 queste scelte valsero a Siad Barre un esteso consenso popolare che non coinvolgeva però il territorio a nord del Paese: il Somaliland, che fin dal 1962 reclamava a gran voce la propria indipendenza da Mogadiscio.

Questo dissenso apparve intollerabile a Siad Barre che istituì una feroce polizia segreta e si affidò alla delazione, alla tortura e all'eliminazione fisica, per stroncare con la forza ogni tentativo di ribellione nei confronti della sua leadership.
Dal 1983 al 1987 il governo italiano, retto dal socialista Bettino Craxi, diede un costante supporto al dittatore somalo, che prestava servizio nell'Arma dei Carabinieri con il grado di sottotenente, a tenere il proprio Paese in una morsa di terrore.

Quest’anno, come ricorda un articolo pubblicato sul periodico Internazionale del dicembre scorso, si compie il 30° anniversario di uno dei più efferati massacri attuati dal regime di Siad Barre contro i secessionisti dell’etnia Isaak, del Somaliland. L’eccidio è ricordato come l’Olocausto di Hargheisa, che è l’attuale capitale del Somaliland, uno Stato di fatto indipendente ma la cui indipendenza non è riconosciuto dalla comunità internazionale.


Le forze di repressione somale, massacrarono decine di migliaia di persone e la città di Hargheisa fu quasi completamente distrutta. Si stima che, tutt'oggi, nella periferia di Hargheisa, vi siano oltre duecento fosse comuni, tali da far meritare alla zona, il nome di “Valle della morte”. Ogni tanto, a seguito di piogge particolarmente insistenti, ne viene alla luce una, rivelando scenari raccapriccianti. Stando all'articolo dell’Internazionale, si presume che in soli due anni – tra il 1987 e il 1989 – gli sgherri di Siad Barre, abbiano ucciso più di duecentomila persone, pur continuando a ricevere supporto e finanziamenti da vari Paesi occidentali (tra cui l'Italia) e, soprattutto dagli Stati Uniti d’America governati da Ronald Reagan e poi da George Bush senior.

Nel gennaio 1991 una rivolta costrinse Mohammed Siad Barre alla fuga. Il dittatore si rifugiò in Nigeria dove, quattro anni dopo morì a Lagos all'età di settantacinque anni. pochi giorni dopo aver lasciato per sempre Mogadiscio, il vecchio leader pronunciò una frase davvero profetica: “Dopo di me, la Somalia non sarà mai più governabile”. Infatti, quel gennaio 1991 segnò l’inizio della guerra civile e dall'ora la sventurata ex colonia italiana, ha conosciuto solo distruzioni, eccidi ed estrema povertà, favorendo l’emergere dei terroristi di Al Shabaab e instaurando nel Paese un sistema di assoluta e sanguinaria anarchia.


Stregone africano compie un rito propiziatorio
Stregone africano compie un rito propiziatorio

31 gennaio 2019
TANZANIA. CORPI DI DIECI BAMBINI MUTILATI PER RITI DI STREGONERIA

 

Da dicembre erano scomparsi dalle loro abitazioni nel distretto di Njombe, zona sud occidentale della Tanzania, e la scorsa settimana c’è stato il macabro ritrovamento dei loro corpi orrendamente mutilati e privati perfino degli archi dentali.
Si tratta di bimbi di età compresa tra i sette e i dieci anni ed è inimmaginabile che un essere umano adulto, trovi dentro di sé la brutale spietatezza per pianificare e compiere simili atrocità.

La Tanzania non è nuova a queste raccapriccianti esecuzioni, frutto di una profonda ignoranza, totalmente dominata da ataviche superstizioni. Uno dei loro target preferenziali sono gli albini, che tutt'oggi vengono uccisi e smembrati perché si ritiene che le loro ossa e alcuni loro organi, se usati nel corso di un rito tradizionale, sviluppino un alto potere propiziatorio. Fortunatamente c’è un’isola nel lago Vittoria che oggi li accoglie, sottraendoli al rischio che li fa vivere nell'angoscia.

In queste mostruose pratiche – del tutto anacronistiche nella società planetaria del terzo millennio – la Tanzania non è sola ma eguagliata da un po’ tutti i Paesi africani, in particolare da quelli confinanti, come Kenya e Mozambico. Benché ciascuno di questi Paesi segua proprie “culture” nell'espletamento dei riti di stregoneria, gli effetti e le azioni che ne sono il frutto, restano caratterizzati dalla stessa e disumana ferocia. Mentre in alcune parti del Kenya sopravvivono i sacrifici umani per propiziare un buon raccolto, in Mozambico si da la caccia agli uomini calvi i cui organi sono ritenuti potenti amuleti.

A seguito di quest’ultimo ritrovamento, ancora più atroce perché riguarda innocenti bambini, il vice ministro tanzaniano della sanità, Faustine Nduguille, ha dichiarato: “I nostri sforzi sono ora rivolti a identificare gli esecutori di questo crimine e a promuovere una vasta sensibilizzazione popolare, affinché queste ripugnanti e inutili credenze, siano definitivamente abbandonate”. Un intento, questo, indubbiamente lodevole, ma dalle scarse probabilità di essere realizzato.
È la stessa classe dirigente dei Paesi menzionati, che si affida ai witch doctor (stregoni) per conseguire successi politici e vincere il confronto con gli avversari. E non si tratta solo di figure minori. A queste ritualità ricorrono anche titolari di preminenti leadership. Per averne conferma, basta guardare a quanto accaduto durante l’ultima campagna elettorale che si è svolta in Kenya o ricordare come i defunti leader della Repubblica Centrafricana e dell’Uganda, Bokassa e Idi Amin Dada, secondo alcuni racconti, si cibassero del cuore dei nemici uccisi, nella convinzione di potersi impossessare della loro forza.

L’Africa intera è dominata da queste rovinose credenze che sono uno dei principali ostacoli a una sua emancipazione e ciò nonostante, i suoi governi restano riluttanti a prendere adeguate misure che mettano definitivamente al bando tutti gli imbroglioni e sedicenti santoni, negromanti e guaritori, che prosperano sull'ingenuità popolare, sempre più asservita alle loro sanguinarie prescrizioni.
By Africa Express

Vedi anche: Stregoneria in Kenya - Cannibalismo in Kenya


Ufficiali di polizia sulla scena dell'esplosione avvenuta a Nairobi il 26 gennaio 2019 davanti al Smothers Restaurant lungo Tom Mboya street
Ufficiali di polizia sulla scena dell'esplosione avvenuta a Nairobi il 26 gennaio 2019 davanti al Smothers Restaurant lungo Tom Mboya street

27 gennaio 2019
KENYA. ANCORA UNA BOMBA ESPLODE NEL CENTRO DI NAIROBI

 

Notizie contrastanti si sono avvicendate a partire dalla scorsa notte sull'esplosione verificatasi nella centralissima Tom Mboia street, nei pressi del Cinema Odeon a Nairobi. L’ultima versione fornita dalla polizia, riferisce che un uomo dai tratti somali ha reclutato Joseph Okinyi che stazionava davanti a un ristorante fornendo ai passanti, servizi di trasporto con un carrello a mano. L’uomo consegnava a Okinyi un pacco di cartone affinché lo trasportasse dalla Latema road al Cinema Odeon. Appena consegnato il pacco, il cliente, chiedeva al trasportatore di attenderlo un attimo mentre lui andava a recuperare il proprio documento d’identità che aveva dimenticato nel ristorante e, si era appena allontanato, quando il pacco esplodeva ferendo Okinyi e un vicino venditore di giornali.
L’esplosione, già rivendicata da Al Shabaab, è avvenuta in un’area cittadina densamente popolata, dove vi sono fermate di autobus e molte bancarelle locali. Fortunatamente l’esplosivo non era evidentemente stato preparato da mani esperte e la sua potenza si è rivelata limitata, quindi un ordigno improvvisato (IED è l'acronimo in inglese). Diversamente avrebbe potuto provocare molte più vittime.
Solo il giorno prima, l’ambasciata americana di Nairobi aveva messo in guardia le autorità del Kenya sulla possibilità di attentati. Dopo questo ultimo episodio, a matrice terroristica, la tensione in città e in tutto il Paese è salita alle stelle, essendo recentissimo l’attacco all'Hotel Dusit di Westland del 15-16 gennaio 2019, rivendicato da Al-Shabaab, che ha causato la morte di un ancora controverso numero di persone, tra cui i presunti terroristi che ne sono stati gli esecutori.


La volontaria ventitreenne Silvia Romano, fotografata sulla spiaggia di Likoni, rapita due mesi fa nel villaggio di Chakama
La volontaria ventitreenne Silvia Romano, fotografata sulla spiaggia di Likoni, rapita due mesi fa nel villaggio di Chakama

25 gennaio 2019
KENYA. SUL RAPIMENTO DI SILVIA ROMANO BOCCHE CUCITE MENTRE LE RICERCHE ANNASPANO

Clicca qui per tutti i precedenti articoli sul rapimento

 

La famiglia e la Farnesina preferiscono il silenzio.
Sono passati più di due mesi dal rapimento della "cooperante" milanese Silvia Romano e le trionfalistiche dichiarazioni della polizia keniota, rilasciate all'indomani dell’evento, si sono rivelate per quello che erano: grossolane e avventate boutade, non supportate da alcun rilievo oggettivo. Oggi, l’incresciosa vicenda di cui Silvia è rimasta vittima, resta avvolta in un plumbeo e angoscioso mistero. I massicci arresti effettuati, che pareva comprendessero anche uno dei presunti rapitori, hanno prodotto un macroscopico nulla. Tacciono i media, tace la Farnesina e tacciono o sproloquiano le autorità locali. Un silenzio inquietante pieno di interrogativi.
Il silenzio è una strategia. Spesso giusta, come è stato per molti ostaggi salvati dai negoziati riservati e dai riscatti mai confessati. Talvolta inutile, anzi controproducente, come fu per il povero Giovanni Lo Porto e come stanno dimostrando i desaparecidos ormai persi nella memoria: il bresciano Sergio Zanotti, rapito fra Siria e Turchia nell'aprile 2016; il missionario cremonese Luigi Maccalli, preso in Niger lo scorso 18 settembre; padre Paolo Dall’Oglio, sequestrato a Raqqa cinque anni e mezzo fa.
Di questi italiani si torna a parlare solo quando ne rapiscono altri, ma a tutti i familiari viene chiesto dal governo italiano sempre, immancabilmente, di tacere.
Per Silvia Romano, al silenzio italiano s’è contrapposto in queste settimane la loquela keniota, incontenibile, spesso fuori luogo. Dietro ogni svolta annunciata, c’è stato regolarmente uno schianto contro il muro del nulla: capi della polizia prodighi d’annunci («siamo vicini!»), di rassicurazioni («è viva!»), d’indicazioni («è ancora in Kenya!»), il tutto senza mai un elemento di prova che andasse oltre il proclama. Investigatori ora rimossi, ora richiamati. Dichiarazioni che non dicevano molto e qualche agente che consigliava, addirittura, di ricorrere agli stregoni e alla magia nera. Dispiego di droni che nessuno ha mai visto, di elicotteri che decollavano solo per trasportare le autorità locali. Decine d’arrestati, rilasciati in poche ore.
L’ultima speranza d’una «svolta» viene dalle parole del procuratore di Nairobi, Noordin Haji, che a una delegazione italiana d’avvocati s’è in realtà limitato a manifestare l’intenzione di «procedere in maniera più decisa» nelle ricerche. Stiamo a vedere. Per adesso, è emerso solo il pasticcio delle indagini. Con cinquanta giorni di ritardo, le autorità si vantano d’avere messo il coprifuoco in un’area di 40 mila km quadrati com'è la valle del fiume Tana, abitata qua e là solo da contadini e pastori, dominata da grandi clan familiari che diffidano della polizia, non collaborano e non si sognerebbero mai di rompere l’omertà. Gli investigatori sono sicuri che la banda con l’ostaggio non sia emigrata in Somalia. Ci sono 700 km di confine e solo quattro punti di controllo, andare di là è la cosa più semplice. E infine, ricordate i tre ricercati, «gli autori materiali del sequestro a Chakama», sui quali il governo africano aveva messo una taglia di quasi 25 mila euro? Il figlio d’uno di loro, Yusuf Kuno Adan, dice che in realtà suo padre è morto sei mesi fa e ha mostrato in tv il certificato del decesso. Non è detto che sia autentico, perché nei municipi kenioti è facile pagare pochi scellini per avere questi documenti, ma la notizia non è stata mai smentita.
Ma allora in Kenya su che cosa indagano, se stanno indagando? E su che cosa si tratta, se si sta trattando?

Intanto, lo scorso giovedì, la polizia del Kenya ha tratto in arresto, il ventiquattrenne milanese Gian Marco Duina, anche lui "cooperante", trovato, insieme all'amica Jessica Todaro, mentre girovagava a Ngao, un villaggio del Tana River, considerata zona ad alto rischio e soggetta a coprifuoco. I due giovani erano in possesso di semplici visti turistici che non consentivano loro di prestare altre attività all'infuori di quella prettamente vacanziera. I due sono stati rilasciati il giorno successivo e ci si augura faranno tesoro di questa sgradevole esperienza.

Il mese scorso, nel pericoloso Burkina Faso, sono scomparsi il padovano Luca Tacchetto e la sua amica canadese Edtith Blais di 30 e 34 anni. Anche loro operavano per conto di una Onlus attiva in Togo, Paese che i due giovani intendevano raggiungere con la proprio auto che, partita da Padova, aveva attraversato Francia, Spagna, Marocco, Mauritania e Mali per raggiungere il Burkina Faso, da cui, dopo una breve sosta, sarebbero ripartiti per la destinazione finale.

Impossibile non rilevare un certa disinvoltura nell'affrontare esperienze di volontariato in Paesi poveri, politicamente instabili e soggetti a continui scontri tribali. Sono oltre trenta gli italiani persone rapite negli ultimi dieci anni mentre si trovavano all'estero. In maggioranza si è trattato di "volontari e cooperanti" di organizzazioni umanitarie, che, pur se animati da lodevoli intenzioni, mostrano una scarsa conoscenza delle problematiche e dei rischi che si accingono ad affrontare.
Per quanto riguarda il Kenya, chiunque venga come "volontario o cooperante", deve essere segnalato alle autorità locali e ottenere l’ufficiale riconoscimento di tale status. Quanto accaduto a Silvia Romano, Gian Marco Luina e Jessica Todaro, legittima dunque, l’insorgere di qualche dubbio sulla superficialità con cui varie ONG, gestiscono l’invio di "volontari e cooperanti" in Kenya, visto che questi sembrano trovarsi allo sbaraglio senza riferimenti né assistenza logistica. C’è il sospetto che Silvia sia entrata in Kenya con visto turistico, cosa che non avrà fatto molto piacere alle autorità keniote.

Va detto inoltre, che la ONG Africa Milele, di cui fa parte Silvia Romano collaborava con la signora Tiziana, contitolare del bar-ristorante Karen Blixen di Malindi, che in realtà si chiama Mariangela Beltrami, la quale, insieme al suo convivente e contitolare, Roberto Ciavolella, è oggetto di un procedimento giudiziario presso il tribunale di Latina, per frodi ammontanti a oltre tre milioni di euro, che loro, in qualità di promoter finanziari, avrebbero sottratto a ignari investitori.
In effetti, le investigazioni degli inquirenti nei confronti di Mariangela Beltrami e Roberto Ciavolella, sono iniziate nel 2013 a seguito delle denunce sporte da alcune delle loro vittime, ma poiché i due erano già riparati in Africa, non è stato finora possibile notificare il procedimento a loro carico, peraltro già rinviato più volte e la cui prossima udienza è stata fissata ad aprile di quest’anno. Se quest’ultima notifica non potrà essere effettuata in tempo utile, le imputazioni rivolte ai due indiziati, andranno fatalmente in prescrizione ed è a dir poco curioso che l’Italia, tramite la sua rete consolare, riesca a notificare in Kenya una multa per divieto di sosta e non sia capace, invece, a fare altrettanto per un ben più grave reato di frode, visto che a Nairobi c’è un ambasciatore, Alberto Pieri, così come anche a Malindi c’è un console onorario, Ivan Del Prete, che sanno benissimo dove i due indiziati vivono e lavorano. (Vedi anche: Il console onorario di Malindi mi ha derubato!)
Fino alla sentenza di terzo grado, non si può parlare di colpevolezza, ma la presidente di Africa Milele, Lilian Sora, nel frattempo ha voluto fornire una versione per creduloni: “Sì, avevo sentito delle voci sui gestori del Karen Blixen e la stessa Tiziana mi aveva genericamente parlato di cause legali in corso, ma solo recentemente ho appreso dai media dell’esistenza di procedimenti giudiziari a loro carico in Italia”.
Contrariamente a quanto dichiarano alcune testate giornalistiche, basta mettere piede a Malindi per comprendere che l’humus in cui vive la comunità italiana non è poi “così variegato e complesso che anche chi vi abita da diversi decenni, stenta a sviscerarne tutti i risvolti” . (Vedi: Latitanza nella Ibiza del Kenya - Malindi di Male in peggio!)

Ma sull'incresciosa vicenda di Silvia Romano, c’è la testimonianza di Davide Ciarrapica che a Likoni, a sud-ovest dell'isola di Mombasa, gestisce l’Onlus “Orphan Dream” dove, lo scorso agosto la volontaria milanese aveva fatto la sua prima esperienza in terra d’Africa: “Era un po’ riluttante a seguire le regole, voleva uscire la sera mentre noi chiediamo di non rientrare dopo le dieci perché anche Likoni è una zona molto pericolosa, soprattutto di notte. Ovviamente chi voleva uscire, ne aveva diritto, ma lo faceva a proprio rischio. A Chakama, dove era stata gli ultimi venti giorni, diceva di aver trovato degli amici ed è per questo che ci è voluta tornare, nel suo secondo viaggio, malgrado l’avessimo fortemente sconsigliata, ma lei ha risposto che a Chakama si sentiva libera, poteva uscire con i locali e alzarsi al mattino quando voleva. La mia idea, ma è del tutto personale, è che ad organizzare il rapimento sia stato qualcuno che le era molto vicino, perché sono andati a colpo troppo sicuro. Mi dispiace tantissimo per Silvia e spero che possa essere presto liberata”.
Silvia è una ragazza di ventitré anni, con i desideri e gli entusiasmi della sua età e vuole vivere in pieno la propria giovinezza. Forse a Chakama aveva trovato un “ganzo”, ma non si può sostenere che l’esuberanza giovanile le abbia fatto meritare l’atrocità di cui è stata vittima. Neppure si deve però cadere nell'insulsa retorica della sua santificazione. Silvia è una ragazza normale, né santa, né colpevole.
Purtroppo il nome di Silvia è destinato pian piano a scivolar via, a perdersi nel vento, e la dimenticheremo, povera ragazza.


L’ingresso del complesso alberghiero attaccato dai terroristi islamici Al Shabaab
L’ingresso del complesso alberghiero attaccato dai terroristi islamici Al Shabaab

15-16 gennaio 2019
KENYA. ATTACCO JIHADISTA ALL’HOTEL DUSIT DI NAIROBI. SAREBBERO ALMENO 21 I MORTI

 

Un gruppo di terroristi islamici Al Shabaab hanno colpito senza alcuna pietà a Nairobi nel primo pomeriggio. Un kamikaze a bordo di un autobomba si è fatto saltare in un complesso edilizio, che ospita uno dei ristoranti più alla moda di Nairobi, il tailandese Secret Garden, e il lussuoso albergo Dusit, nel quartiere di Westland.

Il bilancio di morti e feriti non è chiaro perché i terroristi sono ancora asserragliati nel palazzo che hanno occupato, circondato dalle truppe speciali, e sembra che abbiano nelle mani alcuni ostaggi. Continuano poi a sparare nel cortile dalla terrazza da cui si domina tutto il complesso. In due ospedali di Nairobi, l’MP Shah e l’Aga Khan, sono arrivate parecchie ambulanze. Secondo le fonti ospedaliere molti feriti sarebbero in condizioni gravi o irreversibili, e questo potrebbe far salire il numero delle vittime. Secondo i rapporti della polizia le vittime sarebbero 15 (poi elevate a 21), ma gli islamici di Al Shabaab con base in Somalia che hanno rivendicato l’attacco, sostengono di aver ucciso 47 persone. Riscontri attendibili parlano invece di almeno 60 morti. Probabilmente dati certi su questa tragedia, non si otterranno mai.
Una grande esplosione e numerose raffiche di armi da fuoco sono state udite nel complesso composto anche da alcuni uffici che ospitano compagnie internazionali. La deflagrazione, "così forte da scuotere gli edifici", affermano i testimoni, è stata avvertita perfino nella redazione dell’agenzia France Presse, a oltre 5 km di distanza.
Qualcuno degli scampati alla tragedia, dopo essersi messo in salvo, ha raccontato di aver visto uccidere a sangue freddo, e senza alcuna misericordia, persone che imploravano pietà.
Da come è stata perpetrata l’operazione terroristica, l’obbiettivo del gruppo legato ad Al Qaeda era di fare quante più vittime possibili.

Un attentatore è stato arrestato ma i complici sono ancora barricati con vari ostaggi all'ultimo dei sette piani dell’albergo di lusso, dove le teste di cuoio governative stanno conducendo un blitz con le forze di sicurezza americane e britanniche, evacuando man mano i superstiti.
Secondo quanto ricostruito, un kamikaze si è fatto saltare in aria all'entrata facendo da ariete agli altri terroristi, che hanno sparato ai vigilantes e lanciato granate contro alcune auto in sosta all'ingresso, incendiandole. Il commando sarebbe formato in tutto da 6 miliziani (tra cui una donna): «Stiamo conducendo un’operazione a Nairobi», rivendicano gli estremisti islamici di Al Shabaab in un comunicato riportato dalla tv araba Al Jazeera.

L’assalto è avvenuto il giorno dopo il rinvio a giudizio di tre fondamentalisti per il massacro del 2013 al centro commerciale Westgate, in cui persero la vita 63 persone, e nell'anniversario della battaglia di El-Adde: una delle più feroci azioni messe in atto da Al Shabaab contro il Kenya, che il 15 gennaio 2016 si vide spazzare via un intero battaglione dispiegato in Somalia. I terroristi annunciarono di aver giustiziato più di 100 soldati, facendone scempio per le strade, e di averne imprigionati decine. Nel 2015 la strage al campus di Garissa, dove furono uccisi quasi 150 innocenti. A novembre, il sequestro della ventitreenne volontaria milanese Silvia Romano, tuttora nelle mani dei rapitori. Da anni ormai nel paese africano si convive con la paura.

Sconcertanti le rassicurazioni della stampa locale: "L'odierno attentato a Nairobi si può considerare un episodio isolato e circoscritto. La capitale ieri come oggi è una città sicura e tranquilla". Così come chi ha interesse a promuovere il turismo, o vede la propria attività messa a rischio. ribadisce "la sensazione di sicurezza del Paese" ed invita a "non drammatizzare". Un rituale che si ripete ogni volta soprattutto nella regione costiera dove, incredibile a dirsi, questo altissimo tributo in vite umane viene sminuito a tal punto da proclamare: "Nessuna allerta per le zone turistiche del Kenya", come se Nairobi fosse un luogo atipico ed inusuale per i viaggiatori di tutto il mondo. Al contrario Al Shabaab, si è mostrata capace di colpire in ogni parte del Paese, dove, molto probabilmente, può contare su una rete locale di supporto, che la nutrita presenza di cittadini musulmani rende difficile identificare e quindi neutralizzare. Per contro, gli operatori turistici della costa promuovono iniziative per la raccolta di bottiglie di plastica, ciabatte ed altri rifiuti sulle rive dell'Oceano Indiano. Iniziative rivolte particolarmente ai vacanzieri ogni volta che vanno in spiaggia, dimenticando però che le più grandi "discariche" in Kenya sono proprio i fiumi che lambiscono le baraccopoli di Nairobi (tra cui il Mathare River ed il Nairobi River, due fiumi neri e pieni di rifiuti). Così, cari “mondezzai”, non avete più bisogno di domandarvi da dove principalmente arrivino i “continenti” di plastica che invadono le spiagge di Malindi e dintorni in quanto prossime alla foce del fiume Sabaki. E perché abbia un senso, è proprio a Nairobi che varrebbe la pena svolgere la vostra opera. 


Si è concluso all'alba (16 gennaio) l'attacco terroristico iniziato ieri pomeriggio intorno alle 15.30 a Nairobi con l'uccisione di almeno due dei terroristi che si erano asserragliati al settimo piano di uno degli edifici del Dusit Hotel della capitale.
Nel primo pomeriggio, l’area dov'è avvenuto l’attacco è stata di nuovo transennata dalle forze speciali per impedire il passaggio dei veicoli e gli edifici limitrofi sono stati evacuati. È stato rinvenuto un ordigno che è stato fatto brillare.



Operazione Barkhane nel Sahel
Operazione Barkhane nel Sahel

7 gennaio 2019
MALI. ATTACCHI DEI TERRORISTI E SCONTRI TRIBALI. MORTI E FERITI DAPPERTUTTO

 

Ibrahim Boubacar Keita, presidente del Mali, ha voluto vedere di persona il villaggio di Koulogon, nella regione di Mopti, al centro del Paese, teatro di una atroce mattanza il primo dell’anno. Un gruppo di dozo, cacciatori tradizionali di etnia dogon hanno attaccato il villaggio, abitato per lo più da fulani, alle prime ore dell’alba, uccidendo trentasette persone. Altri abitanti sono stati feriti e parecchie case sono state incendiate. I fulani si occupano per lo più di pastorizia, mentre i dogon sono agricoltori. Per secoli le due etnie hanno convissuto in modo pacifico. Da qualche tempo, invece, gli attacchi ai fulani da parte dei dozo sono molto frequenti e, a causa di questi scontri inter etnici, lo scorso anno sono morte almeno trecento persone.

Le ostilità sono iniziate tre anni fa, con la nascita di un nuovo gruppo terrorista, Front de libération du Macina (FLM), fondato nel 2015 da Amadou Koufa (nome di battaglia Amadou Diallo), un predicatore estremista fulani. Nella primavera scorsa l’FLM, insieme ad altri quattro formazioni terroriste, ha fondato il “Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani”, guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista tuareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine – in italiano: Ausiliari della religione (islamica) – operativo per lo più nel nord del Mali.
Anche se, secondo alcune fonti, nel frattempo Amadou Koufa, sarebbe stato ucciso durante un raid delle forze speciali francesi in Mali lo scorso novembre, le ostilità e le incursioni dei dozo si susseguono.

Durante alcune incursione dei miliziani sono stati uccisi quarantasette civili tuareg tra l’11 e il 12 dicembre in diverse località nel sud della regione Ménaka, nel nord del Mali. Gli attacchi (non confermati da fonte indipendente) sono stati resi noti in un comunicato del Movimento per la salute dell’Azawad (MSA), nato da una scissione dal Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad (CMA). L’ MSA è vicino al gruppo filo governativo GATIA (Gruppo di autodifesa tuareg Imghad e alleati).

Sono ancora diversi gli ostaggi occidentali in mano ai jihadisti del Sahel. Tra loro anche Sophie Pétronin, ora settantatreenne, cittadina francese, rapita a Gao la vigilia di Natale del 2016. Attualmente è in mano al Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani. Recentemente il figlio della signora, Sébastien Chadaud-Pétronin, ha accusato Parigi di aver rifiutato una proposta dei rapitori che avrebbe permesso la liberazione della madre, in stato di salute precario, dovuto anche all'età. La Pétronin è nel Paese dal 2004 ed era la direttrice ONG svizzera di Burtigny nel Cantone di Vaud, l’Association d’Aide à Gao.
Il 6 gennaio scorso l’UNICEF ha reso noto che attualmente nel Mali sono chiuse ottocentodiciassette scuole, molte delle quali nel centro e nel nord del Paese. Lucia Elmi, rappresentante di UNICEF nel Paese ha espresso la sua preoccupazione per quei oltre duecentocinquantamila alunni che sono privati dell’istruzione per la grave crisi di insicurezza nel Paese.
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha rinnovato il 28 giugno scorso (risoluzione 2423) il mandato della Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione nel Mali (MINUSMA) per un altro anno, con la presenza di 13.289 militari sul campo e 1.920 forze di polizia. I membri del Consiglio hanno tuttavia chiesto al Segretario generale dell’ONU il massimo impegno affinché venga applicato in toto e quanto prima il trattato di Pace e di Riconciliazione, firmato dalle parti nel 2015.
Malgrado tutte le forze in campo – oltre a MINUSMA, sono presenti anche le truppe francesi con la Missione Barkhane che comprende quattromila uomini in tutto il Sahel, millesettecento dei quali sono stanziati nel solo Mali e il nuovo contingente tutto africano Force G5 Sahel, con sede a Bamako – gli attacchi dei jihadisti e i conflitti inter etnici non si placano.
La Force G5 Sahel, contingente composto esclusivamente da militari africani dei cinque Paesi aderenti al G5 Sahel – Mauritania, Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger – è stato elogiato dal ministro della Difesa francese, Florence Parly, per la sua partecipazione ad un’operazione congiunta in Niger, tra soldati nigerini e francesi di Barkane. Lo stato maggiore di Parigi ha fatto sapere che il 30 dicembre sono stati uccisi una quindicina di jihadisti, presumibilmente appartenenti al gruppo terrorista Etat islamique dans le Grand Sahara (EIGS).
A fine dicembre il Qatar ha inviato ventiquattro veicoli blindati in Mali, quale contributo per combattere il terrorismo in tutto il Sahel Gli automezzi sono stati trasportati da aerei militari di Doha.
E sempre a dicembre anche El Salvador ha inviato una seconda unità di aviazione con tre elicotteri MD 500E in Mali, che saranno utilizzati nell'ambito di MINUSMA. Attualmente partecipano duecento militari del Paese dell’America centrale alla missione dell’ONU nella ex colonia francese.
By Africa Express


Luca Tacchetto ed Edith Blais
Luca Tacchetto ed Edith Blais

6 gennaio 2019
BURKINA FASO. I JIHADISTI ATTACCANO DA TUTTE LE PARTI

 

Il 31 dicembre 2018 il governo del Burkina Faso ha dichiarato lo stato di emergenza in diverse province del Paese a causa dei frequenti attacchi dei jihadisti. Inizialmente le incursioni dei terroristi erano per lo più concentrate al confine con Niger e Mali, ma ora si sono estese anche in altre regioni, in particolare nell'est, nelle zone confinanti con il Togo e il Benin.

Il presidente, Roch Marc Christian Kaboré,  oltre aver dichiarato lo stato d’emergenze in diverse zone, ha dato anche disposizioni particolari sulla sicurezza che devono essere estese su tutto il territorio nazionale.
Tali misure si sono rese necessarie dopo l’uccisione di dieci gendarmi in prossimità del confine con il Mali; l’attacco è stato rivendicato dal raggruppamento terrorista Jama’at Nasr al-Islam wa al-Muslimin (Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani), formato dall'unificazione di diverse formazioni armate, già attive da anni nell'area. Il raggruppamento, creato nel marzo 2017, è capeggiato da Iyad Ag-Ghali, alleato con Al Qaeda e i talebani afgani.

Il Burkina Faso è diventato un target dei gruppi affiliati ad Al Qaeda e negli ultimi anni si sono susseguiti anche ben tre attacchi nella capitale Ougadougou. Nel 2016 era stato preso di mira l’Hotel Splendid e il caffè-ristorante “Cappuccino”, mentre nell'estate del 2017 è stata la volta del ristorante Aziz Istanbul e nel marzo 2018 ci sono stati ben due assalti in pieno centro della capitale: l’ambasciata francese e lo Stato maggiore dell’esercito sono stati attaccati da uomini armati. Durante questi tre attentati sono morte sessanta persone, tra loro anche parecchi stranieri.
I continui assalti dei jihadisti sono dovuti quasi certamente alla presenza dei soldati francesi dell’Operazione Barkhane, operativa in tutto il Sahel con oltre quattromila uomini, proprio per contrastare il terrorismo. Inoltre, il Burkina Faso è anche membro del G5 Sahel – insieme a Niger, Mali, Mauritania e Ciad – che recentemente ha dato il via ad un nuovo contingente tutto africano (Force G5 Sahel), che stenta ancora a decollare e combattere attivamente la presenza dei gruppi armati affiliati ad Al Qaeda nei cinque Paesi coinvolti.

I conflitti inter-etnici sono un’altra piaga in Burkina Faso. Il 25 dicembre un gruppo di uomini armati ha attaccato Yirgou, villaggio abitato per lo più da pastori fulani, nel centro-nord del Paese. Il bilancio dei morti è molto alto. In un primo momento il governo aveva annunciato che sedici persone erano state brutalmente ammazzate, mentre pochi giorni fa ha ammesso che in tale occasione hanno perso la vita quarantasei residenti. Un testimone oculare riferisce, invece, che i morti sarebbero almeno quarantotto, quasi tutti di etnia fulani.

“Appena sono arrivato sul posto, i Koglweogo, un gruppo di autodifesa di etnia Mossi, stavano bruciando le case dei fulani”, ha riferito il testimone e ha aggiunto: “Ora non ci sono quasi più giovani nel villaggio, non restano che donne, bambini e vecchi, perché gli assalitori appena giunti sul posto, sono entrati nelle abitazioni e hanno sgozzato i maschi”.
By Africa Express

Il nostro pensiero non può che andare a Luca Tacchetto, l'architetto padovano di 30 anni partito per l'Africa insieme all'amica canadese, Edith Blais. Entrambi sono scomparsi lo scorso 15 dicembre in Burkina Faso.
"Era un viaggio pianificato a tavolino. Avevano percorso quasi 9mila km attraversando in macchina il Marocco, la Mauritania e il Mali. Mio figlio è una persona che ha viaggiato in tutto il mondo, non uno sprovveduto", racconta ai microfoni di Sky tg24 Nunzio Tacchetto, il padre di Luca. La destinazione era il Togo, dove Luca era atteso per collaborare, come "volontario", alla costruzione di un villaggio.
Ma i criteri di misura per un trasferimento, un viaggio, una vacanza o "opere di volontariato" in Africa rimangono sempre l'informazione e la competenza, perché spesso vengono fatti programmi a tavolino, senza avere conoscenza del continente africano. Oltre al fatto che percorrere certi itinerari a bordo di una autovettura Renault Megane Scenic (casa automobilistica francese) e ancor più con targa straniera (nel caso specifico italiana), è certamente un incauto gesto che palesa ingenuità e non certo esperienza e maturità.

La sparizione del ragazzo padovano e della sua compagna canadese segue di poche settimane al rapimento di Silvia Romano, la "volontaria" milanese di cui non si hanno più notizie dallo scorso 20 novembre quando fu rapita nei pressi di Malindi in Kenya.
Speriamo che il nostro sia semplicemente un falso allarmismo.


Amal Fathy con il marito Mohamed Lotfy
Amal Fathy con il marito Mohamed Lotfy

1 gennaio 2019
EGITTO. IL GIUDICE CONDANNA AMAL FATHY PER AVER CRITICATO LE AUTORITÀ

 

Due anni di galera per aver criticato le autorità egiziane di non contrastare le molestie sessuali. È la sentenza della Corte d’appello di Maadi Misdemeanors del 30 dicembre contro Amal Fathy, moglie di Mohamed Lotfy, difensore egiziano della famiglia Regeni.
Amal, dopo aver subito molestie sessuali, in un video aveva “osato” criticare le autorità di non contrastare i comportamenti lesivi e molesti della sfera sessuale. Da vittima delle molestie è stata invece accusata dalle autorità egiziane di diffusione di notizie false e, in appello, è stata confermata la condanna.

Immediata la reazione di Amnesty Internazional attraverso Najia Bounaim, direttrice delle campagne dell’ONG in Nord Africa, che ha definito la sentenza “oltraggiosa ingiustizia”.
“Il fatto che una persona che ha subito molestie sessuali sia punita con due anni di carcere semplicemente per aver raccontato la sua esperienza è profondamente vergognoso. Questa sentenza rappresenta una parodia della giustizia e dovrebbe rimanere come una macchia sulla coscienza delle autorità egiziane”, ha dichiarato Bounaim.

Amal Fathy accusata, in un’altra inchiesta, di “appartenenza a un gruppo terroristico” e altri reati, è stata in detenzione preventiva per oltre sette mesi. È stata scarcerata lo scorso 26 dicembre e i termini del rilascio condizionale prevedono che debba trascorrere un’ora alla settimana in una stazione di polizia. Può lasciare la sua abitazione solo per presentarsi alla polizia o per visite mediche.
La conferma della condanna, pochi giorni dopo il rilascio condizionale di Amal, fa pensare a un accanimento verso la coppia Fathy-Lofty. Mohamed Lotfy, già ricercatore di Amnesty International è direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, ONG che fornisce consulenza legale alla famiglia Regeni.

Anche l’avvocato Alessandra Ballerini difensore italiana della famiglia Regeni, in una nota su Facebook, prende dura posizione contro la sentenza.
“Apprendiamo con sgomento la notizia della conferma della condanna a due anni di carcere ai danni di Amal Fathy. Questi sette mesi di detenzione hanno causato gravissime sofferenze psicofisiche per Amal che è dimagrita 20 chili e soffre di gravi problemi di salute. Non un giorno di detenzione in più sarebbe per lei sopportabile”, scrive Ballerini.
La legale della famiglia Regeni chiede al governo italiano e alle ambasciate dei paesi “amici” al Cairo di attivarsi immediatamente ed intercedere con il presidente al Sisi affinché conceda il perdono e Amal non debba tornare in carcere.
“Amal non è colpevole di nulla, ma paga il coraggio e la determinazione del marito e del nostro team di legali egiziani nel chiedere al nostro fianco e gratuitamente verità per Giulio. A loro va la nostra commossa gratitudine e la promessa che faremo quanto in nostro potere per liberare Amal e non lasciarla mai sola”, afferma la legale della famiglia Regeni.
By Africa Express


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